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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 

Dopo quello sensibile alla luce, alle variazioni di pH, all’anidride carbonica o alla temperatura, arriva il primo sapone sensibile al campo magnetico. Come è stato realizzato? È bastato trasformare le molecole di detergente in piccoli centri metallici, aggiungendo alla soluzione atomi di ferro. In questo modo il sapone è diventato a controllo magnetico, così che lo si possa rimuovere da una soluzione dopo aver svolto le operazioni di pulizia, senza lasciar traccia. A creare il sapone magnetico, che potrebbe anche essere utilizzato per la bonifica degli sversamenti petroliferi in mare, sono stati i ricercatori della University of Bristol (Gb), guidati da Julian Eastoe.

Un sapone è fatto di molecole con una duplice affinità: una idrofobica (che ama i grassi e quindi si lega a molecole di questo tipo) e una idrofila ( amante cioè dell’acqua). Il potere sgrassante, e quindi pulente, risiede nella capacità del sapone di legarsi alle molecole di grasso e al tempo stesso di essere lavato via dall’acqua. Per essere utilizzato nelle bonifiche degli sversamenti di petrolio in mare, però, il sapone dovrebbe essere anche facilmente rimovibile. E qui nasce l’idea dei ricercatori, pubblicata su Angewandte Chemie, simile per concetto a quello che facciamo con una calamita quando raccogliamo un ago da terra.

Il problema è che il sapone normalmente non è un metallo con proprietà magnetiche come l’ago, o almeno non abbastanza. Per questo i ricercatori di Bristol hanno aggiunto del ferro ai tensioattivi composti di ioni cloruro e bromuro, del tutto simili a quelli che si possono trovare nelle nostre case, ha spiegato Eastoe alla Bbc. In questo modo gli scienziati hanno trasformato le particelle di sapone in centri metallici, come confermato dalle analisi effettuate dai ricercatori dell’ Institute Laue Langevin di Grenoble, in Francia, analizzando il detergente con tecniche di scattering di neutroni (un sistema che permette di avere informazioni sulla struttura della materia).

Non è tutto. Gli scienziati sono infatti riusciti a dimostrare che il sapone può essere realmente maneggiato magneticamente in soluzione. Quando introdotto in un tubo in presenza di acqua e petrolio, le particelle di sapone possono superare la forza di gravità e la tensione superficiale dei liquidi, muovendosi in direzione del magnete. Questa capacità renderebbe lo speciale sapone utilizzabile in molti casi in cui è necessario intervenire con bonifiche. Anche - almeno a livello teorico - per ripulire le acque dagli idrocarburi come quelli della macchia d'olio al largo dell’ isola del Giglio, appena rilevata e causata dal naufragio della Costa Concordia, su cui stanno attivando le prime procedure per lo svuotamento dei serbatoi di carburante che minacciano l'ambiente circostante.

Fonte: Wired.it

 

Non ci sono solo video, musica e software pirata nel calderone di Megaupload, il sito chiuso tempo fa dall’Fbi. C’è anche l’altra metà della mela: contenuti legali, con tanto di copyright e distribuiti in maniera del tutto legittima. Che adesso rischiano di andare perduti per sempre, insieme, forse, ai soldi per l’acquisto di spazi premium di data storage. Perché ci sono utenti che usavano il servizio di Kim Shmitz per immagazzinare foto e video da mostrare a parenti lontani, o per raccogliere file musicali da condividere con colleghi dall’altra parte del mondo, in modo del tutto legale. Adesso, oltre a rischiare di perdere i propri contenuti, si ritrovano a ripiegare su servizi come Dropbox. Non senza però, come spiega Ars Technica. Perché, parola agli utenti, Megaupload rappresentava la soluzione ideale in termini di capacità storage, velocità di caricamento dei file e semplicità di condivisione.

