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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 

“Nel giorno della nuova Luna, nel mese di Hiyar, il Sole è stato messo in ombra, ed è sparito durante il giorno, alla presenza di Marte”. Ecco Marte, appunto. Sarebbe stata proprio la visibilità del pianeta (combinata con tutti gli altri dati) scritta sul reperto di argilla ritrovato a Ugarit, nell’attuale Siria a spingere gli scienziati a rifare i calcoli. Fino alla fine degli anni Ottanta infatti si credeva che la più antica testimonianza scritta di un’ eclissi di sole mai rinvenuta risalisse al 3 maggio 1375 a.C. Poi però una nuova datazione del reperto stesso, insieme agli altri indizi, Marte prima di tutto, ha portato i ricercatori a mettere di nuovo tutto in discussione. E così l’eclissi più antica di cui si abbia notizia è quella del 5 marzo 1223 a.C.

Spettacoli celesti

Prima di allora in realtà le eclissi avevano già affascinato (e spaventato) gli esseri umani. Si racconta, infatti, che molto prima che fosse trovata una spiegazione scientifica per l’oscurazione degli astri, si credeva che qualche dragone o mostro apparisse all’improvviso nel cielo per mangiarsi la luce del sole. Ed era proprio il fattore sorpresa a spaventare (in piena antitesi al fattore previsione che invece oggi ci tieni con gli occhi incollati al cielo per partecipare allo spettacolo delle eclissi). Così che l’unico modo che gli antichi avevano per opporsi alla comparsa improvvisa di quel dragone che arrivava a mangiarsi il Sole era quello di spaventarlo, facendo più baccano possibile, con grida e tamburi.

Eclissi in sequenza

Fino a quando, intorno al primo secolo a.C, non fosse stato chiaro che quelle ombre momentanee sul Sole erano solo dei fenomeni astrali spiegabili scientificamente, e che non c’era nessun drago nel cielo, le eclissi avrebbero continuato a spaventare. O quantomeno a creare un’atmosfera tetra, come scriveva Omero nella sua Odissea: “E il Sole è scomparso dal cielo, e una nebbia funesta aleggia su tutto”, riferendosi forse all’eclissi totale di Sole avvenuta nel 1778 a.C.

Eclissi parziale

Per i Greci infatti le eclissi erano un cattivo presagio, il segnale che qualche dio dell’Olimpo si fosse adirato. O comunque un segno divino, magari quello di deporre le armi durante una battaglia, come accadde con l’eclissi di sole totale del 585 a.C, negli scontri tra i Medi e i Lidi.

Sarebbero state numerose e più o meno suggestive le occasioni in cui un’eclisse di Sole avrebbe fatto da cornice a eventi importanti. Mentre in tempi più recenti invece lo sarebbe stata come apripista a fondamentali scoperte scientifiche. Come quella dell’ elio (che non a caso prende il nome proprio dal Sole, helios in greco), nel Diciannovesimo secolo, il primo elemento chimico a essere scoperto fuori dalla Terra. Gli indizi sulla presenza nel sole di questo elemento vennero infatti raccolti proprio durante un’ eclissi solare. Una cinquantina di anni dopo, nel 1919, sarebbe stato ancora il passaggio della Luna sulla nostra stella a venire in aiuto alle teorie di Einstein, visto che fu un’eclissi a dimostrare che anche la luce può essere curvata dalla forza di gravità.

Fonte: wired.it

 

Anatomia di un attacco di Anonymous. Cita così il report che Imperva, un’azienda californiana di sicurezza digitale, è pronta a diffondere questa settimana nel corso di una conferenza sul tema. Dentro infatti ci sono scritte alcune delle strategie utilizzate dagli hackers di Anoymous - tra le cui fila sono stati appena arrestati alcuni esponenti -  durante uno dei loro attacchi. Non uno qualsiasi, e neanche uno dei migliori riusciti: quello dello scorso agosto al Vaticano.

