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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 

A dirlo è Matthew During e il suo gruppo di ricerca presso l’Ohio State University Medical Center, negli Usa, che da tempo indagano sugli effetti della socialità sulla salute. Secondo il loro ultimo studio, pubblicato su Cell Metabolism, un ambiente ricco di stimoli innescherebbe un meccanismo importante per bruciare in maniera efficace le calorie in eccesso: la trasformazione del grasso bianco (che immagazzina i lipidi) in grasso bruno (tipico dei neonati, che brucia i grassi per produrre calore). Finora solo l’esposizione a lunghi periodi di freddo sembrava in grado di attuare lo stesso processo fisiologico.

Detail-grasso bruno

La ricerca è stata condotta su alcuni topi a cui gli scienziati hanno rivoluzionato l’ambiente: gruppi di 15 o 20 individui sono stati posti in gabbie molto spaziose, attrezzate con ruote girevoli, percorsi con tunnel e labirinti, giochi in legno e materiale per costruire i nidi, oltre che con riserve illimitate di cibo e acqua. Per poter verificare e confrontare gli effetti dell’ambiente sulla salute dei topi, i ricercatori hanno mantenuto dei gruppi di controllo, ognuno costituito da 5 individui posti nelle normali condizioni di laboratorio (piccole gabbie con cibo e acqua a volontà, ma senza giochi).

Dopo quattro settimane, During ha notato che, a parità di cibo ingerito, i topi del primo gruppo non solo avevano preso meno peso rispetto agli animali di controllo –  come era logico aspettarsi – ma soprattutto avevano perduto quasi il 50 per cento del tessuto adiposo bianco addominale. Riduzione che non sembrava essere dovuta esclusivamente all’aumento di attività. Questi topi, infatti, presentavano una temperatura corporea più elevata, segnale di una maggiore quantità di energia prodotta e quindi di grasso bruno in aumento: un fattore che evita l’insorgere dell’obesità per eccessiva alimentazione.

Secondo During, l’interruttore biologico in grado di attuare questa conversione del grasso risiederebbe in un circuito neuronale che coinvolge l’ipotalamo. Un ambiente stimolante aumenta infatti la produzione di una proteina chiamata BDNF (brain-derived neurotrophic factor), implicata nel controllo dell’ingestione di cibo e nel bilancio energetico, in questa area cerebrale. L’aumento dei livelli di BDNF fa poi partire  alcuni segnali del sistema simpatico diretti alle cellule del grasso bianco. Tali segnali, a loro volta, attivano specifici geni per la produzione di grasso bruno, Prdm16 e Ucp1 (vedi Galileo: “Gli interruttori del grasso buono”).

Source: Cell Metabolism 10.1016/j.cmet.2011.06.020

 
By Admin (from 03/10/2011 @ 08:00:43, in it - Scienze e Societa, read 1752 times)

Detail-gatti gfp

Nei laboratori della Mayo Clinic College of Medicine, in Usa, un gruppo di ricerca ha fatto nascere tre gatti speciali. Si chiamano TgCat1, TgCat2 e TgCat3 e, oltre a diventare verdi se illuminati da luce ultravioletta, possiedono una caratteristica straordinaria: sono immuni dagli attacchi del virus dell’immunodeficienza felina (FIV). I tre gatti hanno acquisito questa resistenza grazie a un gene di macaco impiantato nel loro dna. Il gene in questione, chiamato TRIMCyp, sintetizza una proteina che attacca il virus felino proteggendo il sistema immunitario delle scimmie dall’infezione e sembra garantire lo stesso tipo di protezione anche ai globuli bianchi dei gatti.

Il Fiv agisce nello stesso modo dell’Hiv: aggredisce il sistema immunitario compromettendone il funzionamento e rendendo l’organismo più vulnerabile nei confronti di malattie e infezioni. Da quando è stato scoperto, il virus dell’immunodeficienza umana ha causato più di 30 milioni di morti e siamo ancora lontani dal trovare una cura efficace per debellare l’Aids. I felini non se la passano meglio: ogni anno, milioni di gatti contraggono il virus, e la sindrome interessa tutte le specie di questi animali, rappresentando un’ulteriore minaccia alla loro già critica sopravvivenza.

