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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 

Vi ricordate la storia dei  neutrini che viaggiano  più  veloci della luce? L'aveva scoperto l'esperimento Opera, presso i  Laboratori nazionali del Gran Sasso dell' Istituto nazionale di fisica nucleare. Be', secondo quanto rivela Science in un  articolo pubblicato online, questi risultati sarebbero frutto di un  errore. Un errore dovuto a un  cavo agganciato male. Con buona pace di Albert Einstein: nulla potrebbe superare in velocità i cari vecchi fotoni. La notizia deve  ancora essere confermata ufficialmente, ma il giornalista Edwin Cartlidge avrebbe avuto una soffiata da una fonte vicina all'esperimento.

Quando lo scorso settembre i ricercatori di Opera avevano  annunciato lo straordinario risultato, molti scienziati si erano detti  scettici e avevano ipotizzato che ci fossero degli errori. Quei  60 nanosecondi di anticipo che i neutrini impiegavano per attraversare la distanza che separa il Cern di Ginevra dai laboratori del Gran Sasso  convincevano poco. " Questa discrepanza", scrive  Science: " sembra venire da una cattiva connessione tra la fibra ottica che collega il ricevitore Gps usato per correggere il tempo di volo dei neutrini e una scheda in un computer". Il ritardo causato da questo malfunzionamento sarebbe stato sottratto al tempo di volo totale e potrebbe spiegare l'arrivo anticipato.

Einstein allora può dormire sonni tranquilli? Si attende una conferma ufficiale (e nuovi dati per confermare questa ipotesi). Certo sarebbe un bel buco nell'acqua, ma la scienza va avanti anche con gli errori.

Fonte: Wired.it - Autore: Andrea Gentile - Licenza Creative Commons

 

Dalla specie umana agli animali da allevamento, e ritorno. Ma con una caratteristica in più: la resistenza agli antibiotici, acquisita dal batterio proprio per l’eccessiva esposizione a questa classe di farmaci cui sono sottoposti gli allevamenti. La storia, raccontata in uno studio pubblicato su mBio, è come si vede piuttosto semplice, e mostra due aspetti fondamentali. Da un lato sottolinea ancora una volta come l’uso indiscriminato di antibiotici possa determinare la nascita di ceppi resistenti, come appunto è Mrsa CC398 (Staphylococcus aureus resistente alla meticillina) tra le infezioni più difficili da trattare nella nostra specie. Dall’altro invece dimostra il potere fondamentale che la selezione ha sull’evoluzione degli organismi.  

A scoprire che la resistenza antibiotica nello stafilococco Mrsa avrebbe un’origine animale e non umana, è stato un gruppo internazionale di scienziati, afferenti a 20 diversi istituti di ricerca, grazie all’analisi del genoma di 89 campioni del batterio (animali e umani) provenienti da 19 paesi. Nello studio guidato dal Translational Genomics Research Institute (TGen) di Phoenix (Arizona), i ricercatori non hanno però analizzato solo i genomi dei ceppi di Mrsa CC398 resistenti, ma anche quelli di ceppi sensibili di stafilococco (i cosiddetti Mssa, S.  aureus meticillina suscettibile). In questo modo, confrontando i genomi dei diversi batteri, gli scienziati hanno avuto a disposizione una sorta di libreria attraverso cui leggere la storia evolutiva dello stafilococco. Nella speranza, magari, di rintracciare anche l’origine delle resistenze. Un modo insomma per “ guardare la nascita di un superbug” ha dichiarato Lance Price, del TGen, a capo dello studio.

Dall’analisi dei genomi è così emerso che forme di stafilococco sensibili alla meticillina sarebbero inizialmente passate da noi agli animali da allevamento, e che solo dopo il salto di specie il batterio avrebbe sviluppato le resistenze, prima alla tetraciclina poi alla meticillina. In un secondo momento lo stafilococco sarebbe tornato, rinforzato, a infettare la specie umana, diventando l’ MRSA dei maiali o degli allevamenti, come viene spesso soprannominato per l’alto tasso di infezione cui sono sottoposte le persone a contatto con questo tipo di animali.