In realtà, a scorgere il documento il nome del Vaticano non compare da nessuna parte (si parla solo di un attacco avvenuto nel 2011 e durato 25 giorni), ma come racconta il New York Times, due persone coinvolte nell’analisi confermerebbero che quella fatta da Imperva riguardi proprio i siti dello Stato Pontificio. E sarebbero stati proprio gli addetti alla sicurezza del Vaticano a commissionare all’agenzia californiana un report sul fallito attacco, rinominato Operation Pharisee (Operazione Farisei).

I fatti risalirebbero all’agosto del 2011, nello stesso periodo in cui il papa Benedetto XVI si trovava in Spagna in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù, uno dei momenti di massima visibilità per il Vaticano. Proprio per questo Anonymous pensò di colpire il sito organizzatore della giornata, e rivenditore di oggettistica a tema, nell’ottica mandare a monte l’evento stesso e richiamare l’attenzione sui problemi irrisolti degli abusi sessuali ai minori da parte di alcuni sacerdoti. Questo lo scopo, e adesso Imperva rende note anche le tattiche messe in moto da Anonymous per procedere.

In primo luogo c’è stata una vera e propria campagna mediatica: 18 giorni di messaggi, foto, video, link ad articoli postati dagli hacker sul proprio sito, su YouTube, Twitter Facebook e social network, per reclutare altri hacker, e convincerli ad agire contro i siti del Vaticano. Come spiega il report, questa è una delle fasi più delicate di un piano d’azione di hackeragggio, quella tesa a richiamare l’ attenzione su un problema.

Poi è cominciata la fase successiva: studiare il nemico, ovvero cercare i punti deboli del bersaglio (il sito organizzatore dell’evento), i buchi attraverso cui entrare sarebbe stato più facile insomma. È  una fase – breve, appena tre giorni-  in qualche modo di preparazione, che serve a capire quali sono i punti da sfruttare per potenziale il vero e proprio attacco. In genere è portata avanti da pochi hacker esperti, come spiega ZDNet. In questo caso però i software automatici impiegati allo scopo non rilevarono nessuna falla lasciata aperta, così che gli hackers sono passati alla loro “ultima risorsa”, come la chiama il report di Imperva, negli ultimi due giorni: un attacco DDoS (Distribuited Denial of Service), con cui sovraccaricare il sito preso di mira fino a farlo crashare.

Una mossa a cui anche i meno esperti possono partecipare dai loro computer e smartphone.

Le conseguenze? Solo nel primo giorno il traffico internet del sito preso di mira era stato 28 volte quello medio, 34 il giorno successivo, tanto che il servizio, stando a quanto dichiararono a suo tempo da Anonymous, cominciava a essere disattivato in alcuni paesi. Ma il report di Imperva invece sostiene che il sito resse bene all’attacco, tenendo alla larga gran parte del traffico eccessivo, perché il Vaticano avrebbe fatto dei grossi investimenti in termini di sicurezza. Quelli che verrebbe da pensare sono mancati, addirittura, al dipartimento di giustizia americano e all’Fbi.  

Fonte: wired.it

 

La dobbiamo chiamare l' astronave dei record. Non si tratta del Millennium Falcon o dell'Enterprise, ma di una sonda da 258 chilogrammi che risponde al nome di Pioneer 10. Insomma, una navicella spaziale molto più contenuta rispetto ai giganti della fantascienza, ma che vanta comunque una serie di primati storici.

Pioneer 10 at Jupiter.gif

Tanto per cominciare, il 2 marzo 1972 decolla da  Cape Canaveral, in Florida, e schizza in cielo alla velocità di 52mila chilometri all'ora. Quanto basta per lasciarsi la Luna alle spalle in 11 ore e bypassare Marte dopo 12 settimane di viaggio e 80 milioni di km di corsa. Il 15 luglio, Pioneer 10 segna il primo record spaziale facendo il suo ingresso nella fascia di asteroidi che separa i pianeti interni del Sistema Solare da quelli più esterni. Come sa benissimo anche Han Solo, attraversarla non è esattamente uno spasso: un labirinto esteso 280 milioni di km dove polveri e ammassi di roccia grandi quanto l'Alaska sfrecciano a velocità di 20 chilometri al secondo.

