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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 

Nel primo caso il paziente è capace solo di movimenti riflessi, al contrario una persona in stato di minima coscienza dà segni, seppur minimi, di attività motoria volontaria, come il movimento degli occhi per seguire un famigliare. Ma cosa cambia a livello cerebrale? Se lo sono chiesti i ricercatori dell’Università di Liegi, dell’University College of London e dell’Università di Milano, scoprendo che la presenza di un certo grado di coscienza è associata all’abilità di diverse parti del nostro cervello di interagire tra loro in modo bidirezionale. Il loro studio è stato pubblicato su Science. Marcello Massimini, neurofisiologo dell’Università di Milano, che ha preso parte allo studio, spiega a Galileo l’importanza e il significato delle scoperta.

Dottor Massimini, perché è così difficile distinguere tra stato vegetativo e stato di minima coscienza?

“La difficoltà deriva dal fatto che, tipicamente, valutiamo la presenza di coscienza sulla base della capacità di un soggetto di interagire e comunicare con il mondo esterno, un metodo efficace ma non sempre sensibile. È infatti possibile che un soggetto sia completamente isolato dal mondo esterno, incapace di comunicare e sia, tuttavia, cosciente. Una situazione di questo tipo può occorrere a tutti noi durante la fase REM del sonno quando, benché incapaci di ricevere stimoli dall’ambiente esterno e benché paralizzati, sogniamo. A maggior ragione questa dissociazione tra capacità di coscienza e capacità di comunicare con il mondo esterno può occorrere in pazienti affetti da gravi lesioni cerebrali nei quali le vie sensoriali e le vie motorie possono essere interrotte”.     

Come viene stabilità oggi a livello clinico la differenza tra i due stati?

“La diagnosi differenziale tra questi due stati si basa sulla somministrazione di test neuropsicologici specifici come la Coma Recovery Scale Revised. Fondamentalmente, queste scale valutano la capacità del paziente di fornire risposte motorie adeguate a fronte di stimoli più o meno specifici. Se queste risposte sono presenti, non vi è dubbio che il paziente sia, in qualche misura, cosciente. Il problema si pone quando la persona non risponde: in questo caso rimane il dubbio che il paziente sia cosciente, pur senza riuscire a scambiare informazione con l’ambiente esterno. Dunque, nel caso dell’esame clinico di chi ha subito una grave lesione cerebrale, l’assenza di una prova di coscienza non è necessariamente prova dell’assenza".

Quali sono invece le differenze tra stato vegetativo e stato di minima coscienza a livello cerebrale da voi studiate?

“Utilizzando l’elettroencefalogramma ad alta densità e un protocollo di stimolazione acustica (un tono acustico diverso, nel contesto di una sequenza di toni omogenei) abbiamo osservato un’importante differenza nel modo in cui l’informazione sensoriale viene processata dal cervello di pazienti in stato vegetativo rispetto a pazienti che sono in uno stato di coscienza minima. Come accade nel caso di soggetti sani, nei pazienti in stato di coscienza minimale uno stimolo sensoriale rilevante (un tono acustico diverso appunto) genera prima un’onda di attivazione neurale che procede dal basso verso l’alto, dalle aree corticali sensoriali primarie del lobo temporale verso le aree associative frontali, e poi un’onda in direzione opposta (top-down). Proprio quest’onda di rientro, dalle aree frontali associative a quelle sensoriali, manca nei pazienti con una chiara diagnosi di stato vegetativo”.

Che significato hanno queste differenze?

“Questi risultati confermano l’ipotesi che la coscienza derivi dalla capacità di diverse aree cerebrali di influenzarsi reciprocamente e dinamicamente. In altre parole, la coscienza dipende dalla capacità di un cervello di sostenere una complessa rete di comunicazione al suo interno e dallo svolgersi di un dialogo continuo e bidirezionale tra le aree corticali primarie e quelle associative. In futuro, lo sviluppo di metodiche in grado di ascoltare direttamente questo dialogo interno al cervello rappresenterà un passo importante per la diagnosi e la comprensione dei disturbi della coscienza in pazienti portatori di gravi lesioni cerebrali”.

Detail-coscienza

In che modo sarà possibile comprendere meglio il “dialogo interno del cervello”?