Se è vero che il danno collaterale - come lo chiama uno degli utenti sul forum di Ars Technica riferendosi all’oscuramento anche dei file condivisi in maniera legale - c’è, è altresì vero che Megaupload nelle sue Faq aveva messo in guardia i propri clienti, invitandoli a salvare copie dei propri file e paventando anche il rischio che un giorno, senza preavviso, i dati sarebbero potuti diventare indisponibili o addirittura andare perduti.

Eppure questo non basta a calmare la sfilza di utenti che reclamano i propri contenuti immagazzinati nel tesoriere di Megaupload, come spiega Mark Ellul, che usava il servizio per scopi tutt’altro che illegali: “Usavo il mio account per lo storage online e per backup, e anche per inviare i miei video personali dalla Spagna all’Australia, così che i miei genitori potessero vedere i filmati in hd delle loro nipoti”.

Ma c’è anche tanta musica (legale) su Megaupload. Dai file mp3 dei concerti della banda rock Phish (che permette di registrare i propri pezzi), a tracce musicali originali inviate a distanza, dal Colorando all’Alaska (per citare un esempio): si poteva caricare file fino a 8GB senza alcun problema. Ancora, c’è chi lo usava come un raccoglitore: “Alcuni dei miei progetti sono troppo grandi per servizi come YouSendIt. Un account gratis su Megaupload invece ti permette di inviare file fino a 2GB. E io non ho idea di dove caricherò i miei file ora” scrive ancora la musicista Suzanne Barbieri.

Ma a quanto pare Megaupload era la piattaforma perfetta anche per gli sviluppatori di Android, come Massimiliano Fanciulli, che su Google+ scrive: “Usavo il servizio per distribuire le versioni beta della mia app Sleepy, prima di pubblicarla sull’Android Market”. 

E mentre comincia la migrazione degli utenti arrabbiati verso servizi alternativi (la lista è lunga, da Dropbox a Google Docs, a RapidShare, a FileSonic) c’è anche chi spera un giorno di poter aver indietro il lavoro e i ricordi imprigionati sul sito, come spiega l’editor Cassandra Olivia ad Ars Technica: “Chiudere Megaupload senza distinguere tra contenuti che infrangono il copyright e quelli che non lo fanno ha causato agli utenti che lo utilizzano in modo legale un disservizio ed è stata una violazione. Troppo generalizzata. Spero di riavere il mio account e le mie foto indietro”. 

Fonte: Wired.it

 

Non più braccia rubate all'agricoltura. Beh, quasi. Per rivalutare i terreni, richiamare i giovani da zone di emigrazione e non disperdere la coltivazione secolare degli ulivi, gli abitanti di Rasquera, hanno deciso di affittare alcuni appezzamenti di terreno per la coltivazione della cannabis il cui consumo personale, in Spagna è considerato legale.

In tempo di crisi ogni soluzione può essere buona per fare cassa o alimentare un sistema economico in difficoltà. La novità, se così si può chiamare, arriva dalla Spagna, per la precisione a Rasquera, neanche 900 abitanti nella provincia di Terragona, dove il Consiglio Comunale ha deciso la destinazione di alcuni terreni. Tutto normale se non fosse che la coltivazione decisa è quella di marijuana, con un ritorno previsto di 1,336 milioni di euro in due anni.

La volontà della giunta di sinistra sarebbe quella di fronteggiare la crisi (e in questo ci sono roiusciti visto che almeno quaranta persone avranno da lavorare) affiancando alla produzione di ulivi, quella di piante alternative. In tutti i sensi.

Con un debito di 1,3 milioni di euro non bisogna andare troppo per il sottile e allora ci si risolve ad accettare l'offerta di nuovi partner. In questo caso quella arrivata dall' Asociacion Barcelonesa Cannabica de Autoconsumo (Abcda), un club «con fini ludico-terapeutici» con 5mila soci, creato per gestire il consumo individuale di cannabis che, in Spagna è consentito.

In cifre la Abcda offrirebbe al comune 36 mila euro per l'autorizzazione alla coltivazione non lucrativa della pianta e 550 mila euro annui per la gestione dei terreni. Per la serie: fare di necessità virtù.