Secondo record: Pioneer 10 supera la fascia di asteroidi e, il 3 dicembre 1973, entra finalmente in contatto con Giove. Nessun dispositivo costruito da un essere umano era mai riuscito a raggiungere il quinto pianeta del Sistema solare. Nell'incrociarlo, la navicella scatta le prime immagini ravvicinate della sua superficie e ne mappa il campo magnetico. Non capita tutti i giorni di passare vicino a un gigante gassoso dal volume mille volte quello della Terra.

File:Pioneer10-plaque tilt.jpg

Ma la missione di Pioneer 10 non si ferma qui: dopo essersi lasciato anche Giove alle spalle, la navicella punta verso i confini del Sistema. Durante il suo lungo viaggio verso lo Spazio esterno, gli strumenti di bordo raccolgono dati preziosi sui venti solari e i raggi cosmici che provengono dalla nostra galassia. Purtroppo, man mano che la sonda si avventura oltre Plutone, il suo segnale diviene sempre più debole.

La Nasa dichiarò conclusa la missione Pioneer 10 il 31 marzo 1997, ma continuò a tracciare il segnale della navicella per studiare nuovi metodi di comunicazione da implementare sulle nuove sonde extrasolari. Pioneer 10 ha tenuto duro fino al 23 gennaio 2003, quando la stazione di controllo terrestre ha ricevuto il suo ultimo segnale radio.

Trent'anni di missione fuori dal sistema solare sono troppi anche per un guscio di metallo, figurarsi per un essere umano. Eppure, anche se i sistemi di alimentazione di Pioneer 10 sono ormai fuori uso, la navicella forse riuscirà a portare a termine un'altra missione. Quella di portare un messaggio degli abitanti della Terra alle forme di vita intelligente che potrebbero trovarsi da qualche parte nella galassia. Il dispositivo infatti reca a bordo una placca di alluminio anodizzata che raffigura un uomo, una donna e la provenienza dell'astronave. Chissà quante possibilità abbiamo di vedercela riportare indietro.

Fonte: wired.it

 

“Fa esattamente 5.050”. A quella risposta così precisa e rapida, il maestro era probabilmente restato di stucco. In pochi minuti, il piccolo genio aveva trovato la soluzione alla domanda fatta per metterlo in punizione: trova la somma di tutti i numeri compresi tra 1 e 100. Niente di più facile per il giovane Carl Friedrich Gauss, che già da bambino era un asso in matematica.

Altro che addizioni

Per rispondere a quell’indovinello, un alunno normale avrebbe preso carta e penna e sommato i cento numeri uno a uno. Ma per la mente plastica di Gauss, le addizioni erano davvero banali: bastava accorgersi che la somma dei numeri agli estremi della serie dà sempre 101 (1+100, 2+99 fino a 50+51). Insomma 50 coppie che sommate danno 101. Bastava insomma una semplice moltiplicazione (50x101) per ottenere la risposta esatta: 5050, appunto.

Un genio

Questo è solo uno dei tanti aneddoti sulla vita di Gauss, segno del fatto che la sua storia è tutt'altro che banale. Era nato nel 1777, in Germania, da una famiglia molto povera che difficilmente avrebbe potuto garantirgli un'educazione scolastica. Nonostante tutto, il piccolo aveva dato prova fin da subito di eccezionale intelligenza. Fu la sua più grande fortuna, visto che il duca di Brunswick rimase tanto colpito dalle qualità del piccolo genio da finanziare i suoi studi.

L'ultimo scatto

Grazie all'aiuto del suo benefattore, Gauss completò il percorso universitario presso l' università di Gottinga  nel 1798. I suoi studi di matematica – che intraprese fino al giorno della morte, avvenuta il 23 febbraio 1855 – produssero fin dai primi anni risultati sorprendenti. A soli 21 anni pubblicò il suo primo trattato in latino, le Disquisitiones Arithmeticae. Si trattava di una raccolta senza precedenti di teoremi dei numeri fino ad allora sparsi in miriadi di testi minori.