Ma per loro, e naturalmente per gli uomini, ci sono interessanti novità. Eric Poeschla e la sua equipe di ricerca della Mayo, assieme a colleghi della Yamaguchi University, in Giappone, hanno sperimentato con successo per la prima volta sui carnivori una tecnica di ingegneria genetica chiamata gamete-targeted lentiviral transgenesis: si tratta di prendere un gene estraneo e inserirlo tramite un lentivirus (virus a rna) nel dna di una cellula uovo non fecondata. Dopo averlo fertilizzato, l’uovo viene quindi impiantato nell’utero per avviare la gravidanza. Utilizzando questa tecnica, i ricercatori hanno impiantato 22 cellule uovo geneticamente modificate attraverso l’inserzione del gene di macaco in cinque gatte. Oltre a quello scimmiesco, nel dna dei felini è stato inserito anche il gene che porta alla sintesi della GFP, la proteina che nelle meduse dona fluorescenza verde (in questo caso necessaria per tracciare la presenza di TRIMCyp).

I 22 impianti hanno portato allo sviluppo di 12 feti, da tre dei quali sono nati TgCat1, TgCat2 e TgCat3. Anche se non tutte le gravidanze sono andate a buon fine, come si legge nello studio pubblicato su Nature Methods, il dna di 11 feti ha incorporato il gene estraneo, dimostrando l’efficacia della tecnica. Inoltre, uno dei tre gatti si è accoppiato dando alla luce cuccioli il cui dna possedeva il gene di macaco, dimostrandone l’ereditarietà. Dopo il parto, i ricercatori hanno subito cercato di capire se i gattini geneticamente modificati mostravano resistenza al Fiv, ma per farlo, il virus non è stato inoculato direttamente nei gatti bensì in colture di globuli bianchi prelevati dal loro sangue.
I risultati in vitro sono stati positivi: il TRIMCyp inserito nel dna felino sintetizzava proteine capaci di distruggere l’involucro esterno del Fiv, impedendogli l’attacco alle cellule immunitarie.

Anche se questo approccio non verrà utilizzato direttamente sugli uomini e sui felini (in altre parole non saremo ingegnerizzati con geni di macaco, né lo saranno i nostri gatti), servirà a capire in che modo determinati geni possono aiutare a sviluppare un’efficace terapia per combattere l’Aids. Ma nonostante l’entusiasmo generale, alcuni sono scettici di fronte alla possibilità di usare gatti come modello di studio umano. “È fantastico che siano stati creati gatti geneticamente modificati con questa tecnica - ha commentato su New Scientist Theodora Hatzjioannou dell’Aaron Diamond Aids Research Center di New York - ma le scimmie sono più utili nella ricerca sull’Aids perché il Siv (il virus che causa immunodeficienza nei primati, ndr) è evolutivamente  più vicino all’Hiv di quanto non lo sia il Fiv”.

Fonte: Galileonet.it - Riferimenti: Nature Methods doi:10.1038/nmeth.1703 - Via: Wired.it

 

Dopo il gioco virtuale Moonbase Alpha (vedi Galileo, “Astronauti sulla Luna per gioco”), l’Agenzia spaziale americana propone, infatti, una nuova, complessa, realistica esperienza per gli appassionati di stelle e pianeti. Il nuovo strumento on line si chiama Eyes on the Solar System e permette di esplorare tridimensionalmente il nostro sistema planetario: si possono osservare immagini e dati elaborati a partire dalle missioni spaziali dal 1950 a oggi, ma anche la previsione di quello che potranno vedere gli astronauti da qui al 2050.

L'ambiente virtuale sviluppato dalla Nasa usa la tecnologia Unity game engine, inventata dai programmatori di videogiochi e animazioni 3D per computer, ed è disponibile in internet dopo aver scaricato gratuitamente un plug-in per il browser web. Con l'applicazione – come spiega la stessa agenzia spaziale nel video introduttivo pubblicato insieme alla piattaforma – gli utenti non solo possono osservare i pianeti e le loro lune, gli asteroidi che popolano il Sistema Solare e tutte le missioni spaziali (di oggi, di ieri e di domani), ma hanno anche numerose opzioni di navigazione.
Con il mouse e la tastiera, infatti, si può personalizzare il viaggio a proprio piacimento. Oltre a cosa osservare, si può scegliere come: con una visualizzazione che permette una visione complessiva della porzione di universo scelta, con una più ravvicinata o addirittura con lo stesso panorama che si avrebbe stando su una navicella. Se si hanno a disposizione occhiali stereoscopici, si può anche optare per la visuale 3D. Inoltre, gli utenti possono scegliere a quale velocità osservare un evento: così i viaggi delle astronavi possono essere seguiti in tempo reale oppure velocizzati, fino ad osservare il tragitto di una missione spaziale durata anni nel giro di qualche secondo.