Fonte: trend-online.com - Autore: ROSSANA PREZIOSO

 

Monopolio Siae abolito, anzi no. I minuti successivi alla conferenza stampa di presentazione del decreto liberalizzazioni del governo di Mario Monti hanno fatto (ben) sperare in merito a un rivoluzionario cambiamento della gestione dei diritti d'autore, tradizionalmente nelle esclusive (quantomeno entro i confini nazionali) mani della Società Italiana degli Autori ed Editori. Ulteriori verifiche e analisi di quanto previsto dal comma 2 dell'articolo 39 del decreto, che ricordiamo deve ancora passare al vaglio del Parlamento, hanno permesso di dare una chiave di lettura più precisa.

A venire toccati " al fine di favorire la creazione di nuove imprese nel settore della tutela dei diritti degli artisti interpreti ed esecutori" sono " i diritti connessi al diritto d'autore", la cui " attività di amministrazione e intermediazione" diventa " libera". Monti & Co. sono quindi intervenuti nel campo d'azione del Nuovo IMAIE, che si occupa appunto della riscossione e tutela dei diritti spettanti - ad esempio - ad artisti che effettuano registrazioni o legati all'immagine dei titolari delle opere, e hanno imposto la concorrenza all'interno dello stesso. Si tratta, come spiega a Wired.it il segretario di Agorà Digitale Luca Nicotra, comunque " di un successo enorme, che apre ad altre modifiche del settore: se passa l'idea che una competizione tra enti commerciali o cooperative di autori è vantaggiosa e utile ulteriori aperture sono possibili". Il capitolo IMAIE, aggiunge Nicotra, " era intoccabile" alla stessa stregua di quello Siae, non a caso il commissario straordinario Gian Luigi Rondi ha sentito il bisogno di ribadire l'importanza del ruolo della Società Autori ed Editori nel giorno dell'approvazione da parte del Cdm del decreto.

In Parlamento, aggiunge l'avvocato Guido Scorza, sono già presenti 6 o 7 disegni di legge atti ad abolire il famoso articolo 180 della legge 633 del 1941, che tiene da anni sotto scacco chiunque voglia accedere a materiale con il bollino Siae. Scorza cita, per rendersi conto degli effetti di una gestione monopolistica del settore, lo studio dell'istituto Bruno Leoni, secondo il quale fatto 7 il costo di una serata musicale in termini di diritti in Italia, in Inghilterra bisogna sborsare solo 1. La medesima analisi evidenzia come l'attuale regolamentazione costi ai soggetti coinvolti (autori, discografici e fruitori) 13,5 milioni di euro all'anno.

Fonte: Wired.it

 

Gli  esordi nella piccola criminalità, le prime condanne, le auto sportive, gli eccessi, la vita al limite, i contatti con le parti più in vista dell’industria, le molte identità e l’ arresto rocambolesco (un’operazione di polizia in grande stile che ha messo al lavoro Fbi, Department of Justice e la polizia della Nuova Zelanda, Olanda, Germania, Canada e Filippine) fanno di Kimble o Kim Dotcom o Kim Schmitz o Kim Tim Jim Vestor il più grande malavitoso della Rete. Pur senza aver ucciso nessuno (almeno per quanto se ne sa) l’estensione delle sua attività apertamente illegale, i suoi ricavi, la crescita di un business sempre più mastodontico (18 i domini sequestrati che occupavano il 3% della banda del pianeta) e il suo atteggiamento ricordano da vicino i grandi boss dell’America proibizionista.

Ancora di più  Kimble, come ogni grande capo clan, stava operando il salto mortale della pulizia, stava passando cioè da un business organizzato e criminale ad un’attività lecita e redditizia. Megaupload da tempo ha un’area legale, utilizzata per scambio video e archiviazione che doveva essere il business del futuro, come anche l’annunciato servizio di rental e streaming legale di contenuti, per i quali si diceva fosse in trattativa con le major. Cosa che, se fosse vera, renderebbe l’attacco di stanotte una vera pugnalata alle spalle, roba da realtà che imita il cinema.