Secondo i ricercatori lo sviluppo della resistenza negli allevamenti sarebbe piuttosto semplice da ricostruire. L’uso diffuso e indiscriminato degli antibiotici somministrati agli animali avrebbe infatti fornito la pressione selettiva sufficiente all’emergere delle resistenze. Come riporta Scientific American, basti pensare che negli Stati Uniti, ma ovviamente anche in altri paesi, gli antibiotici non vengono dati solo in presenza di infezioni ma anche a scopo preventivo, sebbene a bassi livelli. Sufficienti però, a quanto pare, a far nascere un superbug.

Fonte: Wired.it

 

Più piccoli sono i transistor, più se ne possono stipare in un solo chip, e più quel chip sarà potente. Questa equazione guida la ricerca nel campo dell'elettronica e dell'informatica da sempre e la miniaturizzazione si è spinta così in là che si è riusciti persino a creare transistor di un singolo atomo. L'ultimo della serie monoatomica, realizzato con il fosforo, è appena uscito dai laboratori di  Michelle Simmons dell'Università di New South Wales di Sidney, in Australia, e sembra parecchio migliore dei suoi predecessori.

Un transistor è un pezzetto di un materiale in grado di condurre l' elettricità e che, posto tra due elettrodi, può funzionare come un interruttore e come un amplificatore del segnale.

I ricercatori hanno ricoperto un foglio di silicio con uno strato di idrogeno e hanno usato una punta di un particolare microscopio, detto a effetto tunnel, per rimuovere in modo estremamente preciso solo alcuni atomi di idrogeno, seguendo un disegno prestabilito. Poi hanno preso due paia di striscioline di questo materiale e le hanno disposte perpendicolarmente le une alle altre, giustapponendo un piccolo rettangolo di appena sei atomi di silicio nel mezzo. Il tutto è stato poi esposto a fosfuro di idrogeno (PH 3) gassoso ed è stato fornito calore: in questo modo gli atomi di fosforo, conduttivi, si sono legati al silicio e, in particolare, un solo atomo si è andato a posizionare sul rettangolo centrale.

E il bello sta proprio qua. La parte più difficile nella realizzazione di transistor monoatomici, infatti, sta nel riuscire a posizionarli esattamente là dove li si vuole. Un passaggio fondamentale perché questa tecnologia possa passare alla fase applicativa.

Il risultato del procedimento messo a punto da Simmons è un sistema formato da 4 elettrodi di fosforo e un atomo centrale dello stesso elemento. Come descritto su Nature Nanotechnology, ciascuna coppia di elettrodi sono separati da una distanza pari a 108 nanometri (milionesimi di millimetro). Se si crea una differenza di potenziale, la corrente passa per forza attraverso il singolo atomo di fosforo centrale, che quindi funziona da transistor.

L'applicazione, però, è lontana. Come fa notare il fisico Bruce Kane dell'Università del Maryland (che non ha partecipato allo studio) su New Scientist, il transistor funziona solo per temperature prossime allo zero assoluto (inferiori al grado Kelvin, -272,15 °C) e la sua realizzazione è ancora complicata e lenta. “Vero – ribatte Simmons – ma questa resta pur sempre una delle poche tecniche che permetteranno di costruire un dispositivo di un solo atomo”.

Intanto c'è chi crede che il futuro di questa tecnologia sia nei futuri computer quantistici, come Jeremy Levy dell'Università di Pittsburgh in Pennsylvania. “ Lo spin degli elettroni in atomi di fosforo isolati possono rappresentare i qubit, l'equivalente quantistico dei bit. Controllare l'interazione tra qubit richiede di conoscere esattamente dove questi atomi si trovano. Ora che questo primo passo è fatto, la prossima sfida è far comunicare due di questi transistor”.

Fonte: Wired.it

 

“Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell'ascoltarla”. Sono le parole pronunciate da Giordano Bruno di fronte al tribunale ecclesiastico che lo condanna a morte. Nel corso della sua vita il filosofo e scrittore aveva attraversato l'Italia e mezza Europa per sfuggire alle accuse di eresia e accrescere il suo sapere. Di lui ci restano molte opere, e il racconto della sua tragica fine, il 17 febbraio 1600.