Per i navigatori esperti – o quelli che hanno la pazienza di osservare i quattro tutorial rilasciati in rete insieme alla piattaforma – ci sono ulteriori controlli e menù da imparare a padroneggiare: i più curiosi possono arrivare addirittura a misurare le distanze tra i vari astri e a confrontare le dimensioni di pianeti diversi. I dati, ovviamente, sono proprio quelli raccolti dalle varie missioni spaziali dagli anni Cinquanta a oggi.

L'applicazione per ora è ancora in versione beta, ma alla Nasa promettono che presto arriveranno nuove opzioni ed esiste un account Twitter per tutti coloro che volessero rimanere aggiornati sulle novità. “Questo sforzo dimostra quanto sia importante per noi condividere quello che facciamo e sappiamo con tutta la comunità”, ha detto Jim Green, direttore della Planetary Science Division nel quartier generale della Nasa a Washington. È proprio questa spinta verso il pubblico ad aver ispirato il progetto, che vuole essere anche un modo di promuovere la scienza stessa, sia agli addetti ai lavori che ai non esperti. “Non è un caso se abbiamo scelto di basare la visualizzazione del sistema solare sui dati reali delle missioni” ha spiegato Kevin Hussey, direttore della sezione Visualization Technology Applications and Development del Nasa Jet Propulsion Laboratory (JPL) di Pasadena, il cui team ha sviluppato Eyes on the Solar System. “Uno strumento come questo più aiutare sia il pubblico sia chi lavora all'agenzia spaziale stessa a capire l'importanza e la complessità delle nostre missioni nello Spazio”.

Fonte: galileonet.it

 

Un programma in grado di analizzare rapidamente i dati conservati nella sua memoria permetterebbe infatti di individuare con maggiore certezza eventuali anomalie e guasti relativi al velivolo, dando quindi la possibilità di effettuare riparazioni mirate prima che l’aereo venga rimesso in pista. Il metodo, sperimentato dai ricercatori del Massachusets Institute of Technology (Usa) e dell’Universidad Pontificia Comillas (Madrid, Spagna) guidati da John Hansman, sarà presentato alla Conferenza sui Sistemi Digitali di Avionica in programma a Seattle a ottobre (Usa).

Detail-scatola nera

In genere, il registratore di volo viene utilizzato dopo un incidente aereo per ricostruirne la dinamica e risalire alle cause che lo hanno provocato. Oltre ai suoni e alle voci della cabina di pilotaggio, infatti, la scatola nera registra, ogni secondo e per molte ore consecutive, centinaia di parametri meccanici diversi, dal rendimento dei motori alla posizione, accumulando una mole enorme di dati. Informazioni che le compagnie aree possono controllare anche per garantire la sicurezza a bordo. Ma secondo Hansman questa operazione richiederebbe molto tempo e la conoscenza a priori dei parametri da ispezionare: “Con questo approccio potrebbero mancare agli operatori le informazioni chiave per migliorare la sicurezza e le operazioni di volo”, ha spiegato lo scienziato. 

Per potenziare il sistema di controllo i ricercatori hanno quindi pensato di esaminare i dati registrati nella scatola nera usando il metodo statistico della “cluster analysis”: in poco tempo un apposito programma estrae i dati dei singoli voli e li suddivide in gruppi, mettendo insieme quelli che hanno le stesse caratteristiche. I dati di volo anomali – quelli cioè che non rientrano in nessun insieme - vengono in seguito controllati dagli operatori per verificare se siano o meno dovuti a dei guasti meccanici.

Per testare la loro idea, gli scienziati hanno quindi applicato questo metodo ai parametri riguardanti 365 voli internazionali (effettuati da alcuni Boeing 777 di un’unica compagnia, nell’arco di un mese di attività), analizzando dati come la posizione del velivolo, la velocità e l’accelerazione, il vento, la pressione e la temperatura. Secondo i ricercatori, tra le anomalie messe in evidenza dal programma (come la poca potenza, la difficoltà di rotazione al decollo o la quota troppo bassa in fase di atterraggio) la maggior parte sarebbe dovuta ad azioni dell’equipaggio. “Ma il bello di tutto questo – ha concluso Hansman – è che non si è tenuti a conoscere in anticipo cosa sia normale (e cosa invece anomalo, ndr), perché il metodo stesso trova la norma grazie agli insiemi generati”.