Ma il vero grande successo di Gauss arrivò due anni più tardi, quando si trattò di risolvere un problema che attanagliava gli scienziati dell'epoca. L'astronomo Giuseppe Piazzi aveva individuato per la prima volta l' asteroide Cerere, ma ne aveva perduto la traiettoria una volta che questa era entrata in congiunzione con il Sole.

Il giovane matematico tedesco si rimboccò le maniche e si mise a calcolare con esattezza la posizione in cui sarebbe riapparso l'asteroide. Dopo 3 mesi di lavoro sui dati di appena l'1% dell'orbita di Cerere, Gauss ottenne delle coordinate precise che furono confermate dagli astronomi. L'impresa lo rese molto famoso in ambito accademico, tanto da garantirgli una cattedra di Astronomia a Gottinga all'età di 30 anni.

Per tutto il resto della vita, Gauss condusse numerosi studi nel campo della matematica ma non fu sempre ben disposto a pubblicare le sue grandi scoperte. Pare che avesse scoperto prima di altri colleghi i fondamenti della geometria non euclidea, ma che si fosse rifiutato di diffonderli per paura di dover affrontare le enormi discussioni che avrebbe sollevato.

Inoltre, non amò mai l'insegnamento e proibì tassativamente ai propri figli di intraprendere gli studi matematici per paura che potessero sminuire il suo nome. La matematica era tutto per lui, tanto da avere la precedenza persino sulla morte. Come racconta Isaac Asimov, un giorno Gauss venne interrotto mentre stava risolvendo un problema numerico. Sua moglie stava morendo. Avrebbe risposto: “Ditele di aspettare finché non ho finito”.

Fonte: wired.it

 

Colpire le cellule tumorali senza danneggiare i tessuti sani che li circondano. È questa una delle strategie più promettenti per combattere il cancro, ma raggiungere i bersagli non sempre risulta facile. Infatti, per fare questo lavoro ci vuole un robot ad altissima precisione, come quello sviluppato dall'equipe di ricercatori del Wyss Institute di Harvard. Ma dentro non ci sono nanochip o sensori, perché è un raffinato origami fatto di dna.

Tutti i particolari sono stati pubblicati in uno studio su Science, dove l'equipe coordinata dal biofisico Shawn Douglas spiega i passaggi necessari a costruire l'origami. Il primo passo consiste nell'elaborazione computerizzata della struttura molecolare. Grazie al software Cadnano, i ricercatori sono in grado di progettare e assemblare filamenti di dna affinché assumano forme e conformazioni ben precise.

Nel caso dell'origami di Douglas, la struttura è stata modellata come una tasca di 35 nanometri (milionesimi di millimetro) al cui interno sono immagazzinati dei farmaci antitumorali. In aggiunta, gli scienziati hanno dotato l'origami di due sensori molecolari capaci di riconoscere le cellule cancerose. Come spiega Scientific American, si tratta di due veri e propri inneschi che rispondono alla presenza di tessuti malati aprendo il serbatoio del nanorobot.

In pratica l'origami è in grado di attaccare solo i bersagli che interagiscono con i sensori, mentre risparmia le cellule sane trattenendo al suo interno i farmaci troppo aggressivi. Finora il nanorobot dell'equipe americana è stato messo alla prova solo in laboratorio: Douglas ha testato i filamenti di dna su vari campioni formati sia da cellule umane sane che di natura tumorale. Ebbene, dopo tre giorni di incubazione, il 50% dei bersagli nocivi era stato distrutto senza ripercussioni per quelli innocui.

Ora all'equipe americana non resta che perfezionare l'origami e testarlo in sistemi più complessi. “ Il prossimo passo consiste nel progettare nanorobot a base di dna capaci di resistere all'interno degli organismi viventi”, sostiene Jørgen Kjems, nanotecnologo della Aarhus University che non ha partecipato all'esperimento. “ Una volta raggiunto questo obiettivo, gli scienziati potranno sviluppare nuove terapie efficaci per animali ed esseri umani”.