Perché è proprio durante i lunghi interrogatori condotti dagli inquisitori che la storia di Bruno viene a galla, e arriva fino a noi. Se fosse rimasto nel piccolo villaggio di Nola, dove era nato nel 1548 con il nome di Filippo, il futuro filosofo forse non avrebbe mai potuto conoscere i testi di Aristotele e Averroè. A cambiare il destino di Giordano è un prete del paese, che insegna al giovane a leggere e scrivere: e il suo mondo cambia prospettiva. Bruno lascia il suo paese all'età di 14 anni e si trasferisce a Napoli per studiare lettere, logica e dialettica. È qui che il suo pensiero viene plasmato da vari maestri di scuola averroista e agostiniana. Essendo deciso più di ogni altra cosa a proseguire i propri studi, sceglie di entrare in convento all'età di 17 anni e assumere il nome Giordano.

Ma l'abito da frate domenicano va decisamente stretto a Bruno, che fin dai primi anni trascorsi nel convento di San Domenico Maggiore a Napoli dà prova di non sopportare i dettami imposti dalla Controriforma, come il culto della Madonna. Come lo stesso Bruno racconta più tardi al processo, da giovane aveva rimosso tutte le immagini dei santi dalla sua cella, conservando solo il crocifisso.

A Napoli non ci vuole molto perché il suo pensiero poco ortodosso balzi davanti agli occhi di tutti. Come apprendono gli inquisitori, Bruno invita calorosamente un novizio a gettare via la sua copia della Historia delle sette allegrezze della Madonna e a sostituirla con qualcosa di meglio. Ma si spinge ben oltre, dato che legge di nascosto le opere proibite di Erasmo da Rotterdam e dichiara apertamente di avere qualche dubbio sul dogma della Trinità.

La prima accusa di eresia non tarda a arrivare. Nel 1576 fugge a Roma, che sotto il pontificato del vecchio e ormai debole papa Gregorio XIII era piombata nel caos più totale. Visto che per le strade la gente si uccideva con fin troppa facilità, Bruno ha la saggia idea di fare i bagagli e ripartire. Riprende il nome di Filippo per una breve lasso di tempo e peregrina incessantemente tra Savona, Torino e Venezia.

Dopo alcune avventure burrascose in Svizzera e Francia, si trasferisce in Inghilterra, dove ha il coraggio di difendere la teoria copernicana durante una lezione a Oxford: l'ateneo non gradisce affatto la cosa e lo caccia malamente. Nel 1586 Bruno raggiunge la Germania, dove colleziona una scomunica da parte della chiesa Luterana. Tuttavia, le sue opere – davvero poco ortodosse – iniziavano a circolare per tutta Europa e il suo nome acquisisce grande fama.

La stessa fama che, purtroppo, segna la sua fine. Nel 1591 Bruno accetta l'invito del patrizio veneziano Giovanni Mocenigo, che lo voleva come suo maestro nella Serenissima. Ma quando il filosofo accenna al fatto di voler tornare in Germania per pubblicare l'ultima delle sue opere, il Mocenigo non la prende troppo bene e lo denuncia come eretico, consegnandolo nelle mani dell'Inquisizione. La notizia giunge all'orecchio degli inquisitori di Roma, che con molta probabilità già conoscevano le opere di Bruno. Così, nel 1593 il filosofo viene estradato dalla Serenissima e consegnato al Sant'Uffizio. Il lungo processo a suo carico va avanti per 7 anni, ma nonostante le torture e alcuni cedimenti, alla fine il nolano non ritratta le sue idee sull'infinità dell'universo e l'eliocentrismo.

Tanto bastava all'Inquisizione, che lo bolla come eretico e ateo. L'8 febbraio 1600 il tribunale legge la sentenza di condanna al rogo. Nove giorni dopo, Bruno viene condotto in Campo de’ Fiori con la lingua serrata da una mordacchia, in modo che non possa parlare di fronte alla folla prima di essere denudato e arso vivo. Le sue ceneri, in segno di spregio, vengono gettate nel Tevere.