Riferimenti: Mit - Credits immagine: National Transportation Safety Board/Public domain/Wikipedia commons

 

Finora ritenuta un’esperienza del tutto soggettiva, il dolore potrebbe diventare qualcosa di misurabile al pari di una febbre. Un gruppo di ricercatori della Stanford University School of Medicine guidati da Sean Mackey è infatti riuscito a mettere a punto un sistema per diagnosticare il dolore basato sull’attività fisiologica cerebrale – anziché sulle sensazioni espresse dal paziente – in modo da fornire una valutazione oggettiva del livello di sofferenza fisica. Lo studio è stato pubblicato su PLoS ONE.

Detail-dolore

L’idea di un “dolorimetro” – come è stato ribattezzato dai ricercatori -  risale a un paio di anni fa, suggerita a Mackey dalle osservazioni di Hank Greely della Stanford Law School durante un evento tenutosi presso la stessa università. Secondo Greely, esperto in casi legali, etici e sociali inerenti le bioscienze, un metodo accurato capace di determinare se qualcuno stia o meno soffrendo sarebbe stato di grande aiuto per il diritto, dal momento che ogni anno sono centinaia di migliaia le cause che riguardano l’esistenza o meno di dolore in pazienti con sofferenze croniche.

Il primo passo dei ricercatori è stato quello di creare un modello di riferimento, ovvero cercare di capire in che modo la sofferenza fisica fosse tradotta a livello cerebrale. Per farlo gli scienziati hanno eseguito la risonanza magnetica funzionale (fMRI) del cervello di otto persone, in condizioni normali e mentre un oggetto caldo veniva loro applicato sul braccio, causando dolore moderato. In questo modo i ricercatori hanno registrato l’andamento della risposta cerebrale con e senza dolore e hanno utilizzato questi dati per elaborare al computer un modello “virtuale” di sofferenza. Solo dopo sono passati alla fase di test: otto soggetti diversi sono stati sottoposti a fMRI, e contemporaneamente alla sollecitazione termica. Nell’81% dei casi il computer è riuscito a stabilire con successo se i partecipanti sentissero o meno dolore.

“Un punto chiave da ricordare è che questo approccio ha misurato oggettivamente il dolore termico in condizioni di laboratorio controllate”, ha spiegato Mackey: “Bisogna stare attenti a non generalizzare questi risultati dicendo che possiamo misurare il dolore in ogni circostanza”. I ricercatori hanno infatti sottolineato che ulteriori studi saranno necessari per determinare se questo metodo funziona in diversi tipi di dolore, come per esempio quello cronico, e se la tecnica possa essere applicata anche per distinguere tra dolore e altre sensazioni, come l’ansia o la depressione. Tecnica che, come spiegato da Mackey, permettendo di misurare il dolore fisiologico, potrebbe essere di aiuto per molti tipi di pazienti, come i più piccoli e gli anziani, incapaci a volte di comunicare il loro livello di dolore.

Riferimenti: PLoS ONE doi:10.1371/journal.pone.0024124

 
By Admin (from 10/10/2011 @ 08:00:14, in it - Scienze e Societa, read 2429 times)

Foldit è un videogame online molto particolare, e a suo modo appassionante. Lo scopo del gioco è trovare la forma delle proteine. Cosa si vince? Se si è particolarmente bravi, anche una firma su un'importante rivista scientifica. È questo il premio che si sono aggiudicati alcuni giocatori per aver scoperto niente meno che la struttura di un enzima indispensabile alla replicazione di un retrovirus che causa la sindrome da immunodeficienza acquisita nei macachi reso. Dal momento che il retrovirus appartiene alla stessa famiglia dell’ Hiv, scoprire come sono fatte le sue proteine aiuterà anche la ricerca contro l’ Aids. Lo studio che descrive questo importante enzima è ora pubblicato su Nature Structural & Molecular Biology.