Fonte: Wired.it

 

Le chiamano “ Copyright Enforcement Companies” e sono i bounty killer dell’industria del copyright. Sono società private specializzate nella repressione della pirateria informatica. Diffondono file danneggiati o corrotti ( file decoy) e tentano di compromettere i network di condivisione. Setacciano i siti e le reti P2P registrando gli indirizzi Ip degli utenti che condividono materiale protetto da copyright, per poi rivenderli ai propri clienti. Per individuare fisicamente questi utenti però, serve la collaborazione dei provider dello Stato dove risiede il presunto pirata. Le industrie del copyright hanno spesso invocato l’imposizione di un obbligo di collaborazione a carico di questi gestori di rete. Con il nuovo trattato internazionale Acta potrebbero vedere esauriti i loro desideri anche là dove finora sono rimasti delusi.

Fino a oggi, in Italia la giurisprudenza ha dato ragione a provider e utenti. Per esempio nel 2010 la Federazione anti pirateria audiovisiva ( Fapav) aveva chiesto che Telecom si impegnasse a controllare l’attività dei propri clienti e, su richiesta, a dare i nominativi collegati agli Ip individuati a scaricare materiale protetto. I giudici hanno dato ragione a Telecom e alle associazioni di consumatori costituitesi in giudizio. Se la Fapav intende lamentare una violazione del copyright deve fare istanza al tribunale, come tutti, e sarà il giudice eventualmente a richiedere a Telecom i nominativi. Durante il processo erano emerse notizie inquietanti sull’impiego di compagnie di copyright enforcement da parte di Fapav. In particolare la Coo-peer-right Agency era sospettata, oltre di aver violato le norme sulla privacy, di aver usato anche dei malware-spia per conoscere i siti visitati dagli utenti.

Ma in altri Paesi la situazione è più favorevole ai detentori di copyright. In Germania, per esempio, i gestori di servizi passano ogni mese alle industrie dei contenuti dati riguardo a circa 300mila utenti. Le compagnie di copyright enforcement, attivate dai legali delle industrie, individuano chi mette in condivisione determinati file protetti dal diritto d’autore. A questo punto i proprietari dei diritti incrociano le informazioni e chiedono i danni ai singoli utenti. La cifra richiesta per evitare un processo va dai 300 ai 1200 euro di solito, e spesso viene pagata.


Per uniformare le diverse normative e, sospettano alcuni, per imporre una legislazione restrittiva sul copyright in tutti gli Stati, è stato scritto il trattato internazionale Acta. La sua esistenza è stata svelata, prima di qualsiasi dichiarazione ufficiale, dai cablo di Wikileaks nel 2008. L’Unione europea l’ha siglato il 26 gennaio 2012 e da allora sono cominciate imponenti manifestazioni e proteste in tutta Europa. Sul Web i cyberattivisti di Anonymous hanno lanciato la loro campagna contro Acta.

Singoli membri del Parlamento europeo, facendo proprie alcune delle preoccupazioni emerse nelle opinioni pubbliche nazionali, hanno espresso perplessità e critiche. Il relatore parlamentare di Acta, il francese Kader Arif, ha rinunciato al suo incarico per dare un forte segnale di protesta. In ogni caso dal 29 febbraio comincerà l’esame del trattato nelle commissioni competenti e, per tenere alta l’attenzione pubblica sul tema, si continuano a organizzare manifestazioni coordinate in tutto il mondo.

Perché il trattato entri in vigore, è necessario che il Parlamento europeo lo approvi e gli Stati membri lo ratifichino. Dopo le pressioni venute dalle piazza alcuni governi, come quello polacco, hanno messo in discussione la propria firma. E intanto la Commissione ha chiesto alla Corte di giustizia europea un parere sull'accordo. Per salvare il trattato dal rischio di naufragio, la Commissione europea ha diffuso un documento teso a rassicurare i cittadini sul fatto che con Acta non cambierà nulla o quasi nella loro vita quotidiana. Ma la comunità telematica non è convinta. Troppo generiche le promesse della Commissione e il testo del trattato è talmente vago, sottolineano alcuni blogger, da non offrire garanzie sui risultati a cui potrebbe portare.