“Il nostro studio era focalizzato su un particolare circuito, quello temporo-frontale, ma in realtà bisognerebbe valutare la capacità di comunicazione su una scala più vasta e generale. Per questo vale la pena sviluppare nuove tecniche di misura, come la combinazione di stimolazione magnetica transcranica e di elettroencefalografia, che siano in grado di accedere direttamente alla molteplicità di circuiti che costituiscono il sistema talamo-corticale”.

Fonte: galileonet.it

 

Una soluzione al problema potrebbe arrivare da un nuovo tipo di cuffiette che gli ingegneri della AsiusTechnologies di Longmont (Usa), guidati da Stephen Ambrose, hanno presentato a Londra sabato 14 maggio 2011, in occasione della 130ma convention della AudioEngineering Society. La nuova tecnologia promette di ridurre tutte le sollecitazioni sonore sgradevoli per i timpani grazie a un semplice palloncino.

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Gli studiosi hanno realizzato diversi modelli teorici dimostrando che, nello spazio chiuso tra la cuffia e il timpano, le onde sonore producono una pressione oscillante che mette a dura prova i piccoli muscoli alla base del 'riflesso acustico'. Grazie a questo meccanismo di difesa, l'orecchio scherma i suoni riducendoli di circa 50 decibel prima di trasmetterli dal timpano alla coclea. L'effetto che ne risulta causa una percezione ridotta del suono, che induce ad alzare il volume della musica. Lo sforzo dei muscoli di difesa aumenta vertiginosamente tanto da far sì che i sintomi di 'listener fatigue' si manifestino sotto forma di un fastidio più o meno pronunciato.

Per contrastare questo effetto, Ambrose e il suo team hanno pensato di realizzare un auricolare dotato di un cuscinetto esterno per frenare l'impatto delle onde sonore dirette verso il timpano. Il nuovo sistema – Ambrose Diaphonic Ear Lens (Adel) – si serve di una minuscola pompa che sfrutta la pressione generata dalle onde sonore per gonfiare una membrana protettiva all'interno dell'orecchio. Questo palloncino, a base di un polimero elastico, agisce come un secondo timpano in grado di dissipare l'eccesso di onde sonore senza il bisogno di stressare i muscoli del riflesso acustico. Oltre a migliorare la qualità audio, gli auricolari Adel ridurrebbero sensibilmente la 'listener fatigue'.

L'idea della Asius è stata valutata positivamente dalla National Science Foundation (Nsf), che ha deciso di finanziarla. “I dispositivi di Ambrose hanno subito attirato la nostra attenzione” - ha dichiarato Juan Figueroa, responsabile del programma di sviluppo tecnologico dell'Nsf – “le possibilità che offrono nel filtrare le onde sonore per i dispositivi audio rappresentano un avanzamento tecnologico in grado di migliorare il  benessere della società”.

Fonte: galileonet.it

 
By Admin (from 23/07/2011 @ 11:00:34, in it - Scienze e Societa, read 2153 times)

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A 5.600 metri di quota, sulla cima di Kala Patthar del monte Everest, c’è una finestra da cui chiunque, da oggi, può affacciarsi e ammirare la vetta più alta del mondo. Basta infatti collegarsi al sito evk2cnr.org vederla comparire in tutta la sua magnificenza, in tempo reale e ad alta risoluzione.

La telecamera, attiva da questa mattina, è stata installata dalla Spedizione Share Everest 2011 del Comitato EvK2Cnr, partita il 22 aprile scorso dall’Italia. L’immagine ripresa dalla webcam mostra due picchi: a destra vi è la cima dell'Everest (8.848 metri), a sinistra il Lhotse (8.513 metri, ovvero la medaglia di bronzo tra le montagne più alte). Le cartoline virtuali dovrebbero essere aggiornate ogni pochi minuti.

L’impresa non è stata banale, per via dei problemi di connessione. “Stavamo lavorando a questa operazione da mesi. Abbiamo dovuto attivare più ponti e ripetitori da Kala Patthar fino al Laboratorio Osservatorio Piramide, nella valle del Khumbu (5.050 metri, ndr - Galileo), da dove tutto viene poi inviato in Italia, all'Isac-Cnr di Bologna”, ha raccontato Giampietro Verza, coordinatore delle operazioni di installazione.

Due i primati: si tratta della web a più alta quota e più prossima all’Everest, ad appena 11 chilometri. La missione Share Everest 2011 non è finita: tra poche settimane dovrebbe ripristinare la stazione meteorologica più alta del mondo (8.000 metri) del Colle Sud dell'Everest. Installata nel 2008, è la prima a effettuare misure meteorologiche continue da terra a quella quota ed è definita la punta di diamante del progetto di monitoraggio climatico-ambientale internazionale Share (Stations at High Altitude for Research on the Environment). Protagonisti saranno gli alpinisti Daniele Nardi e Daniele Bernasconi, ora in fase di acclimatazione all’alta quota.