Detail-foldit

Il videogioco era stato creato dall’Università di Washington, negli Usa, che hanno fatto di più che rendere la scienza accessibile al grande pubblico: hanno reso il grande pubblico protagonista della ricerca. Tutto è iniziato nel 2005, quando è stato lanciato il progetto Rosetta@home: i ricercatori statunitensi hanno chiesto alle persone di scaricare sul loro computer un software che, nei momenti di inattività del pc, lavorasse per determinare la forma tridimensionale di proteine ancora sconosciute. Il successo dell’applicazione è stato così grande (migliaia di volontari hanno aderito al progetto) da spingere i ricercatori a fare di più e a coinvolgere attivamente le persone nella soluzione dei puzzle strutturali delle molecole proteiche. Considerando che le proteine sono formate da centinaia di aminoacidi, infatti, spesso i calcoli richiedono molto tempo ed è possibile che l’intuizione umana possa farne risparmiare un po’.

Ecco perché, nel 2008, è nato Foldit, un vero è proprio videogame in cui i giocatori, che possono riunirsi in squadre, competono nel progettare proteine o individuare la loro struttura tridimensionale. In che modo? L’applicazione mostra una prima rappresentazione grafica della proteina (ottenuta partendo dalla forma di proteine simili già note o da calcoli energetici) che l’utente può manipolare alla ricerca della configurazione a minor energia, che è quella biologicamente più probabile (vedi Galileo, "Giocare con le proteine"). Ed è stato proprio giocando in questo modo che, in sole tre settimane, è stato risolto un rompicapo con cui i ricercatori erano alle prese da ben 15 anni.

Il puzzle è rappresentato da una classe di enzimi chiamati protesi retrovirali, cioè proteine coinvolte nella replicazione e proliferazione dei virus che causano Aids, di cui è necessario comprenderne prima di tutto la forma. Non essendoci riusciti con la cristallografia a raggi X (il metodo più usato per determinate la struttura delle proteine, molto lento e costoso) e con gli algoritmi di Rosetta, i ricercatori hanno tentato con Foldit. “ Volevamo vedere se l’intuizione umana potesse avere la meglio sui metodi automatici”, ha spiegato Firas Khatib dell’Università di Washington.

E l’idea si è dimostrata vincente. In poche settimane, infatti, i giocatori hanno generato un modello tridimensionale energicamente plausibile dell’enzima M-PMV, coinvolto nella replicazione del virus. Raffinando il modello, poi, i ricercatori hanno finalmente determinato la struttura della proteina, che si è inoltre rivelata sensibile all’azione di farmaci antiretrovirali. Perché, alla fine, è questo l’obiettivo di Foldit: svelare la forma tridimensionale delle proteine per sviluppare farmaci capaci di bloccarne l’attività. Seth Cooper, uno dei creatori di Foldit, spiega nello studio perché i giocatori sono riusciti là dove i computer hanno fallito: “Le persone hanno abilità di ragionamento spaziale che i computer non hanno. Questi videogiochi riescono a unire la forza del cervello umano alla potenza delle macchine, e i risultati di questo studio mostrano che i videogiochi, la scienza e la computazione possono raggiungere traguardi prima impensabili”.

Riferimenti: Nature Structural & Molecular Biology - doi:10.1038/nsmb.2119
Via: Wired.it - Credits immagine: Foldit

 

Oggi, lo scienziato e businessman Craig Venter torna a far notizia sulle pagine di Nature Biotechnology. Il suo team ha infatti pubblicato uno studio in collaborazione con l' università di San Diego (Ucsd) in cui propone un metodo innovativo per sequenziare il dna fantasma dei microrganismi che sfuggono ai normali strumenti di indagine scientifica.

Detail-genoma

La nuova tecnica, la Multiple Displacement Amplification (Mda), promette di identificare e sequenziare il 90% dei geni appartenenti a tutti quei batteri che non possono essere studiati comunemente nei centri di ricerca. E non stiamo parlando solo di qualche bacillo stravagante: secondo alcune stime, il 99,9% dei microrganismi esistenti al mondo sono difficili da maneggiare. Si tratta per la maggior parte di batteri che abitano nicchie ecologiche molto particolari, come i fondali marini, i laghi sulfurei e lo stomaco umano, e sopravvivono solo all'interno dei substrati originali. Questo significa che i ricercatori non hanno la possibilità di far crescere delle colonie abbastanza grandi da estrarne dei campioni per le analisi di sequenziamento del dna.