Ad ogni modo, vero o non vero, Kim Schmitz operava nel business della soddisfazione dei bisogni degli utenti in maniera non diversa da come  Al Capone faceva quando contrabbandava alcol. Non solo il modo di fare affari era lo stesso ma anche la maniera in cui si rapportava al resto del pianeta sembrava ricordare quell’idea di potere. Per questo e molti altri motivi, sebbene sia sempre meno possibile stare dalla parte dell’autorità quando si tratta di pirateria, copyright e SOPA varie, suona anche stonata la difesa armata operata da Anonymous (che per tutta la notte ha attaccato tramite DDoS diversi server illustri e poco simpatici da quello dell’Fbi, giù fino ad Hadopi). La libertà d’espressione e la ricerca di un’idea di copyright meno estremo possono passare attraverso la pirateria come sistema di scambio tra pari e “resistenza attiva” ad un sistema che non si adegua ma ingrossare il portafogli e aggiungere Rolls Royce, Lamborghini e Maserati al garge di un criminale, invece che foraggiare major ugualmente avide, non è molto diverso nè tantomeno utile o nobile.

Fonte: Wired.it

 

Ha iniziato con un semplice circuito audio e si è ritrovato miliardario. La storia di Ray Dolby, pioniere delle tecnologie digitali nato a Portland (Oregon, Usa) il 18 gennaio 1933, passa letteralmente attraverso il muro del suono. Nel 1949, a soli 16 anni, il suo lavoretto part-time alla Ampex gli permette di mettere le mani sul primo registratore a nastro sul mercato. Così, dopo una laurea a Stanford e un dottorato a Cambridge, il giovane Dolby decide di mettersi in proprio e cambiare il modo in cui percepiamo i suoni incisi sui nastri magnetici.

Esatto, quel Dolby

Tutto inizia con la costruzione del primo compansore, un dispositivo elettronico capace di ridurre il rumore di fondo e i disturbi all'interno dei segnali acustici. L'idea, nata nel 1965 quando Dolby attraversa l'Oceano per fondare i Dolby Labs in Inghilterra, riscosse un grande successo tra gli studi di registrazione professionali. Così, tre anni più tardi, la nuova versione del circuito – il Dolby B-type – venne integrato all'interno dei registratori commerciali: era l'inizio di una grande scalata al successo. 

Nel 1976, Dolby torna negli States e stabilisce definitivamente l'azienda a San Francisco, la città dove aveva trascorso gran parte della sua infanzia. Nel frattempo, grazie a un brevetto riconosciuto nel '69, era nato il Dolby Sound System, ossia la tecnologia che ha dato una svolta agli effetti audio del cinema. In pratica, si trattava di un sistema per migliorare la qualità del parlato all'interno delle pellicole, dove spesso colonna sonora e dialoghi si mescolavano con scarsa qualità. Tanto per capire, il primo film a utilizzare il sistema Dolby è stato un capolavoro del cinema: Arancia Meccanica.

Con il passare del tempo, la tecnologia audio ha fatto altri passi in avanti tenendosi a stretto contatto con il mondo del cinema. Nel 1992, l'atmosfera di Batman il Ritorno è diventata a tutti gli effetti molto più avvolgente di qualsiasi altro film mai proiettato fino a allora. Il capolavoro di Tim Burton è stato il primo a sperimentare l'uso del sistema surround Dolby Stereo Digital, dove la traccia audio veniva scomposta in diversi canali, ciascuno collegato ad amplificatori collocati di fronte, ai lati e alle spalle del pubblico.