Fonte: Wired.it

 

Sono molti gli animali che si sono lasciati addomesticare da noi esseri umani nel corso della storia: la convivenza con i cani è cominciata oltre 33mila anni fa, quella con i gatti intorno a 10mila, quella con i cavalli da più di 5mila, per non parlare di mucche, capre e via dicendo. Ma ci sono specie che sembra stiano sperimentando qualcosa cui non avevamo mai fatto caso prima d'ora: si starebbero addomesticando da sole. Una tra tutte? I bonobo (Pan paniscus).

Volpi gentili Coccole di bonobo ...e grandi

Per Brian Hare, antropologo evoluzionista alla Duke University e autore di uno studio pubblicato su Animal Behaviour, si tratta di un vero e proprio processo di selezione naturale contro l' aggressività. “ L'idea che una specie addomestichi se stessa è un po' folle, ma ci sono alcune specie che riescono a dominare su altre proprio diventando più mansuete”, ha detto Hare a Wired.com.

Nei bonobo i ricercatori hanno colto alcune caratteristiche tipiche delle specie addomesticate: innanzitutto, rispetto ai loro cugini scimpanzé (Pan troglodytes, le due specie si sono divise circa un milione di anni fa) , questi primati hanno un'indole molto più gentile; inoltre mostrano particolari cambiamenti nello sviluppo e differenze anatomiche analoghe a quelle esistenti tra le specie addomesticate e i predecessori selvatici, come denti e mascelle più piccole.

Infatti, come ricorda Wired.com, la perdita dell' aggressività è l'essenza della domesticazione. Questo processo coinvolge i sistemi endocrino e nervoso, porta con sé mutazioni in diversi network di geni e genera una serie di cambiamenti anche nel fenotipo. I biologi la chiamano la s indrome della domesticazione.

Uno dei più grandi esperimenti che ha dimostrato in modo inconfutabile gli effetti della domesticazione è quello partito nel 1956 e che si sta conducendo ancora oggi in Russia sulle volpi. In questo studio, che coinvolge circa 130 fattorie, solo agli animali che si mostrano più tolleranti alla presenza umana è concesso di riprodursi. Ebbene, in soli 50 anni le inafferrabili volpi sottoposte a selezione sono diventate come cagnolini giocherelloni che adorano farsi spazzolare la coda. In pratica hanno mantenuto i classici tratti dei cuccioli, che normalmente scompaiono con la crescita. Anche il fenotipo ricorda quello dei piccoli: manto macchiato, orecchie pendule, coda riccia e zampe corte.

Torniamo alle scimmie. I maschi degli scimpanzé sono spesso in lotta per il posto da capobranco, mentre i maschi di bonobo raramente combattono gli uni contro gli altri. Anche nei comportamenti riproduttivi, i primi sono violenti con le compagne, mentre i secondi no: in generale, sono più inclini al gioco e a scambiarsi favori durante tutto il corso della loro vita. Secondo quanto riportano i ricercatori, anche alcune aree cerebrali considerate fondamentali per il comportamento, come l'amigdala, mostrerebbero arrangiamenti diversi nelle due specie.

In pratica, è come se l'evoluzione avesse agito nei bonobo in modo analogo ai russi con le volpi.

D'accordo con Hare è Richard Wrangham, primatologo e co-autore dello studio: quelli osservati  sembrerebbero proprio segni di domesticazione. Ma come potrebbe essere avvenuto questo processo? I biologi pensano che la risposta stia nei gorilla. Scimpanzé e gorilla hanno infatti condiviso alcune aree per molto tempo nel corso della loro storia, dovendo competere per il cibo: come indica il Wwf infatti, i bonobo vivono a sud del fiume Congo, mentre gli scimpanzé e Gorilla stanno a  nord.

Ad un certo punto della loro storia evolutiva, anche i lupi più docili avrebbero trovato un vantaggio rispetto a quelli più aggressivi – fa notare Hare – potendo occupare una nuova nicchia ecologica ai confini degli insediamenti umani.

Il fenomeno potrebbe essersi verificato in moltissime specie. I due scienziati sottolineano però che questo è solo uno scenario plausibile: quella dell'auto-domesticazione resta, almeno per ora,  un'affascinante ipotesi.

