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Uno speciale su Nature racconta i retroscena della scienza militare: dalle ricadute materiali per la societŕ civile, ai problemi etici che sollevano i suoi velocissimi progressi
By Admin (from 09/01/2012 @ 08:08:14, in it - Osservatorio Globale, read 2326 times)

Cosa c’entrano i satelliti militari con gli scienziati che studiano il riscaldamento globale? E perché l’ esercito incoraggia i progressi in campo medico, per esempio aiutando i ricercatori a sviluppare vaccini contro l’ Aids? Sono alcune delle domande su cui si sofferma Nature, che dedica al tema la copertina e uno speciale dal titolo “ Oltre la bomba”. Nell’editoriale della rivista inglese, si parla dei complessi rapporti tra scienza e mondo militare, una tradizione che è già passata per la bomba atomica e la Guerra Fredda. Resta un'impressione di fondo: la ricerca militare è inevitabile e la scienza non può ignorarlo. Deve farci i conti. E, secondo Nature, la soluzione sarebbe minimizzare i danni e trarne il maggior beneficio possibile per la società intera. Un'idea pragmatica, che bandisce ogni ingenuità, ma che può anche sollevare aspre polemiche.

L’editoriale parte da un dato: il Pentagono dispone di un budget di quasi 9 miliardi di euro da investire nella ricerca militare. Se è vero che parte di queste risorse serve allo scopo di mettere a punto armi di distruzione, è altrettanto vero che alcuni progressi in campo militare hanno storicamente avuto ricadute importanti per la società civile, basti pensare allo sviluppo di Internet o del Sistema di posizionamento globale (Gps). Nature mette anche in luce un’altra caratteristica della scienza militare: da una parte distrugge e dall’altra cura. Lo studio dei traumi cerebrali riportati dai soldati in seguito all’esplosione di una bomba, per esempio, è oggi utile alla diagnosi e alla cura di malattie che colpiscono il cervello. Ancora, la necessità di avere soldati in buona salute ha promosso i progressi nella messa a punto di vaccini.

Confidando nei risvolti positivi della scienza militare, Nature incoraggia il Pentagono a fare di più per promuoverla. Ma a delle condizioni: rendere pubblici i dati quando siano utili alla società civile, garantire la trasparenza negli studi in campo medico, organizzare incontri per discutere dei risvolti etici, legali e sociali della ricerca militare. A fare da cappello a queste raccomandazioni arriva un’altra considerazione. Con le guerre sempre più frequenti e i budget sempre più limitati, c’è il pericolo che il Pentagono scelga di investire in una ricerca militare a breve termine, che abbia come massimi obiettivi quelli di disattivare esplosivi o addestrare i soldati con videogiochi 3D. Un errore, in un momento in cui la sicurezza nazionale non è più solo una questione di potenza militare, ma di salute pubblica, di forza economica, di cambiamenti climatici, insomma, di tutto ciò che rende forte una società. E qui torniamo al punto di partenza: bisogna incoraggiare - si legge - quella vocazione della scienza militare capace di aiutare la società a crescere.

In tutto questo c’è ovviamente un risvolto della medaglia: la società potrebbe non essere sempre in grado di stare dietro a queste spinte.

Almeno dal punto di vista etico e legale. Lo sostiene P. W. Singer, direttore del 21st Century Defense Initiative at the Brookings Institution, in un commento allo speciale di Nature. Secondo Singer, la velocità dei progressi nel campo della tecnologia militare è superiore alla velocità con cui la società civile è in grado di metabolizzarli. A supporto della sua tesi, Singer fa riferimento a un fenomeno esploso negli ultimi dieci anni: l’uso di robot nelle operazioni militari. Attualmente, gli Stati Uniti possiedono un esercito di 7mila velivoli robotici e 12mila sistemi terrestri che non necessitano di conduzione umana, tanto che ormai la Us Air Force passa più tempo ad addestrare i suoi soldati-robot che non quelli in carne e ossa. L’uso massiccio di robot in guerra, d’altra parte, solleva problemi politici, se pensiamo che Obama ha recentemente affermato di non avere bisogno dell’approvazione del Congresso per attaccare la Libia. Il motivo? Perché le operazioni militari erano condotte da sistemi robotici, e quindi non avrebbero comportato sacrifici umani.    

E cosa dire del diritto, da parte di un veivolo senza pilota, di difendersi se attaccato? Non è una trovata da romanzo di fantascienza, ma quanto ha recentemente affermato la US Air Force. La questione tecnologica, poi, non riguarda solo le guerre, ma la quotidianità di ognuno di noi. Teoricamente, sistemi di controllo sempre più sofisticati potrebbero essere utilizzati per spiare i cittadini, violandone i diritti di privacy e dando loro la sensazione di vivere in un Grande Fratello che li controlla. Ecco come dai campi di battaglia il passo per arrivare alla società civile è breve. E quindi? Singer individua nel confronto l’unica soluzione al possibile cortocircuito tecnologia-società. Ricercatori, medici, filosofi, avvocati, politici, militari, industriali e comuni cittadini devono necessariamente oltrepassare i confini del loro orto per discutere delle implicazioni che i progressi scientifici (non solo quelli militari) hanno sulla società.

La scienza militare viene incoraggiata a seguire l’esempio del Progetto Genoma Umano, che dedica il 5% del suo budget annuale all’organizzazioni di incontri per discutere delle implicazioni sociali, etiche e legali delle sue stesse scoperte. Certo, quella dell’identità genetica è una questione rilevante che tocca la sensibilità di ognuno, ma lo stesso potrebbe essere per il problema tecnologico, quando entrerà di prepotenza nelle nostre vite. Ecco perché, secondo Singer, è bene non farsi trovare impreparati, eticamente troppo piccoli per una tecnologia da giganti.

Fonte: daily.wired.it