Nell'arco di pochi anni, il suono inizia a circondare gli spettatori anche dentro le loro case. Nel 1995 il sistema surround viene applicato all' home vision e si conferma come uno degli standard audio preferiti dai produttori cinematografici. Così, l'impresa fondata da Dolby cresce a dismisura e nel 2005 viene quotata in borsa. Ma nel 2011, dopo 45 anni di attività, il papà del sorround ha lasciato il direttivo dell'azienda per ritirarsi a vita privata e godersi il gruzzolo accumulato nel tempo. Secondo la rivista Forbes, Dolby è uno dei 400 uomini più ricchi d'America: si posiziona al 144° posto con un patrimonio da 2,9 miliardi di dollari.

Fonte: wired.it

 

Un conto è mandare un modulo con equipaggio nello Spazio, un altro è fare in modo che riesca a agganciarsi a una seconda navicella senza il minimo intoppo. Negli anni '60, pensare di poter eseguire una manovra di docking in orbita era tutt'altro che scontato. Deve essere per questo che, quando le navicelle sovietiche Soyuz 4 e Soyuz 5 si sono incontrate a 224 chilometri di altitudine, il centro di controllo di Baikonur è rimasto con il fiato sospeso. Era il 16 gennaio 1969: due cosmonauti russi indossano le tute spaziali e prendono al volo il passaggio offerto da un collega. Un vero successo, ma il ritorno a casa non è stato felice per tutti.

Andiamo con ordine. Il 14 gennaio la Soyuz 4 viene spedita in orbita con a bordo un solo uomo, Vladimir Shatalov. Il suo compito è quello di attendere l'arrivo dei tre colleghi della Soyuz 5, che lasciano il pianeta solo il giorno dopo. L'obiettivo della missione è quello di far incontrare le due navicelle in modo tale da compiere il primo trasferimento di equipaggio mai tentato nella storia. Infatti, i progetti spaziali sovietici miravano alla realizzazione di una base spaziale permanente: un buon motivo per fare un po' di pratica nelle operazioni di aggancio.

Così, verso le 8 di mattina del 16 gennaio, la Soyuz 5 – con a bordo Boris Volynov, Aleksei Yeliseyev e Yevgeny Khrunov – si avvicina alla navicella compagna agganciandosi con una manovra da manuale. E non è poco, visto che per tutti e quattro i cosmonauti – guarda a caso – si trattava della prima missione in orbita. Il resto dell'operazione è, letteralmente, una passeggiata. Yeliseyev e Khrunov indossano le tute spaziali, salutano Volynov e uno alla volta raggiungono Shatalov a bordo della Soyuz 4. Tutto va a gonfie vele, grandi strette di mano, e tutti pronti a tornare verso casa.

Dopo essersi separate, le due navicelle continuano a orbitare intorno alla Terra in attesa di entrare in contatto con le stazioni di controllo e descrivere la rotta di rientro sul pianeta. Il trio a bordo della Soyuz 4 riceve l'ok per il rientro dopo la mezzanotte e alle 7 del mattino del 17 gennaio è già atterrata senza un graffio in Kazakistan. Tutto perfetto, quasi fosse stata una scampagnata tra amici. Ma per Volynov, l'unico rimasto a bordo della Soyuz 5, il viaggio di ritorno si trasforma in un vero e proprio incubo.

Infatti, il modulo di rientro – una piccola capsula adatta giusto a contenere il pilota – non riesce a distaccarsi dal modulo di servizio grazie a cui la Soyuz 5 è arrivata fin lassù. È un bel problema, perché nel frattempo la navicella è entrata in fase di discesa e non può più fermarsi. Solo che l'assetto del modulo è completamente sballato, e la parte più vulnerabile della fusoliera viene esposta direttamente all'attrito causato dal rientro in atmosfera.

In una manciata di minuti, le guarnizioni della Soyuz 5 si fondono, sprigionando fumi tossici che rischiano di intossicare Volynov. È un po' come guidare una macchina contromano con l'abitacolo in preda a un incendio: avvincente quando capita nei film, ma non quando sei a centinaia di chilometri di altitudine e rischi di finire incenerito. Per fortuna, il calore sprigionato dal rientro mette fuori uso gli elementi di connessione tra i moduli, e la capsula orienta il suo schermo protettivo nella direzione giusta: la Terra.