Fonte: Wired.it

 

Oggi grazie alla biologia molecolare gli scienziati hanno sviluppato strumenti di analisi così potenti e veloci da realizzare test genetici a soli mille dollari. Ma tutto ciò non sarebbe mai stato possibile senza lo sforzo dello Human Genome Project (Hgp), il consorzio internazionale che ha permesso di sequenziare il genoma umano. E pensare che i fondi stanziati nel 1990 ammontavano a ben 3 miliardi di dollari. Soldi spesi davvero bene, visto che i primi risultati sono stati pubblicati su Nature il 15 febbraio 2001 in un numero open access.

Il nostro genoma Tutto dipende ta tre

Una conquista senza precedenti nella storia della genetica dopo la scoperta del dna, la molecola alla base della vita. In origine, gli scienziati si aspettavano di concludere lo Hgp nell'arco di 15 anni, ma la prima bozza pubblicata nel 2001 dimostrò a tutti che il lavoro sarebbe stato completato in anticipo sulla tabella di marcia. Infatti, dopo la pubblicazione della bozza su Nature – che copriva l' 83% del genoma – i risultati definitivi furono annunciati già nel 2003. Merito del lavoro di una équipe instancabile di ricercatori provenienti da tutto il mondo, che in una decina di anni ha analizzato quasi tutte le 3 miliardi di molecole ripetute (A, C, G, T) che compongono il nostro codice genetico. In tutto, gli scienziati hanno identificato circa 23mila geni che codificano proteine, ma questi non rappresentano che l'1,5% di tutto il genoma. Insomma, il nostro dna è molto di più che un semplice libretto di istruzioni. Sta di fatto che le ricerche sono andate avanti per altri anni, e oggi online è disponibile una sequenza aggiornata al 2009.

La cosa più interessante è che il materiale genetico su cui hanno lavorato gli scienziati dello Hgp  proveniva per il 70% da un unico donatore anonimo originario della cittadina americana di Buffalo. Una scelta del tutto casuale dovuta al fatto che il campione di dna prelevato dal misterioso individuo era il meglio conservato tra tutti quelli delle altre migliaia di volontari che si erano offerti.

Ma esiste anche un'altra persona che ha avuto molto a che fare con il sequenziamento del genoma umano, e il suo nome è tutt'altro che sconosciuto. Si tratta di Craig Venter, lo scienziato-businessman che nel 1998 ha fondato Celera, una company di biotecnologie specializzata nel sequenziamento della molecola a doppia elica. Venter, che fino a qualche anno prima aveva partecipato a Hgp, si era messo in proprio con lo scopo di battere sul tempo il consorzio internazionale e trarne lauti profitti. La sua idea iniziale era quella di investire 300 milioni di dollari nell'impresa per poi brevettare parte dei geni sequenziati.

Così, in una corsa contro il tempo, gli scienziati dell'Hgp si affrettarono a rendere pubbliche parte delle sequenze genomiche codificate fino a quel momento. Il team di bioniformatici dell'università californiana di Santa Cruz mise online una prima bozza il 7 luglio 2000. Da quel giorno, il genoma umano era diventato di pubblico dominio.

Fonte: Wired.it - Licenza Creative Commons

 

A volta basta davvero poco a far capitolare il partner. Niente complessi corteggiamenti o danze sensuali: per alcuni bachi da seta è sufficiente lasciare nell’aria qualche goccia del loro profumo (molecole di feromone) per attrarre i maschi, anche a chilometri di distanza. Una questione di chimica insomma, cui probabilmente neanche la specie umana sarebbe immune.

In realtà, stabilire il ruolo che i segnali chimici hanno nell’essere umano non è affatto facile, anche se esistono indizi a sostegno di una comunicazione “sotto il livello della consapevolezza”, come spiega Bettina Pause della Heinrich Heine University di Düsseldorf, che ha dimostrato la capacità della specie umana di sentire un segnale d’allarme nell’odore delle persone impaurite o ansiose. Una sorta di feromoni umani in altre parole, non tutti volti al corteggiamento del partner, spiegano gli scienziati; così come avviene in natura, con feromoni emessi durante i combattimenti (dai lemuri) o solo per indirizzare i propri simili verso le fonti di cibo, come fanno le formiche.