Fonte: galileonet.it

 

Una piccola piantina sul balcone di casa, qualche zolla ricavata nel giardino oppure un appezzamento preso in prestito nel parco comunale, sono molti i modi con cui si può cercare un rinnovato contatto con la natura. C’è anche chi preferisce la realtà virtuale, e gioca a fare il contadino con Farmville. A metà strada c’è il progetto “Le verdure del mio orto”, che in partnership con l’azienda biologica “Le Spinose”, in Sabina, permette anche a chi vive a Roma e d'intorni di avere un orto biologico a distanza e di coltivarlo virtualmente. In questo caso però, a differenza di quanto avviene nel famoso giochino di Zynga, i frutti della terra sono reali.

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Ecco di cosa si tratta: è possibile prendere in affitto un appezzamento di terreno e farlo coltivare da un contadino esperto secondo le nostre preferenze e indicazioni, espresse tramite internet. Il contadino si prenderà cura dell’orto e una volta maturati i frutti li recapiterà direttamente a casa del proprietario virtuale. Insomma, un modo nuovo di vivere l’agricoltura e di alimentarsi in modo sano. Quello nato in Sabina non è il primo orto a distanza. Il progetto ha preso il via nel 2009 nell’azienda agricola Giacomo Ferraris di Vercelli, destinata alla piantumazione di orti per rifornire (entro ventiquattro ore e senza costi aggiuntivi) di verdure, erbe, piccoli frutti e fiori, le aree metropolitane di Milano, Torino, Vercelli, Biella, Novara e Casale. La novità degli orti della Sabina rispetto agli appezzamenti del nord è che sono coltivati a biologico certificato Aiab (Associazione italiana per l’agricoltura biologica). “Questa iniziativa di filiera corta non solo crea un rapporto diretto tra produttore e consumatore e rappresenta l’ennesimo canale per fruire dei prodotti biologici in garanzia Aiab, ma si inserisce nell’ambito di una tendenza sempre più diffusa: la ‘rivincita’ della campagna sulla città”, commenta Andrea Ferrante, presidente nazionale Aiab.

Creare il proprio orto è semplice. Basta collegarsi al portale www.leverduredelmioorto.it e scegliere tra gli appezzamenti di terreno disponibili: si parte da 16 euro per un orto di 30 mq e una fornitura settimanale di 3-4 kg di orto-frutta per arrivare a 34 euro per 11-12 kg di verdure. Per quantitativi superiori (destinati a ristoranti, gruppi di acquisto, ecc.) il prezzo varia in base alla richiesta. “Con pochi click è possibile costruirsi un orto a misura delle proprie esigenze e dei propri gusti, scegliendo le verdure da piantarci, e anche alcuni optional, come fiori, erbe e piccoli frutti”, spiega Antonella Deledda, titolare dell’azienda Le Spinose. Sarà poi il team di agricoltori a occuparsi della crescita delle colture secondo i metodi di coltivazione tradizionali e le conoscenze locali. Anche se non serve lavorare, seminare e irrigare il terreno, è possibile visitare e seguire l’evoluzione del proprio orto durante il weekend.

Fonte: galileonet.it

 

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Sembra sia questo il meccanismo che permette alla tarantola (famiglia Theraphosidae), ragno dalle grosse dimensioni, di arrampicarsi sulle superfici lisce. A svelarlo, uno studio effettuato su tre specie diverse da alcuni scienziati della Newcastle University (UK), che hanno pubblicato le loro osservazioni sul The Journal of Experimental Biology.

La filiera usata dai ragni per tessere la loro tela si trova di norma sull'addome. Prima di tutto quindi, gli autori della ricerca, guidati da Claire Rind, hanno cercato di capire se l'ipotesi di una possibile filiera nascosta nelle zampe fosse verosimile. Per farlo hanno messo alcuni individui di tarantola rosa cilena (Grammostola rosea) in un terrario, il cui fondo era stato ricoperto di vetrini da microscopio. Capovolgendo e agitando lentamente la teca, gli scienziati hanno potuto constatare che i ragni, come veri scalatori, scivolavano per un attimo ritornando subito al loro posto. L'osservazione dei vetrini utilizzati come base ha poi rivelato la presenza di tracce di seta sulla superficie, e filmando l'operazione da vicino gli scienziati si sono accorti che non appena l'animale perde l'equilibrio, dei filamenti di seta vengono emessi non dall'addome quanto invece dai tarsi (l'ultimo segmento delle zampe).