Il metodo Mda entra in gioco proprio con l'idea di bypassare questo problema e permettere agli scienziati di leggere il genoma fantasma  dei batteri senza doverli coltivare. Il principio alla base di questa tecnica, ideata nel 2005 dal biologo molecolare Roger Lasken, prevede infatti di completare il sequenziamento del dna partendo anche da una singola cellula. In pratica, l'Mda amplifica piccoli frammenti del genoma fino a riprodurne miliardi di copie.

Ma in questo tipo di analisi, la quantità non è tutto: per fare un buon sequenziamento del genoma ci vuole, soprattutto, materiale biologico di qualità. Purtroppo, i prodotti di amplificazione ottenuti con l'Mda non sono sempre molto affidabili. Spesso i frammenti amplificati contengono molti errori, o si replicano in proporzioni diseguali, lasciando interi buchi nella sequenza dei geni. Il team di Venter si è allora rivolto a Pavel Pevzner, un bioinformatico della Ucsd che ha brillantemente risolto il problema: ha sviluppato un algoritmo capace di selezionare la migliore combinazione di frammenti del dna e assicurare dei risultati sorprendenti.

Fatto sta che gli scienziati hanno subito testato la tecnica Mda su un Deltaproteobacterium (conosciuto come SAR324), un microrganismo oceanico di cui nessuno era mai riuscito a sequenziare il genoma. L'esperimento è andato a buon fine, svelando ai ricercatori buona parte dei geni che il batterio sfrutta per sopravvivere nel suo ambiente. Il prossimo passo sarà quello di studiare altri organismi sconosciuti, ma che promettono di essere molto interessanti, come quelli che abitano l’interno del nostro corpo.

Riferimenti: Nature Biotechnology (2011) doi:10.1038/nbt.1966
Via Wired.it

 

Così da favorire la diagnosi dell’Alzheimer quanto prima possibile, anche se i sintomi non sono ancora evidenti. Sono le principali novità contenute nella prima revisione dei criteri diagnostici per l’Alzheimer avvenuta a 40 anni dalla pubblicazione della prima versione. “Opera dell’Institute of Ageing americana e dell’International Alzheimer Association, i nuovi criteri fanno discutere perché incidono profondamente sulla clinica e sui servizi ai malati”, spiega Orazio Zanetti, primario U.O. Alzheimer del Centro San Giovanni di Dio Fatebenefratelli di Brescia, che dedica il suo congresso annuale proprio a questo argomento il 21 settembre, in occasione della Giornata mondiale dell’Alzheimer.

Detail-giornata_mondiale_alzheimer

I nuovi criteri classificano la malattia in tre fasi: quella pre-clinica, senza sintomi, quella prodromica, quando i segni cominciano a vedersi ma non inficiano le capacità del paziente, e quella di demenza conclamata, quando il malato non è più autonomo. “La neurodegenerazione è un processo lento, in atto 10-15 anni prima che sia visibile, e oggi sappiamo che alcune sostanze presenti nel liquor cerebrospinale e nel cervello segnalano la malattia anche in assenza di sintomi”, va avanti il geriatra. Ma se non ci sono terapie risolutive perché è importante che la diagnosi sia precoce? “Perché è un diritto del paziente e perché è solo nella fase asintomatica che si può stabilire un’alleanza fra medico, paziente e famiglia per migliorare la gestione della malattia”, conclude Zanetti.

Fonte: galileonet.it

 

Simile a Saturno, impiega 229 giorni per girare intorno alle sue due stelle e con esso per la prima volta i ricercatori riescono a osservare direttamente il transito di un pianeta circumbinario, dimostrando che si tratta di veri corpi celesti e non di mere speculazioni astronomiche. La scoperta, pubblicata su Science, è dei ricercatori coordinati da Laurance Doyle del SETI Institute (Usa).

Detail-keplero

Le osservazione dei ricercatori hanno inizialmente riguardato il corpo celeste 12644769: una stella binaria, ovvero un sistema formato da due stelle che orbitano intorno a un comune centro di massa. Dal momento che il piano orbitale del sistema è parallelo alla linea visiva, ai nostri occhi le due stelle si eclissano a vicenda. Fin qui nulla di eccezionale: lo spazio è pieno di stelle che vivono in coppia. Ma qualcosa di insolito ha attirato l’attenzione degli scienziati. Oltre ai cambiamenti in luminosità del sistema dovuti alle reciproche eclissi delle due stelle, infatti, Keplero ha rilevato altri cali di luce a intervalli di 230,3 e 221,5 giorni. 