D’altronde, come riporta Scientific American, basta pensare agli effetti di una convivenza stretta, quale può essere la condivisione di una stanza. In questi casi infatti a volte si osserva che la forte vicinanza porta a sincronizzare il ciclo mestruale delle ragazze. Mentre è sufficiente far annusare gli odori prodotti dalle ascelle (maschi e femmine) ad alcune donne per variare il loro ciclo; ma la molecola (o le molecole) responsabili di questo cambiamento non sono state ancora identificate.

Ma senza ricorrere a esperimenti, c’è un comportamento innato guidato dalla chimica, come spiega Charles Wysocki, della Monell Chemical Senses Center di Philadelphia. Quello che porta un neonato a trovare il seno della madre in cerca di cibo, seguendo dei segnali chimici provenienti dal suo capezzolo. D’altra parte, come spiegano gli scienziati, alcuni odori emessi dal seno di donne che allattano avrebbero effetti anche sugli adulti, aumentando per esempio il desiderio sessuale nelle donne senza figli. Per ora però la ricerca dei feromoni umani resta senza veri e propri protagonisti, eccezion fatta per l’ androstadienone (derivante dal testosterone), la molecola in grado di rendere le donne più rilassate.

Ma oltre a cercare chi comunica cosa, l’altra parte del problema sull’esistenza o meno di feromoni umani riguarda l’identificazione della struttura responsabile a percepire l’odore e il segnale che esso veicola. Negli animali a farlo è l’ organo vomeronasale, una struttura collocata nel naso, non sempre presente nell’essere umano o comunque presente con funzioni ridotte (ovvero i geni che codificano per i recettori non sono attivi). Ragion per cui spiegare come la specie umana percepisca i feromoni sembrerebbe un’impresa alquanto ardua. Se non fosse che uno studio lo scorso anno ha mostrato come l’ androstadienone sia in grado di indurre una risposta a livello cerebrale in alcune persone, anche in assenza dell’organo vomeronasale (o comunque presente, ma bloccato). A dimostrazione quindi che l’essere umano riesce a captare tali segnali chimici, feromoni, attraverso il sistema olfattorio (o forse anche attraverso il misterioso nervo terminale o nervo cranico 0).

Feromoni a parte, ci sono altre molecole che contribuiscono all’odore di una persona e che ci aiutano a stabilire incoscientemente se ci piace o meno. Sono le proteine del complesso maggiore di istocompatibilità (MCH), che svolgono ruoli importanti a livello immunitario. E che, secondo alcuni studi, sarebbero alla base delle nostre scelte sessuali. In particolare ci piacerebbero di più quelli con MHC particolarmente diversi dai nostri: un espediente trovato dall’evoluzione. Il motivo? Perché scegliendo MHC diversi dai nostri, quelli dei nostri figli lo saranno ancora di più. A beneficio del loro sistema immunitario.

Fonte: Wired.it

 

Di solito, nel mondo delle stampanti tridimensionali si fa a gara per vedere chi realizza gli strumenti laser più piccoli e compatti. Ma in questo caso, sul banco dei creativi c'era in gioco qualcosa di più: costruire una protesi mandibolare per una paziente di 83 anni. Una bella impresa per i laboratori tecnici di LayerWise, uno spin-off universitario che si occupa di stampa 3D dal 2008.

L'idea di costruire una protesi su misura è stata proposta dai ricercatori del Biomed Research Institute, un dipartimento dell' Università di Hasselt che da anni esplora le possibili alternative alle complicate operazioni chirurgiche di ricostruzione ossea. Come spiega New Scientist, i medici dovevano rimuovere la mandibola originale perché compromessa da una grave infezione, ma non potevano sottoporre la paziente a troppi interventi.

L'unica soluzione consisteva nel costruire da zero una protesi mandibolare che sostituisse l'osso originale. Non è affatto uno scherzo, perché operazioni del genere non sono state mai tentate prima. Ma con un computer è una stampante 3D si possono fare delle cose al limite dell'incredibile. È bastato fare una scansione a risonanza magnetica della mandibola della paziente e immettere tutti i dati nelle macchine di LayerWise. Così, dentro la pancia della stampante un laser ha fuso e inciso sottili strati di titanio con precisione assoluta per restituire una copia esatta della mandibola originale.