In un secondo momento, per capire quali strutture delle zampe producessero questi “cavi di sicurezza”, i ricercatori hanno osservato, al microscopio elettronico a scansione (strumento che riesce a visualizzare strutture estremamente piccole), le mute abbandonate di individui appartenenti a tre specie diverse di tarantola (G. rosea, Poecilotheria regalis, Brachypelma auratum). In tutte gli studiosi hanno scoperto l'esistenza di sottili tubicini, rinforzati da cuticola e nascosti tra le setole dei cuscinetti adesivi delle zampe: sarebbero proprio queste strutture a produrre i filamenti di seta.

Dal momento che i gruppi studiati sono distanti tra loro geograficamente - provengono rispettivamente da Cile, India e Messico - e filogeneticamente (sono solo lontanamente imparentate), secondo gli scienziati, è probabile che tutte le specie di tarantola producano simili fili di seta salva-vita dalle zampe. Per questi ragni, infatti, sarebbe altrimenti impossibile e rischioso, a causa del loro peso, arrampicarsi usando semplicemente i cuscinetti adesivi, come avviene comunemente negli altri aracnidi.

Fonte: galileonet.it - Riferimenti:  The Journal of Experimental Biology doi: 10.1242/​jeb.055657

 

Il progetto che ci vede coinvolti in prima fila si chiama Thebera ed è stato presentato lo scorso 17 maggio a Milano. Perché l’Egitto e perché l’Italia? Il primo detiene il triste primato mondiale di diffusione di epatite C (causa del 40% circa di tutti i trapianti di fegato), mentre noi abbiamo una delle reti trapiantologiche migliori d’Europa, oltre alle competenze e l’esperienza che mancano ai medici nordafricani.
Lo scorso giugno è stata varata la prima direttiva europea in ambito trapiantologico che esorta alla cooperazione internazionale per la diffusione delle competenze medico-scientifiche nel bacino del Mediterraneo. E Thebera è il primo programma con cui si passa dalle parole ai fatti, con l’Italia a fare da apripista. Il progetto, finanziato con 1.200.000 euro (600.000 a partner) dal VII Programma Quadro, è partito nel novembre 2010 e durerà due anni. “Durante questo periodo verranno formati gruppi da 20 operatori ciascuno - già selezionati – che partiranno dal Theodor Bilharz Research Institute, a Giza, alla volta dell’Italia; qui saranno accolti nelle unità trapiantologiche di vari ospedali”, spiega Franco Filippini direttore del Dipartimento di trapiantologia epatica, epatologia dell'Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana, e presidente del Sisqt (Società per la sicurezza e qualità dei trapianti). Pisa è infatti capofila ma, oltre la Toscana, sono coinvolte altre regioni, tra cui Emilia Romagna, Lazio, Campania, Veneto, Marche e Piemonte.

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Nella seconda fase del progetto, invece, saranno i medici italiani ad andare in Egitto, per continuare la formazione. Le équipe multidisciplinari dovranno essere preparate su tutti gli aspetti delle malattie epatiche, dal loro riconoscimento fino al trapianto del fegato: saranno quindi coinvolte diverse figure professionali, dai radiologi agli epidemiologi ai chirurghi, e verranno fornite le strumentazioni necessarie per la diagnosi. “È un progetto innovativo e pilota – sottolinea Alessandro Stefani, del consiglio scientifico del progetto – e si sta anche testando la tipologia di approccio a questi paesi”.

Ma perché l’Eu si preoccupa del Nord Africa? “La nuova politica europea non vuole più soltanto esportare i modelli di eccellenza, ma condividerli e integrare i paesi del Mediterraneo – risponde Stefani – e creare reti”. Inoltre si tratta di fare prevenzione, anche economica: “Il problema in Egitto è grave e investe la sfera sociale. Queste persone verranno a curarsi anche da noi. Invece di aspettare, possiamo pensarci prima, fare prevenzione, aiutarli a sondare la gravità della malattia epatica e a curarsi”, continua Stefani.