La manifestazione di queste eclissi terziarie si spiega solo con la presenza di un terzo corpo nel sistema. Inoltre, dal momento che le eclissi si manifestano a due intervalli temporali differenti, è certo che questo intruso sia un corpo circumbinario. La riprova che si tratta proprio di un pianeta, e non di una terza stella, è arrivata da una simulazione computerizzata che ha combinato i dati sulle eclissi stellari e sulle interazioni gravitazionali tra i tre corpi. Da questa analisi, infatti, i ricercatori hanno dedotto che il terzo corpo è un pianeta simile a Saturno ma più denso per la maggiore presenza di metalli pesanti. Le stelle, invece, hanno massa rispettivamente del 20 e del 69% di quella del Sole e impiegano 41 giorni a girarsi intorno.
Infine, dal momento che l’orbita del pianeta è quasi complanare a quella delle due stelle, i ricercatori ipotizzano che il primo si sia formato dalla stessa nube di polvere e gas da cui si sono originati i suoi soli, e non che sia stato rapito da un altro sistema. 

Riferimenti: Science DOI: 10.1126/science.1210923
Credits immagine: NASA

 
By Admin (from 17/10/2011 @ 14:00:37, in it - Scienze e Societa, read 3029 times)

Verificare gli effetti tossici di un farmaco sui reni, monitorare l’attività cerebrale per comprendere il comportamento umano, studiare gli effetti del disturbo bipolare, misurare le variazioni di temperatura indotte dalla somministrazione di medicinali. Riuscireste a farlo riducendo al minimo il ricorso alla sperimentazione animale? La sfida è stata lanciata ai ricercatori in biomedicina dal NC3Rs (National Centre for the Replacement, Refinement and Reduction of animals in Research), l’istituto inglese che da sette anni persegue tenacemente l’obiettivo delle tre R (ridurre il numero degli animali utilizzati nei laboratori, sostituirli quando è possibile con metodi alternativi ed evitare sofferenze inutili). La competizione, dal significativo titolo “Crack it”, invita gli scienziati a “incrinare” l’attuale cristallizzato sistema di ricerca che preferisce vecchie ma rassicuranti procedure piuttosto che nuove strade ugualmente efficaci.

Detail-uistiti

Sul sito dell'iniziativa sono elencate sei precise questioni - che vanno dalla chimica, alla farmaceutica, alle neuroscienze - in cerca di una soluzione: di un metodo di indagine alternativo che riduca al minimo il ricorso alla sperimentazione animale. Accanto a ogni voce è indicato esplicitamente il finanziamento che l’istituto mette a disposizione dei ricercatori (in totale 4,25 milioni di sterline, pari a quasi cinque milioni di euro).

L’iniziativa dell’istituto inglese, presentata il 20 settembre a Londra, non è isolata. Casualmente coincide con la pubblicazione su Scientific American di un editoriale che critica senza mezzi termini una consuetudine oramai inspiegabile: l’utilizzo degli scimpanzé nella ricerca biomedica. Se la loro presenza nei laboratori poteva essere considerata indispensabile in passato (a loro dobbiamo i vaccini anti polio e contro l’epatite B), oggi, oltre a essere superflua, è diventata immorale. E la loro sofferenza è troppo simile alla nostra per essere trascurata. Per questo l’autorevole rivista americana chiede che vengano introdotte norme più restrittive per chi utilizza animali e maggiori incentivi per chi si avvale di metodi alternativi. In perfetta sintonia con quanto sostengono i cugini inglesi.

Ma non illudiamoci: il problema non riguarda solo i paesi di cultura anglosassone. Un recente rapporto della LAV dimostra che nei laboratori italiani il ricorso alla sperimentazione animale è in netta crescita, anche quando si tratta di animali particolarmente tutelati: “Le autorizzazioni per gli esperimenti ‘in deroga’ - ovvero l’impiego di cani, gatti e primati non umani, l’utilizzo a fini didattici o il non ricorso ad anestesia - sono aumentate da una media di 141 per il biennio del 2007-2009 a 204 per il 2008-2009: numeri quasi raddoppiati per procedure che invece, per legge (Decreto Legislativo 116/92), dovrebbero rappresentare l’eccezione, in quanto regolamentate in modo restrittivo”.  È chiaro, quindi, che il problema è anche nostro.

Fonte: galileonet.it

 
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By Napasechnik
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