Il rischio è che presto in tutta Europa, e non solo, si diffondano pratiche repressive scarsamente controllate, spesso intimidatorie e non sempre precise. Può capitare che le compagnie di copyright enforcement sbaglino il loro bersaglio e si creino situazioni paradossali. Questo è il caso, ad esempio, capitato a una signora tedesca raggiunta dall’accusa di aver scaricato illegalmente un film particolarmente violento sugli hooligans. Le hanno chiesto 650 euro per evitare di andare in tribunale. Peccato che, come ha fatto notare il suo avvocato Christian Solmecke, la signora non avesse nemmeno un computer. Per la serie, nessuno è al sicuro.

Autore: Tommaso Canetta - Con la collaborazione di Paolo Nicoli.

Fonte: Wired.it

 

Non sarà imprevedibile come i dinosauri clonati dall'ambra di Jurassic Park, ma di sicuro la pianta vecchia di 32mila anni germogliata nel  Soil Cryology Laboratory di Mosca avrà molto da raccontare agli scienziati. I semi di Silene stenophylla rinvenuti nel sottosuolo della tundra siberiana hanno infatti conservato intatto il dna racchiuso al loro interno: una finestra spalancata sulla storia evolutiva delle specie vegetali. E pensare che il record di antichità era detenuto da una palma di soli duemila anni. Una bella soddisfazione per il gruppo di ricercatori coordinati dal geoecologo David Gilichinsky, che ha pubblicato uno studio sulle pagine di Pnas.

Come racconta il New York Times, è un fatto abbastanza comune che gli scienziati si imbattano in semi antichi e siano presi dal desiderio di farli germinare. La curiosità di vedere come si sviluppa una pianta dal codice genetico vecchio di decine di migliaia di anni trasmette sempre una certa emozione.

È un po' come trovare un vecchio film abbandonato negli scaffali di un archivio e guardarlo per la prima volta dopo tanto tempo. Con l'unica differenza di poter conoscere l'età precisa dei semi attraverso una etichetta particolare, quella fornita dalla datazione con i radioisotopi del carbonio. Sono vecchi di 32mila anni, millennio più, millennio meno. Insomma, coetanei dei mammut e rinoceronti lanosi che popolavano la regione siberiana durante l'ultima glaciazione.

Vista l'età dei semi di Silene, gli scienziati erano abbastanza scettici sul fatto di poterli far germogliare semplicemente piantandoli nel terreno. La lunga permanenza nella tana degli scoiattoli lasciava poche speranze di resuscitare il materiale vegetale. Sebbene fossero stati rinvenuti più di 600mila piccoli frutti, era necessario qualcosa di più del semplice paleo-giardinaggio.

Così, il team di Gilichinsky ha pensato di prendere una scorciatoia e di prelevare alcune cellule contenute nella placenta (un organo del frutto dove sono conservati gli ovuli) e di trapiantarle in una piastra da laboratorio addizionata con ormoni vegetali. Si tratta di una tecnica che viene utilizzata spesso per riprodurre le piante, visto che le loro cellule sono in grado di dare vita a cloni perfetti dell'organismo originale.

Così, grazie al mix di ormoni e sostanze nutritive, l'equipe russa è riuscita a far sviluppare ben 36 piante. A prima vista, i fossili viventi apparivano del tutto simili ai pronipoti di Silene che vivono tutt'oggi in quelle zone, ma al momento della fioritura le cose sono cambiate. Le creature plurimillenarie hanno mostrato qualche differenza nella forma del fiore e, soprattutto, i loro semi germinavano nel 100% dei casi.

Un bel record per un fossile vivente, tanto da spingere gli scienziati a ipotizzare che in certe condizioni le piante dell'era glaciale potrebbero prendere il sopravvento su quelle dell'età moderna. Visto il progressivo assottigliamento dello strato di permafrost, non è affatto improbabile che altri semi fossili possano riattivarsi e invadere nuovamente la Siberia.