Tuttavia per Volynov i guai non sono ancora finito. Anche se la Soyuz 5 sta rientrando con il giusto assetto, infatti, al momento dell'atterraggio i paracadute e i razzi di frenata non funzionano bene. Lo schianto è tale che l'astronauta si rompe i denti. Altra sorpresa, aprendo il portellone della capsula il russo scopre di essere atterrato nel posto sbagliato: è in mezzo ai monti Urali, a 37°C sotto zero. Nella sfortuna la buona sorte non lo abbandona e riesce a trovare riparo nelle vicinanze e i soccorritori lo trovano sano e salvo davanti a un bel fuoco scoppiettante. Nonostante la brutta avventura, il suo amore per lo Spazio non si affievolisce, e sette anni più tardi, Volynov è di nuovo in orbita.

Fonte: wired.it

 
By Admin (from 23/02/2012 @ 08:02:55, in it - Osservatorio Globale, read 3052 times)

Se cercate informazioni sugli effetti del resveratrolo (una molecola che si trova nell’uva e nel vino rosso) sul cuore e vi imbattete negli articoli di Dipak K. Das, scartateli a priori: sono pura invenzione, frutto delle tecniche e degli escamotage (neanche troppo mascherati) adottati dal direttore del Cardiovascular Research Center dell'Health Center della  University of Connecticut per far tornare i conti. E ora, dopo tre anni dalle prime insinuazioni, anche lo stesso ateneo di Das ha confermato i sospetti, congelando i finanziamenti del professore e mettendo in moto le pratiche per il suo licenziamento.

Truffa ad alta gradazione

Stando all’indagine condotta dall’università, dopo le segnalazioni su possibili ritocchi agli studi di Das, pervenute nel 2008 da fonte anonima, lo scienziato avrebbe alterato i dati delle proprie ricerche sulla molecola ben 145 volte, negli articoli pubblicati da parte di 11 diverse riviste. Ma non solo. Das, infatti, avrebbe falsificato le proprie ricerche anche in tre richieste di finanziamento.

Di mira sono soprattutto le opere di taglia e cuci effettuate dallo scienziato con le bande di Western Blotting (una tecnica utilizzata per identificare e misurare i livelli di proteine). Come è stato possibile? Stando a quanto riporta il Time, Das avrebbe operato per lo più da solo, dividendo le sue ricerche in singoli esperimenti, di modo che gli altri autori degli studi non fossero coinvolti nell’elaborazione dei dati. Anche se, come scrive Nature, l’università sta indagando sul possibile ruolo di studenti e collaboratori del laboratorio di Das.

In realtà, l’ipotesi sull’esistenza di complici sarebbe più di un sospetto, visto che - come si legge nella sintesi del rapporto di quasi 60mila pagine compilato dall’università - uno studente avrebbe scritto a Das:  “Ho cambiato le figure come mi avevi detto”. Malgrado le prove, però, il professore continua a dichiararsi estraneo alla vicenda delle manipolazioni. Le conferme potrebbero arrivare dalle indagini che anche l’ Office of Research Integrity sta conducendo sul caso.

Come ricorda il Time, Das non è certo l’unico ad aver truccato i dati scientifici. Sin dalla beffa di Piltdown, la storia della scienza è piena di frodi e bufale.

Fonte: wired.it

 

La svolta social di Google sta continuando a far discutere. Alle prime critiche per aver integrato Google+ e lasciato fuori Twitter e Facebook il presidente Eric Schmidt aveva risposto su Marketingland accusando Twitter di essersi tirato fuori da solo non rinnovando l’accordo che avevano con Google, e comunque dichiarandosi “felice di aprire un dialogo”. Ora si attende la risposta alle critiche piovute dall’Electronic Privacy Information Center (Epic) secondo cui Google Search Plus Your World potrebbe violare le norme sull’Antitrust. L’Epic, riporta Cnet, ha chiesto alla Federal Trade Commission di indagare sulla cosa e di verificare pure se il nuovo strumento di ricerca social non violi gli accordi precedentemente presi da Google con l’Ftc a garanzia della privacy degli utenti.