L’Italia non solo è il paese ideale per il know-how e le somiglianze con l'Egitto (eseguiamo circa mille trapianti di fegato l’anno e abbiamo un tasso di diffusione del virus dell’epatite C molto elevato), ma anche per la vicinanza geografica: siamo la porta dell’Unione verso il Nord Africa, in vista di altri progetti di cooperazione internazionale nell’ambito delle politiche sanitarie della strategia Europa 2020. In questi due anni dovremo fornire la prova dell’importanza e della validità di tali programmi.

Fonte: galileonet.it

 

A dimostrarlo, applicando allo studio dei fossili tecniche di tomografia computerizzata, è stato un gruppo di ricercatori statunitensi della University of Texas - Austin, del Carnegie Museum of Natural History (Pittsburgh) e della St. Mary's University (San Antonio), il cui lavoro è apparso nella rivista Science.

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Per la prima volta, i paleontologi statunitensi sono riusciti a scannerizzare crani fossili di due mammiferi ancestrali - il morganucodonte e l'adrocodio - così da ricrearne dei modelli interni. “Questi due animali – spiegano gli studiosi – popolavano la Cina durante il Giurassico Inferiore, tra 199 milioni e 175 milioni di anni fa”. Entrambi di piccole dimensioni (soprattutto l'adrocodio, lungo più o meno come una graffetta), sono considerati tra i primi cugini ancestrali dei mammiferi odierni per via della loro capacità cranica, di gran lunga superiore rispetto a quella dei loro contemporanei.

Il gruppo di ricerca, guidato da Tim Rowe, direttore del Laboratorio di Paleontologia dei Vertebrati dell'Università del Texas, ha trascorso diversi anni a scannerizzare più di una dozzina di crani fossili di pre-mammiferi con una tecnica chiamata tomografia computerizzata (CT) a raggi X, di solito utilizzata in ambito medico. “La tecnologia CT è indispensabile per l'analisi di fossili così fragili, poiché consente di ricreare immagini precise e tridimensionali di una cavità cranica fossilizzata senza il rischio di danneggiare il reperto”, precisano gli studiosi. Le immagini, ottenute presso la High-Resolution X-ray Computed Tomography Facility di Austin, sono state archiviate online e possono essere consultate al sito http://www.digimorph.org/.

Questi modelli tridimensionali hanno permesso ai ricercatori di osservare dall'interno il cervello e le cavità nasali di questi fossili e riscontrare un allargamento della cavità nasale e delle regioni legate all'olfatto, così come delle aree del cervello deputate a processare le informazioni olfattive. “Entrambe le caratteristiche – spiegano nell'articolo – indicano un miglioramento della capacità olfattiva nei pre-mammiferi”.

Lo studio, tuttavia, non si limita a esplorare il ruolo dell'olfatto nell'evoluzione cerebrale dei mammiferi, ma cerca anche di ricostruirne una storia “a puntate”. Secondo Rowe e colleghi, infatti, il cervello dei mammiferi si sarebbe evoluto in almeno tre fasi, di cui il miglioramento del senso dell'olfatto non è che la prima e la più significativa. Gli altri due momenti di sviluppo, spiegano i ricercatori, sarebbero correlati all'aumento della sensibilità tattile dovuta ai peli corporei e al miglioramento della coordinazione neuromuscolare o dell'abilità di produrre movimenti muscolari più precisi utilizzando i sensi.

Gli autori, infatti, ipotizzano che il pelo (di cui erano dotati sia l'adrocodio che il morganucodonte) servisse originariamente a “guidare” gli animali e ad aiutarli a muoversi all'interno di piccole fessure senza farsi del male. Questa accentuata sensibilità tattile avrebbe favorito la formazione di intricati campi sensoriali nella neocorteccia del cervello mammifero. Infine, poiché la neocorteccia è coinvolta sia nella percezione sensoriale sia nella produzione dei comandi del movimento, il suo sviluppo avrebbe contribuito alla messa a punto delle capacità motorie e della coordinazione neuromuscolare dei pre-mammiferi.

“Grazie a questo studio disponiamo ora di un quadro generale del cervello mammifero ancestrale”, precisano i ricercatori. “Ora siamo in grado di elaborare ipotesi più dettagliate sulla sequenza di eventi che ha portato all'evoluzione cerebrale dei mammiferi e sull'importanza dei diversi sistemi sensoriali”. “Prossimamente – ha concluso Rowe – esploreremo la successiva diversificazione del cervello e dei sistemi sensoriali. Questo ci permetterà di scoprire nuovi segreti su come abbiano fatto i mammiferi a sviluppare cervelli molto grandi e capacità sensoriali estremamente specifiche, come ad esempio l'elettrorecezione negli ornitorinchi e i sonar biologici di balene e pipistrelli”.