Il fatto più sorprendente è che la protesi è stata realizzata in poco più di 4 ore di lavoro, durante cui la stampante 3D ha riprodotto alla perfezione tutti i dettagli dell'osso originale. Dopo aver ricoperto il titanio con una ceramica biocompatibile, i medici si sono affrettati a impiantare la nuova mandibola sul cranio della paziente. Neppure un giorno dopo l'operazione, la donna è tornata a parlare senza problemi.

Fonte: Wired.it

 

"Segui lo spirito del tuo maestro, mai le sue orme". Sono le parole scritte con eleganza dal pennello di Kiyoshi Shiga, un medico giapponese che da giovane ebbe la fortuna di studiare con Shibasaburo Kitasato, uno degli allievi di Robert Koch, il padre della microbiologia moderna. Sotto il peso di nomi così importanti, Shiga avrebbe rischiato facilmente di vivere nell'anonimato, ma la sua grande dedizione alla ricerca lo premiò. Nel 1897 Shiga identificò il bacillo della dissenteria, una malattia che uccide ancora centinaia di migliaia di persone ogni anno.

Figlio di un samurai L'attacco di Shigella Sembra quasi innocuo La scoperta

E pensare che il giovane Shiga era cresciuto in uno dei periodi più turbolenti della storia del Giappone. Il giorno della sua nascita, il 7 febbraio 1871, il paese era nel bel mezzo del Rinnovamento Meiji che aveva consegnato di nuovo il potere nelle mani dell'imperatore. Suo padre, che era un amministratore della sconfitta classe dei samurai, aveva perso tutta la sua influenza. Un brutto colpo per la famiglia. Eppure, nonostante tutto, nel 1892 Shiga era riuscito a iscriversi alla scuola di medicina della Università Imperiale di Tokyo.

Fu il suo trampolino di lancio verso il successo. Appena laureato, Shiga approdò come assistente di ricerca presso l' Istituto di malattie infettive fondato dal mentore Kitasato. Nei laboratori di Tokyo, il medico intraprese i suoi primi studi sulle epidemie di dissenteria – chiamata comunemente seikiri – che flagellavano il Giappone. Molti studiosi del tempo ipotizzavano si trattasse di una malattia batterica, ma nessuno era mai riuscito a individuare con precisione l'agente patogeno. Fu proprio l' attività di ricerca condotta da Shiga a identificare una volta per tutte il Bacillus dysenterie (poi rinominato Shigella dysentheriae in suo onore nel 1930). Ispirandosi ai postulati di Koch – ovvero i principi alla base della microbiologia moderna – il giovane medico riuscì a isolare il batterio da 36 pazienti ricoverati a Tokyo e a tracciare un profilo biologico molto accurato del patogeno.

La profonda conoscenza della malattia, che all'epoca colpiva più di 90mila persone in Giappone, permise a Shiga di sviluppare anche il primo vaccino contro la dissenteria. Fu lui stesso il primo a iniettarsi un preparato ottenuto dalle cellule morte di B. dysenterie nel tentativo di scoprire quale fosse la strategia migliore per immunizzare l'organismo. Negli anni successivi, Shiga si confermò come uno dei più grandi esperti di malattie infettive al mondo. Dopo aver lavorato all'estero per molti anni, tornò in Giappone per continuare le ricerche presso l'Istituto di Kitasato e vivere insieme ai suoi cari. Infatti, dal suo matrimonio con Ichiko erano nati ben otto figli; ma la sorte non fu molto benevola con la sua famiglia.

Il medico perse la moglie e due figli durante la Seconda guerra mondiale e vide la sua casa distrutta completamente dai bombardamenti. Nonostante le gravi sciagure, Shiga non si arrese e dedicò il resto della propria vita alla lotta contro le malattie infettive come la dissenteria e la tubercolosi. Era diventata la sua missione, da sempre condotta con impeccabile professionalità. Morì il 25 gennaio 1957, all'età di 85 anni.