L’accusa infatti è la stessa sollevata nei confronti di Buzz un anno fa: con l’opt-in per tutti gli utenti Gmail l’indirizzo di posta veniva di fatto reso disponibile agli utenti Buzz. Già allora l’Fta aveva concordato con l’Epic. Google si trova ora ad affrontare gli stessi problemi che ebbe Microsoft quando introdusse Internet Explorer in Windows, che ora propone la scelta del browser. D’altra parte, proprio per gli accordi che anche Facebook ha preso con l’Ftc, sembra difficile che il social network possa essere indicizzato da Google per inserire i contenuti nelle ricerche, sottolinea PcMag.

Google Search Plus è stato attivato ieri per ora solo su Google.com. La mancanza del bottone per l’opt-out fa storcere il naso. Google l’aveva annunciato: arriverà. Il fatto che non ci sia sembra strategia per far conoscere il servizio. Al momento l’unico modo di evitare che post, foto, video e commenti dei nostri contatti Google+ finiscano nelle nostre ricerche è fare il logout dal nostro Google account. Sottolinea Socialfresh: il 31,8% degli utenti effettua ricerche rimanendo loggato. Proprio su questo batte l’Epic: gli utenti di Google+ non hanno mai accettato che Google tratti in questo modo i propri dati personali, quindi l’opt-in viola le regole sulla privacy. A ben vedere, lo fa in parte: nelle opzioni del profilo Google+ c’è la possibilità che il nostro profilo appaia o meno in Google Search. Però si parla esclusivamente di profilo e non di contenuti.

Noi l’abbiamo usato un po’ e abbiamo notato alcune cose che non ci hanno convinto. I contatti nella search box sono molto carini, ma noiosi. In alcuni casi bastano due lettere per veder comparire al posto del suggerimento per completare la ricerca la faccina di un contatto. In altri casi ce ne vogliono quattro, mentre Google parlava di tre. Questo migliora le nostre ricerche? No: se cerchiamo qualcuno di solito non lo conosciamo o non siamo ancora suoi amici.

Nei risultati delle ricerche l’integrazione c’è e non è così invadente. Almeno per ora: a usare Google+ sono 60 milioni di persone in tutto il mondo, ma soprattutto in America.

E soprattutto geek, nerd, appasionati di tecnologia e brand del mondo della comunicazione. Così la ricerca per “ Obama” non mi dà risultati plus, a parte suggerirmi un amico nella search box. Cercando “ music” invece il primo risultato è Britney Spears e il secondo Snoop Dogg, entrambi con 1,3 milioni di fan circa. È un vantaggio? Per noi no. Inoltre: come può un cantante che apre oggi un profilo su Google+ arrivare qui?

Attualmente Google Search Plus è integrato totalmente solo con Chrome. Con gli altri browser vengono proposti solo i suggerimenti. E solo su Chrome è possibile eseguire l'opt-out per la durata di una sessione: dal simbolo ingranaggio bisogna selezionare le opzioni di ricerca e togliere la flag a quella relativa ai contenuti personali. Dopo averlo provato con Chrome siamo rimasti ancora più delusi: i contenuti social hanno spesso poco a che fare con le finalità delle nostre ricerche, benché aggiungano un ulteriore livello di approfondimento orizzontale a queste.

Searchengineland nota: se non sei su Google+ non sei nei suggerimenti di Google Search. Quindi, come farsi trovare da Google Search Plus? Ecco le linee guida di Google. La prima cosa è creare un profilo Google+ completo in tutti i suoi aspetti. Per farlo, la cosa migliore è fare il logout dal proprio account Google, cercare il proprio profilo in google.com e cliccare sul bottone per l’update. Se avete un blog o scrivete da qualche parte nel Web, compilate anche la sezione contributor e chiedete la verifica della mail. Ora occorre usare Google+ postando update, foto e video relativi agli argomenti per cui ci interessa essere correlati.