Fonte: Wired.it

 

Molfetta, Lago di Vico e Colleferro. Ai siti tristemente noti come bacini di inquinamento derivante da armi chimiche, se ne aggiungono altri, come quello del golfo di Napoli o del mare Adriatico di fronte a Pesaro. A suggerirlo sono i documenti militari consultati dall’associazione ambientalista Legambiente, che domani presenterà in Senato il dossier nazionale Armi chimiche: un’eredità ancora pericolosa. In attesa di conoscere la mappa dettagliata dei siti a rischio, e le tecniche di monitoraggio e di bonifica necessarie a contenere i pericoli, Repubblica svela in esclusiva i luoghi e le storie (militari) portati alla luce dal report di Legambiente.

Si scopre così che a essere a rischio sono soprattutto gli ambienti e le popolazioni dell’ Italia centro meridionale, dove giacciono dalla Seconda guerra mondiale sostanze tossiche, irritanti e cancerogene come l’ iprite, la lewisite, l’ arsenico e il fosgene. Ma se da un lato si conosce, almeno in parte, che faccia abbia il pericolo, dall’altra manca ancora di capire esattamente quanto grande esso sia, vale a dire di conoscere le quantità di armi chimiche abbandonate sul suolo o seppellite sotto terra o in fondo al mare. L’unico modo per provare a capire l’entità del fenomeno è consultare i documenti militari. Esattamente quello che ha fatto Legambiente.

Si scopre così che i tedeschi, in ritirata incalzati dall’avanzata anglo-americana, scaricarono nel mare di fronte a Pesaro circa 4.300 bombe chimiche contenenti 1.316 tonnellate di iprite, cui si aggiungono 84 tonnellate di testate all’arsenico. Mentre subito dopo la fine del conflitto mondiale, sarebbero stati gli americani a utilizzare il Golfo di Napoli come sito per discarica, gettandovi bombe al fosgene, alla lewisite, proiettili (13mila) e barili all’iprite (438). Come spiegano Repubblica e Veleni di Stato, i dati arrivano dai cosiddetti rapporti Brankowitz, documenti militari resi pubblici e poi secretati di nuovo (durante l’amministrazione Clinton e poi quella di Bush, rispettivamente). 

Ma oltre al Golfo di Napoli e al mare Adriatico di fronte a Pesaro, il dossier di Legambiente mette in luce altri particolari di siti a rischio chimico più noti, già presi in considerazione da studi di monitoraggio e bonifica. È il caso del basso Adriatico, che oltre alle bombe chimiche disperse in mare durante il secondo conflitto mondiale, nel 1999 è diventato anche il bacino di quelle sganciate dalla Nato durante la guerra in Kosovo. Per questa zona inoltre è stato già possibile stimare in parte il danno causato dall’inquinamento chimico (da iprite e arsenico) sui pesci, cui ora la regione Puglia cerca di rimediare con fondi destinati al ripopolamento.

Infine la mappa del rischio colpisce anche zone in passato dichiarate bonificate, in cui più recentemente è stata rivelata la presenza di inquinanti. È il caso di Ronciglione, cittadina del viterbese sul lago di Vico, che in passato, durante il fascismo, ospitò fabbriche per la produzione di armi chimiche. E sempre legato all’industria è il caso di Colleferro, in provincia di Frosinone, dove però, a differenza di Ronciglione, la produzione di armi chimiche non sarebbe così lontana nel tempo (con  rifornimenti diretti in tempi recenti verso l’Iraq e la Libia, come riportano Repubblica e Veleni di Stato).  

Fonte: Wired.it

 

Ma Mountain View risponde: "Un errore, abbiamo risolto il problema".

Google e gli sviluppatori di app per Facebook, oltre ad almeno tre agenzie di pubblicità online, hanno l’abitudine di violare le impostazioni di sicurezza e privacy di Safari per installare file di testo con informazioni sulla navigazione (cookies) su Mac e iPhone. O almeno avevano: la notizia è stata divulgata dal Wall Street Journal, secondo cui Google, che per altro è parte del progetto sulla Tracking Protection del W3C, avrebbe interrotto la procedura dopo essere stata contattata dal giornale. Un consulente tecnico del Wsj ha verificato che la protezione di Safari viene bypassata in oltre venti dei cento principali siti.

