I sostenitori della deregulation e della liberalizzazione a oltranza considerano i tagli allo Stato sociale l’unica strada possibile per arrivare a un’economia più efficiente e che produca posti di lavoro, scrive Gurutz Jáuregui, professore di diritto costituzionale all’Università dei Paesi Baschi. Il pensiero unico neoliberale vuole imporre, con una buona dose di determinismo, questa soluzione a tutti, come se fosse scientificamente inevitabile. Ma non è così: queste scelte economiche sono dettate da organizzazioni internazionali, come la Banca mondiale o l’Ocse, che obbediscono agli interessi del capitale finanziario e che non hanno un’investitura democratica.

Esistono, in teoria, due grandi risposte o soluzioni alla crisi dello Stato sociale. La prima è il rafforzamento e il miglioramento dei servizi. La seconda, la diminuzione forzata delle domande e delle necessità sociali dei cittadini. Stando ai dati degli ultimi anni, e come conseguenza del trionfo generalizzato del neoconservatorismo, è chiaro che la grande maggioranza dei governi dei paesi sviluppati ha optato, con maggiore o minore intensità, per la seconda soluzione. Si tratta di un’alternativa che ha come obiettivo l’indebolimento, se non lo smantellamento puro e semplice, delle conquiste sociali ottenute negli anni scorsi.
Se si tralasciano alcune sfumature fra due versioni – una conservatrice tradizionale e l’altra più ultraliberale –, i difensori dello smantellamento dello Stato sociale difendono le loro posizioni basandosi su due ragioni fondamentali.
La prima, di ordine economico, insiste sul sovraccarico prodotto nella domanda economica. La seconda, di ordine politico, sottolinea i fattori di ingovernabilità che derivano da questo sovraccarico imposto allo Stato. La soluzione consiste, quindi, nello “scaricare” lo Stato di questo pesante onere che gli impedisce di funzionare. Di qui la necessità di deregolamentare e liberalizzare alcune funzioni che sino a oggi erano state svolte dallo Stato stesso. Una liberalizzazione che riguarda non solo alcune attività economiche ma anche, e soprattutto, la politica sociale (sanità, occupazione, pensioni, eccetera).
Secondo queste tesi, lo snellimento e il conseguente passaggio dell’attività economica dello Stato verso settori privati provocherebbe quella che potremmo definire “la sindrome del conto della lattaia”. Avrebbe inizio una ripresa economica, questa darebbe luogo a una maggiore crescita, questa maggiore crescita faciliterebbe la riduzione della disoccupazione, la riduzione della disoccupazione migliorerebbe il livello di benessere dei cittadini, questo livello di benessere farebbe aumentare il consumo, eccetera. Come ha sostenuto il 22 febbraio scorso Rodrigo Rato, ministro dell’Economia e secondo vicepresidente del governo spagnolo, nel presentare il Piano di liberalizzazione e di impulso dell’attività economica approvato dal suo gabinetto, questo è non solo “l’unica risposta possibile alla convergenza europea”, ma anche l’unica via per “arrivare a un’economia più efficiente e con maggiore capacità di creare lavoro”. Sottolineo la parola unica perché è questo il termine magico che, in forma più assillante, continuano a ripeterci negli ultimi tempi.
Se già di per sé appare discutibile che vogliano imporci l’idea dell’esistenza di un pensiero unico, molto più grave mi sembra la spaventosa dose di determinismo che accompagna quest’idea, fino al punto di considerarla come qualcosa di assolutamente inevitabile. L’attuale epoca del pensiero unico risulterebbe del tutto estranea alla volontà umana, così come lo furono a suo tempo l’era della glaciazione o lo stesso Big Bang dell’universo.
Istituzioni non neutrali e non democratiche
Nulla di più lontano dalla realtà. Gli attuali processi di liberalizzazione vengono incoraggiati sostanzialmente da determinate istituzioni economiche e finanziarie internazionali, come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, il Gatt e l’Ocse, a livello globale, da istituzioni comunitarie a livello europeo e da governi con ideologie e interessi molto concreti nell’ambito dei diversi paesi. Che io sappia, nessuna di queste istituzioni è neutrale. Inoltre, ed eccettuato il caso dei governi dei diversi paesi, praticamente nessuna di queste istituzioni sovranazionali sarebbe in grado di superare l’esame della soglia minima di democrazia che si richiede a qualsiasi istituzione pubblica che, teoricamente, veglia sugli interessi dei cittadini.
In effetti, i loro membri non sono stati eletti dai cittadini e la loro attività non è sottomessa al benché minimo controllo da parte delle istituzioni democratiche. Bisogna anche aggiungere che l’adozione di certe decisioni di carattere economico o tecnico esige alcune conoscenze, che si possono acquisire soltanto con la formazione e la preparazione tecnica di quadri di cui dispongono solo queste istituzioni.
Ebbene, la specializzazione tecnica di questi organismi, da un lato, e la mancanza di controllo di molte delle loro attività, dall’altro, hanno avuto come conseguenza il radicamento di un’idea chiarissima: o loro, o il caos.
Secondo questi organismi, l’economia ha le sue regole, le cose sono come sono e, quindi, non esiste alcuna alternativa possibile alle misure e alle politiche da essi adottate. Il risultato è davanti agli occhi di tutti: risanamento duro, precarizzazione del lavoro eccetera.