Come in Facebook, possiamo creare una pagina fan, ma qui si può fare solo per entità diverse da noi, in quando il nostro profilo personale su Google+ è già pubblico. Anche in questo caso dobbiamo condividere. Su Google+. Un esempio di quanto la cosa sia interessante per i brand: cercando “ cars” i miei suggerimenti sono la pagina della Ferrari e della Bmw. Altre marche nei risultati della ricerca non ci sono. Curiosamente, per “ computer” il primo suggerimento è Linus Torvalds, creatore di Linux, e il secondo Leo Laporte, uno dei più famosi tech journalist americani.

Fonte: wired.it

 

C'è sempre una buona occasione per battere i record, anche quando si tratta di ricerche astronomiche ai confini del sistema solare. Tutto merito del telescopio spaziale Kepler, il gioeillino della Nasa che lo scorso dicembre ha individuato le tracce dei tre esopianeti rocciosi più piccoli conosciuti finora (ma, dopo averli scoperti, cosa si fa?). Si chiamano Koi-961.01, 02 e 03: i nomi non sono il massimo, ma le loro dimensioni ridotte (il minore, 03, è la metà circa della Terra), come racconta New Scientist, hanno suscitato l'interesse dell'intera comunità di astronomi sparsi per il mondo.

La scoperta è stata annunciata durante il meeting dell' American Astronomical Society tenutosi a Austin, Texas, dall’8 al 12 gennaio. Il trio di pianeti orbita intorno a una stella di modeste dimensioni – Koi-961, una nana rossa – localizzata nella nostra galassia e incapace di suscitare un qualsiasi interesse scientifico in tutti coloro che scrutano lo spazio profondo alla ricerca di segnali particolari. Non a caso, la presenza dei tre mini esopianeti è stata ignorata per anni, fino a quando l'astronomo dilettante inglese Kevin Apps non ha notato qualcosa di strano nel grande calderone di dati estrapolati da Kepler.

Infatti, il passaggio dei tre piccoli pianeti sconosciuti davanti a Koi-961 modificava in modo impercettibile il suo spettro luminoso, lasciando una traccia che il pignolissimo Apps ha fiutato subito come buona. Gli è bastato spedire una email a John Johnson, astronomo del California Institute of Technology di Pasadena, per far suonare i campanelli di allarme. Forse Koi-961 aveva in serbo qualche bella sorpresa.

Così, per raccogliere più informazioni sul trio di esopianeti, Johnson ha aperto gli occhi del Keck Observatory puntandoli sulla nana rossa individuata da Apps. È bastata una analisi della variazione della radiazione luminosa proveniente della stella per dedurre le dimensioni dei pianeti. Ed eccoli, i tre compagni di Koi-961 avevano rispettivamente una misura paria a 0.78, 0.73 e 0.57 volte quella della Terra.

Comunque sia, il trio di pianeti rocciosi non sembra riservare altre grandi sorprese. La temperatura sulla loro superficie è di circa 200°C, quanto basta per escludere la presenza di acqua allo stato liquido e depennare i fratelli Koi-961 dalla lista di esopianeti su cui cercare probabili tracce di vita. Almeno per adesso, Koi-961.01 detiene ancora il record di pianeta più piccolo mai individuato finora. Ma in futuro, l'incessante ricerca da parte di Kepler potrebbe individuare nuove stelle vicino a cui cercare altri corpi celesti di dimensioni ridotte.

Fonte: wired.it

 
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Now Colorado is one love, I'm already packing suitcases;)
14/01/2018 @ 16:07:36
By Napasechnik
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By Anonimo
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21/11/2016 @ 09:40:41
By Anonimo


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