Fonte: GalileoNet.it - Riferimenti: Science DOI: 10.1126/science.1206915 - Credits: Mark A. Klingler/Carnegie Museum of Natural History

 

Il prof. Tullio Simoncini nel suo libro intitolato “Il cancro è un fungo”, ha raccolto alcune testimonianze che vi ripropongo e vi consiglio di leggere:

“Il Dr. Hardin Jones, docente presso l’Università della California, dopo aver analizzato per molti decenni le statistiche relative alla sopravvivenza al cancro, ha tratto la seguente conclusione: [...] quando non sono curati, i malati non peggiorano, o addirittura migliorano.” Le inquietanti conclusioni del Dr. Jones non sono mai state confutate”. (Walter Last, "The Ecologist" vol 28, n. 2, marzo/aprile 1998).
 
“Molti oncologi raccomandano la chemioterapia praticamente per qualsiasi tipo di tumore, con una fiducia non scoraggiata dagli insuccessi pressoché costanti”. (Albert Braverman, MD, "Medical Oncology in the 90s", Lancet 1991, vol 337, p. 901).

“I nostri regimi più efficaci sono gravidi di rischi, di effetti collaterali e di problemi pratici. Dopo che tutti i pazienti che abbiamo curato ne hanno pagato lo scotto, solo un’esigua percentuale di essi viene ricompensata da un effimero periodo di regressione tumorale, generalmente parziale”. (Edward G. Griffin, "World Without Cancer", American Media Publications, 1996).

“Alcuni scienziati di stanza presso il McGill Cancer Center (McGill University, Montreal, Canada) inviarono a 118 medici, esperti di cancro ai polmoni, un questionario per determinare quale grado di fiducia essi nutrissero nelle terapie che applicavano. Fu loro chiesto di immaginare di aver contratto essi stessi la malattia e quale delle sei attuali terapie sperimentali avrebbero scelto. Risposero 79 medici, 64 dei quali non avrebbero acconsentito a sottoporsi ad alcun trattamento che contenesse Cisplatino – uno dei comuni farmaci chemioterapici che applicavano – mentre 58 dei 79 reputavano che tutte le terapie sperimentali in questione fossero inaccettabili, a causa dell’inefficacia e dell’elevato grado di tossicità della chemioterapia”. (Philip Day, "Cancer: Why We're Still Dying To Know The Truth", Credence Publications, 2000).

“Il Dr. Ulrich Abel, epidemiologo tedesco della Heidelberg/Mannheim Tumor Clinic, ha esaustivamente analizzato e passato in rassegna tutti i principali studi ed esperimenti clinici mai eseguiti sulla chemioterapia [...].Abel scoprì che il tasso mondiale complessivo di esiti positivi in seguito a chemioterapia era scioccante in quanto, semplicemente, non erano disponibili da nessuna parte riscontri scientifici del fatto che la chemioterapia riesca a “prolungare in modo apprezzabile la vita dei pazienti affetti dai più comuni tipi di cancro organico.” Abel sottolinea che di rado la chemioterapia riesce a migliorare la qualità della vita, la descrive come uno squallore scientifico e sostiene che almeno l’80% della chemioterapia somministrata nel mondo è priva di qualsiasi valore. Ma, anche se non esiste alcuna prova scientifica che la chemioterapia funzioni, né i medici né i pazienti sono disposti a rinunciarvi. (Lancet, 10 agosto 1991)

Ovviamente chi vi scrive non è un medico e non può accertarsi della veridicità di certe teoria ma sembra che il prof. Simoncini abbia curato svariati tumori,anche in malati terminali,con il semplice aiuto del bicarbonato di sodio.

D’altra parte ci sono altri medici che affermanoo che l’utilizzo del bicarbonato non solo non servirebbe a nulla ma sarebbe addirittura dannoso per il nostro organismo.

Per come la vedo io la cura più importante per qualsiasi malattia è l’auto-convincimento.Se credi che una malattia sia incurabile allora sarà incurabile ma se credi di poter guarire allora guarirai.

Se volete informarvi riguardo il prof. Simoncini basta cercare i suoi video e le sue teorie tramite google.

