Ma veniamo alla distribuzione geografica. In questo caso l’Italia si divide in tre: da una parte le amministrazioni che spendono per le politiche ambientali più della media nazionale (Roma, Milano e Bologna), da un’altra quelle che sono più o meno in linea (Genova, Tornio, Catania e Palermo) e infine quelle i cui stanziamenti sono leggermente o grandemente inferiori, fra le quali la meno peggio è Napoli (41%) mentre le ultime della classe sono Firenze e Trieste (17%) e Reggio Calabria (16%). In generale si spende meglio al Nord, dove sembra ci sia più attenzione per le tematiche ambientali.
In ogni caso, per quanto essa sia utile ai fini di una panoramica generale, la valutazione dell’impegno delle amministrazione italiane in questi ambiti non si può fermare a questa statistica.
Cosa è opportuno che facciano quindi? Un primo ammonimento che ci sentiamo di rivolgere riguarda la natura dei provvedimenti. Politiche strumentali, di facciata, palliative e non realmente incisive sono quanto di più dannoso ci possa essere, poiché danno l’impressione che il problema sia stato affrontato mentre in realtà non è così e l’attenzione cala ma i danni rimangono.
Purtroppo è proprio questa la direzione in cui vanno la maggior parte dei politici italiani, più attenti ad adottare misure popolari e foriere di consenso elettorale che provvedimenti davvero incisivi (la politica urbanistica e relativa alla mobilità è piena di esempi di questo tipo). Detto ciò, è importante avere un approccio sistemico, che tenga presente l’obiettivo che si vuole raggiungere.
In tema di raccolta differenziata, per fare un esempio, studiare un nuovo sistema di raccolta con i cassonetti stradali significa partire subito col piede sbagliato, poiché è dimostrato che la cassonettizzazione può portare a un massimo del 45% circa di raccolta differenziata; la vera svolta sarebbe eliminare i cassonetti e sostituirli con la raccolta porta a porta, ma questo passo si può compiere per prima cosa solo se è chiaro e definito l’obiettivo finale (che nel nostro esempio è costituito da un sistema a rifiuti zero), secondariamente se si è liberi da influenze esterne (penso in questo caso alle aziende municipalizzate che gestiscono la raccolta dei rifiuti, le quali non hanno alcuna convenienza economica a perseguire questo obiettivo e quindi agiscono diversamente).
Il pugno di ferro è necessario quando si ha a che fare con soggetti del territorio (o, ancora peggio, esterni al territorio) che non hanno fra le loro priorità la tutela ambientale e la riduzione dei consumi: abbiamo visto che sono proprio loro a causare gli scompensi e i deficit che il calcolo dell’impronta ecologica ci ha aiutato a individuare e in una logica di sostenibilità, autosufficienza, tutela delle risorse e riduzione dei consumi l’intervento delle istituzioni in questi casi deve essere perentorio, libero da qualsiasi condizionamento e se necessario radicale.
Il principio del protocollo di Kyoto "chi inquina deve pagare" (peraltro scarsamente rispettato) è errato: nessuno può inquinare, né chi ha i soldi e si può permettere di saldare multe e sanzioni né chi non ne ha e non se lo può permettere.
Abbiamo così concluso il nostro ciclo di analisi. Un elogio va rivolto all’Associazione dei Comuni Italiani, la quale ha portato avanti questo studio che testimonia da un lato come gli enti locali siano piacevolmente decisi a ritornare protagonisti di una politica oggi sempre più globalizzata e deterritorializzata, dall’altro come ci sia ancora qualcuno che fortunatamente si pone come priorità lo studio e la risoluzione del problema ambientale.
L’invito è quello di dare un seguito a ciò che si è iniziato: il Rapporto Cittalia ha tracciato il solco mostrandoci che le criticità sono urgenti e gravi e che c’è bisogno di un’azione decisa, sia da parte dei cittadini sia da parte delle istituzioni, per risolverle. Quindi rimbocchiamoci le maniche e cominciamo…
Fonte: ilcambiamento.it