Fonte: Wired.it

 

In tempo di crisi economica, capita che le biblioteche delle università si vedano costrette a disdire gli abbonamenti con le riviste scientifiche. Succede così, per esempio, che i ricercatori non possano più avere libero accesso agli studi pubblicati dei colleghi. E succede anche che qualcuno decida di ribellarsi contro le stesse riviste e gli editori, e chieda loro, se non di votarsi all' open access, quanto meno di cambiare le politiche di distribuzione e di abbassare i prezzi. Timothy Gowers, matematico all' Università di Cambridge e medaglia Fields 1998, per esempio, ha attaccato direttamente l'olandese Elsevier, uno degli editori più importanti in ambito scientifico (Advances in Mathematics, Journal of Algebra, Journal of Geometry and Physics, Journal of Mathematical Analysis and Applications, per citare qualche rivista). Lo ha fatto in un recente post sul suo blog, dal titolo decisamente esplicativo: “ Elsevier - my part in its downfall”.

Da qui è presto nato un vero e proprio movimento degli scienziati per boicottare l'editore, con una petizione online, The Cost of Knowledge: “ Se vuoi dichiarare pubblicamente che non supporterai più alcuna rivista Elsevier a meno di un cambio radicale del modo in cui operano, allora lo puoi fare compilando il form qui sotto”. Questa mattina, i firmatari erano già oltre 3.350 (con vari commenti) e tra i nomi spiccano quelli di altre medaglie Fields e di ricercatori di atenei del calibro di Cambridge, Oxford, Harvard e Yale. Il primo nome della lista è quello di un altro matematico:  Tyler Neylon.

Il movimento si scaglia contro i prezzi – che definisce esorbitanti – e critica la pratica di vendere le riviste a pacchetti; in questo modo, si legge, le biblioteche sono costrette a comprare anche quelle che non vorrebbe. Gowers e colleghi criticano apertamente anche il sostegno di Elsevier a Sopa (Stop Online Piracy Act), a Pipa (Protect IP Act) e allo US Research Works Act.

Elsevier, dal canto suo, ha già fatto sentire la sua voce: “ Un articolo costa 10 dollari (ovvero 6,5 sterline), un prezzo che rientra nella media, e gli sconti applicati se si compra più di un articolo portano il prezzo reale di un singolo articolo a 2 dollari, molto al di sotto della media”, riporta The Guardian.

Quanto alla vendita a pacchetti, l'accusa non starebbe in piedi per la casa editrice: “ Elsevier ti permette di comprare sia un singolo articolo, sia un’intera rivista, oppure una qualsiasi combinazione di articoli da riviste diverse”, ha risposto Nick Fowler, Director of global academic relations: “ Se se ne comprano di più si ottengono dei benefit, come è prassi comune che si faccia, ma questo non significa che non si sia liberi [di non farlo]- ma allora non ci si può aspettare uno sconto”.

Insomma, Elsevier non ci sta ad essere dipinto come un nemico della scienza e ora vorrebbe parlare direttamente con i promotori del movimento. È indubbio - ha sottolineato Fowler - che si deve fare un maggior lavoro di comunicazione.

“ All'inizio firmavano circa 200 persone al giorno, ora siamo a 600. L'unica cosa che loro hanno da perdere è la reputazione, ed è esattamente quello che stiamo erodendo”, ha detto Neylon, che sottolinea anche come gli accademici forniscano pubblicamente ricerche finanziate a riviste open access e il loro lavoro di revisione tra pari. Dopo di che, però, devono pagare Elsevier e company per avere accesso alle stesse ricerche pubblicate.

“Quello che in molti vorrebbero, me incluso, è sbarazzarsi di tutte le riviste e al loro posto avere board editoriali liberi di muoversi che forniscono un marchio di approvazione ai paper che vorrebbero apparire in siti come ArXiv, un deposito open access di articoli scientifici. Ma non è necessario avere idee così radicali per trovare la situazione attuale insoddisfacente e chiedere un cambiamento”, ha ribadito Gowers.

Difficile credere che Elsevier cambierà politica. Secondo i promotori della petizione è più probabile che lentamente avverranno una serie di piccoli cambiamenti, come il diffondersi di alternative open access con board editoriali in grado di garantire uno standard di qualità elevato.

Fonte: Wired.it

 
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Now Colorado is one love, I'm already packing suitcases;)
14/01/2018 @ 16:07:36
By Napasechnik
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21/11/2016 @ 09:41:39
By Anonimo
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21/11/2016 @ 09:40:41
By Anonimo


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20/04/2024 @ 03:51:05
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