Fonte: OsaSapere.it

Chi è il Dr. Tullio Simoncini?


Tullio Simoncini, è un medico chirurgo romano, specializzato in oncologia e in diabetologia e malattie del ricambio, è anche dottore in filosofia.   La sua nota distintiva caratteriale è l’insofferenza per la falsità e la menzogna. A  livello scientifico  ciò si traduce in una forte opposizione contro ogni tipo di conformismo intellettuale.
Se si considera il totale fallimento dell’oncologia ufficiale, si capisce la sua posizione estremamente critica nei confronti di un sistema planetario scientificamente morto e produttore di morti. È uno sportivo che cura costantemente il suo stato fisico cercando di obbedire alle elementari regole della natura: sana alimentazione, attività fisica e responsabilità morale. Pratica costantemente jogging e, quando è possibile, sci e calcio.

La sua naturale tendenza alla sintesi deriva anche da una sensibilità che tende a percepire l’armonia del “tutto”, distintamente dal valore delle parti. Questo suo istinto è stato rafforzato dalla sua propensione musicale, coltivata e rafforzata dal fatto che ha suonato vari strumenti come il pianoforte, la chitarra classica e quella moderna. Quest’ultima lo ha portato a formare, quando era studente al liceo classico e poi all’università, varie band musicali che si esibivano nel centro Italia.
Tutta la sua personalità, inoltre, è pervasa da una forte umanità, la vera molla che lo ha portato a chiedersi, di fronte allo straziante dolore dei malati, quanto misere e insignificanti fossero le nozioni fondamentali della medicina. Negli anni di professione medica ha elaborato una sua teoria sul "male del secolo".

Ha partecipato a diverse conferenze e dibattiti  ed è stato, tra l’altro, relatore al convegno "Firenze-Medicina 2000" (18-19 settembre 1999)  e  al  "Congresso Internazionale di Oncologia" di Treviso (15-16-17 ottobre 1999). Invitato a varie trasmissioni televisive di tv private, ha dibattuto le problematiche della medicina ufficiale e di quella alternativa e ha esposto le sue teorie sul cancro. Ha partecipato a importanti conferenze e in quella del 4 marzo 2000 svoltasi a Perugia, era presente come relatore anche il Prof. Luigi Di Bella. E' presidente del comitato scientifico di una federazione di associazioni per la libertà di cura. Dedicatosi da tempo alla studio e cura dei tumori, presenta una teoria molto interessante sull’eziopatogenesi della malattia cancerosa. Sostiene infatti che il cancro non dipende, come afferma la medicina ufficiale, da cause genetiche, ecc., ma è il risultato di un'affezione fungina "non visualizzata né studiata nella sua dimensione intima connettivale". Secondo la sua teoria, suffragata dai tanti casi risolti, responsabile del cancro è appunto la Candida.

 
By Admin (from 06/08/2011 @ 08:00:12, in it - Scienze e Societa, read 2067 times)

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Stiamo parlando di qualcosa di minuscolo, che possiede una massa e una carica elettrica pur non avendo dimensioni né una struttura interna. Insomma, un concetto abbastanza astratto, che richiede una buona dose di immaginazione. Di immaginazione non hanno invece bisogno i fisici che hanno appena eseguito una nuova e precisa misura di questa particella. E quel che si può dire, ora è che l’elettrone sembra proprio essere sferico.

Lo studio, presentato su Nature e coordinato da Jony Hudson dell'Imperial College di Londra, ha notevoli implicazioni per la fisica moderna, che spaziano dalla comprensione delle interazioni fondamentali all’evoluzione dell’Universo. Il risultato è ancora parziale, ma senza dubbio sarà di grande aiuto ai fisici teorici, in quanto le teorie più moderne delle interazioni fondamentali fanno precise previsioni sulle caratteristiche di questo curioso protagonista del mondo subnucleare.

Pur essendo la prima particella elementare scoperta (nel XIX secolo), l’elettrone ha ancora molti segreti. Sappiamo infatti che è fra le particelle elementari più leggere che si conoscano e che la sua carica elettrica è un’unità indivisibile. Tutte le particelle elementari isolate finora hanno infatti carica elettrica multipla di quella dell’elettrone. Ma le sorprese non finiscono qui: perché pur non avendo una struttura, l’elettrone può orientarsi nello spazio, essendo dotato di un momento magnetico intrinseco detto spin. In pratica, l’elettrone è come una minuscola calamita che si orienta in presenza di un campo magnetico, in modo analogo all’ago di una bussola.

