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I gatti fluorescenti che non si ammalano di Aids.
By Admin (from 03/10/2011 @ 08:00:43, in it - Scienze e Societa, read 1748 times)

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Nei laboratori della Mayo Clinic College of Medicine, in Usa, un gruppo di ricerca ha fatto nascere tre gatti speciali. Si chiamano TgCat1, TgCat2 e TgCat3 e, oltre a diventare verdi se illuminati da luce ultravioletta, possiedono una caratteristica straordinaria: sono immuni dagli attacchi del virus dell’immunodeficienza felina (FIV). I tre gatti hanno acquisito questa resistenza grazie a un gene di macaco impiantato nel loro dna. Il gene in questione, chiamato TRIMCyp, sintetizza una proteina che attacca il virus felino proteggendo il sistema immunitario delle scimmie dall’infezione e sembra garantire lo stesso tipo di protezione anche ai globuli bianchi dei gatti.

Il Fiv agisce nello stesso modo dell’Hiv: aggredisce il sistema immunitario compromettendone il funzionamento e rendendo l’organismo più vulnerabile nei confronti di malattie e infezioni. Da quando è stato scoperto, il virus dell’immunodeficienza umana ha causato più di 30 milioni di morti e siamo ancora lontani dal trovare una cura efficace per debellare l’Aids. I felini non se la passano meglio: ogni anno, milioni di gatti contraggono il virus, e la sindrome interessa tutte le specie di questi animali, rappresentando un’ulteriore minaccia alla loro già critica sopravvivenza.

Ma per loro, e naturalmente per gli uomini, ci sono interessanti novità. Eric Poeschla e la sua equipe di ricerca della Mayo, assieme a colleghi della Yamaguchi University, in Giappone, hanno sperimentato con successo per la prima volta sui carnivori una tecnica di ingegneria genetica chiamata gamete-targeted lentiviral transgenesis: si tratta di prendere un gene estraneo e inserirlo tramite un lentivirus (virus a rna) nel dna di una cellula uovo non fecondata. Dopo averlo fertilizzato, l’uovo viene quindi impiantato nell’utero per avviare la gravidanza. Utilizzando questa tecnica, i ricercatori hanno impiantato 22 cellule uovo geneticamente modificate attraverso l’inserzione del gene di macaco in cinque gatte. Oltre a quello scimmiesco, nel dna dei felini è stato inserito anche il gene che porta alla sintesi della GFP, la proteina che nelle meduse dona fluorescenza verde (in questo caso necessaria per tracciare la presenza di TRIMCyp).

I 22 impianti hanno portato allo sviluppo di 12 feti, da tre dei quali sono nati TgCat1, TgCat2 e TgCat3. Anche se non tutte le gravidanze sono andate a buon fine, come si legge nello studio pubblicato su Nature Methods, il dna di 11 feti ha incorporato il gene estraneo, dimostrando l’efficacia della tecnica. Inoltre, uno dei tre gatti si è accoppiato dando alla luce cuccioli il cui dna possedeva il gene di macaco, dimostrandone l’ereditarietà. Dopo il parto, i ricercatori hanno subito cercato di capire se i gattini geneticamente modificati mostravano resistenza al Fiv, ma per farlo, il virus non è stato inoculato direttamente nei gatti bensì in colture di globuli bianchi prelevati dal loro sangue.
I risultati in vitro sono stati positivi: il TRIMCyp inserito nel dna felino sintetizzava proteine capaci di distruggere l’involucro esterno del Fiv, impedendogli l’attacco alle cellule immunitarie.

Anche se questo approccio non verrà utilizzato direttamente sugli uomini e sui felini (in altre parole non saremo ingegnerizzati con geni di macaco, né lo saranno i nostri gatti), servirà a capire in che modo determinati geni possono aiutare a sviluppare un’efficace terapia per combattere l’Aids. Ma nonostante l’entusiasmo generale, alcuni sono scettici di fronte alla possibilità di usare gatti come modello di studio umano. “È fantastico che siano stati creati gatti geneticamente modificati con questa tecnica - ha commentato su New Scientist Theodora Hatzjioannou dell’Aaron Diamond Aids Research Center di New York - ma le scimmie sono più utili nella ricerca sull’Aids perché il Siv (il virus che causa immunodeficienza nei primati, ndr) è evolutivamente  più vicino all’Hiv di quanto non lo sia il Fiv”.

Fonte: Galileonet.it - Riferimenti: Nature Methods doi:10.1038/nmeth.1703 - Via: Wired.it