Per studiare la forma dell’elettrone, i ricercatori hanno tentato di scoprire l’esistenza dell’analogo elettrico dello spin, detto momento di dipolo elettrico. Lo si può immaginare come una minuscola batteria che può ruotata da un campo elettrico. Ogni asimmetria nella forma dell’elettrone – o, più precisamente, delle sue interazioni con i campi elettrici esterni, si manifesta con la presenza di un momento di dipolo elettrico.

Finora il momento di dipolo elettrico dell’elettrone non è stato osservato, e gli scienziati come Hudson continuano a dargli la caccia, progettando esperimenti sempre più precisi. Nell’esperimento presentato su Nature, il team londinese ha utilizzato molecole di monofluoruro di itterbio (YbF), studiandone il comportamento in presenza di campi magnetici per ricavare le proprietà degli elettroni nella molecola. Pur senza ottenere un numero definito, i ricercatori hanno potuto affermare, con una precisione senza precedenti, che il momento di dipolo elettrico è compatibile con zero. In altre parole che l’elettrone potrebbe ben avere una forma sferica.

Fonte: galileonet.it - doi:10.1038/473459a - Credit immagine: Scienceheath

 

Non solo vi è acqua sulla Luna, ma è molta di più di quanto si pensasse: sembra infatti che il nostro satellite ospiti, sotto la sua superficie, una quantità di acqua pari a quella presente nello strato superiore del mantello terrestre. A tre anni di distanza dal clamoroso annuncio della Nasa che stabiliva una volta per tutte la presenza del prezioso liquido sulla nostro satellite, lo stesso gruppo di ricercatori pubblica su Science la non meno sorprendente precisazione.

Autori dello studio sono i geologi della Brown University (Providence, Usa) e della Carnegie Institution di Washington, che per anni hanno analizzato i campioni di suolo lunare riportati dalla missione Apollo 17 della Nasa. Le loro conclusioni arrivano dall’analisi delle cosiddette inclusioni fuse, ovvero piccole bolle di roccia fusa intrappolate all'interno di cristalli nelle rocce prodotte dalle colate laviche. Si tratta quindi di campioni di magma che, non avendo subito gli effetti delle alte temperature, conservano ancora  tutte le sostanze volatili - tra cui l'acqua - alle stesse concentrazioni in cui si trovano nel mantello lunare.

Detail-luna acqua

Osservare queste pietre, formatesi con le eruzioni vulcaniche di circa tre miliardi di anni fa, è come guardare direttamente l'interno della Luna. I geologi hanno analizzato i cristalli con una microsonda ionica, uno strumento che determina la composizione chimica dei minerali, rilevando elementi presenti anche solo in tracce. Una volta misurata la concentrazione di acqua, gli scienziati sono riusciti a stimare la quantità del liquido presente nel mantello. E, sorpresa, i risultati dicono che potrebbe essere compresa tra 615 e 1410 ppm (parti per milione): cifre paragonabili a quelle del mantello terrestre (500-1000 ppm), e superiori di circa cento volte rispetto alle stime precedenti.

“Nel 2008 avevamo stabilito che il contenuto di acqua nel magma lunare avrebbe dovuto essere simile a quello della lava proveniente dal mantello superiore della Terra. Ora abbiamo provato che è realmente così”, ha detto Alberto E. Saal, tra gli autori dello studio. Tuttavia i ricercatori invitano alla cautela: questi dati non significano che la Luna sia davvero piena d'acqua, ma solo che vi sono dei luoghi in cui è più abbondante. Punto fondamentale, questo, perché altrimenti verrebbe a cadere la teoria più accreditata sull'origine della Luna, secondo cui il satellite sarebbe un frammento della Terra, sbalzato lontano dal pianeta quattro miliardi di anni fa, in seguito all'impatto con un oggetto di dimensioni simili a quelle di Marte. Un evento di tali proporzioni, infatti, avrebbe fatto evaporare tutta l'acqua presente sulla Luna. “Se tutta la Luna presentasse una quantità d'acqua equivalente a quella che abbiamo analizzato, allora la teoria dell'impatto gigante sarebbe compromessa. Come quest'acqua sia poi arrivata sul satellite, è un problema del tutto aperto”, ha concluso Saal.

Fonte: galileonet.it - Riferimenti: Science DOI: 10.1126/science.1204626; Nasa

 
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