Cupertino ha progettato Safari, oggi il più diffuso browser mobile, in modo tale che accetti di default solo cookies dai siti direttamente visitati dall’utente, mentre Google si è trovata ad aver bisogno di bypassare questo schema quando ha introdotto il +1 sugli ad, per mostrare ai propri utenti il messaggio “ il tuo amico John ha fatto +1 su questo”. Facebook invece suggerisce l’ exploit come best practice ai propri sviluppatori di app, ha rilevato il Wsj, per salvare informazioni come i punteggi nei giochi o le credenziali di login.

Il workaround era già stato trovato nel 2010 dallo sviluppatore Anan Grant, anche se è stato  Jonathan Mayer dell’università di Stanford a scoprire che Google lo usava. Il problema non è solo di Safari: affliggeva anche Internet Explorer 6 e 7. In pratica, Safari di default impedisce a siti terzi rispetto a quello che stiamo visitando di salvare cookies su computer o iPhone, a meno che non ci sia dell’interazione fra l’utente e il sito, per esempio attraverso la compilazione di un modulo. Per simulare questo comportamento, Google inseriva nel codice utilizzato per parlare con Safari un modulo compilato in bianco. I cookie così creati si autodistruggono in 12-24 ore, ma potrebbero essere sfruttati per un intensivo tracciamento degli utenti di Safari. Il browser infatti consente facilmente a un’azienda che ha già installato un cookie di aggiungerne altri, sottolinea il Wsj, a cui Apple ha spiegato che sta già cercando una soluzione. Il meccanismo del workaround è spiegato nei dettagli da un’ infografica del quotidiano americano, in cui è riportato un esempio del codice che compie questo lavoro.

L’ Electronic Frontier Foundation ha sottolineato come Google fosse pienamente cosciente della presenza di questi blocchi su Safari, al punto da avvertire gli utenti che, pur non avendo ancora Google un plugin per l’opt out nei confronti dei cookies pubblicitari, in Safari è presente un’opzione che ha lo stesso effetto. Affermazione ora rimossa.

Mountain View si è affrettata a spiegare che “ non vengono registrati dati personali”. Secondo l’accordo recentemente siglato con la Federal Trade Commission, con il quale aveva promesso di non  ingannare i propri utenti circa la privacy, ogni violazione equivale a una multa di 16 mila dollari per utente per giorno.

Google era già stata accusata dall’Electronic Privacy Information Center (Epic) di aver violato questo accordo con l’introduzione delle ricerche social.
 
In un comunicato ufficiale, Rachel Whetstone, Senior Vice President Communications e Public Policy di Google, ha dichiarato: “ Il Wall Street Journal ha mal descritto quanto è successo e il perché. Abbiamo utilizzato una funzionalità conosciuta di Safari per offrire agli utenti di Google loggati nel loro account funzioni da loro stessi abilitate. [...] Abbiamo creato un link temporaneo tra Safari e i server di Google, per verificare se un utente di Safari era anche loggato e aveva optato per un determinato tipo di personalizzazione. Il tutto in modo anonimo, creando una barriera effettiva tra le loro informazioni personali e il contenuto su cui stavano navigando. Tuttavia, il browser Safari conteneva altre funzionalità che hanno fatto sì che altri cookies pubblicitari di Google fossero installati nel browser. Non avevamo previsto che potesse succedere e ora abbiamo cominciato a rimuovere questi cookies pubblicitari dai browser Safari”.

Fonte: Wired.it

 

Anche le app trafugano i nostri dati. Ecco quali sono!

Google spiava gli utenti Apple. È la pesante denuncia del quotidiano Wall Street Journal. Ma in che senso? Secondo il Wsj, l'attività di chiunque navigasse in Rete con un browser Safari (disponibile di default su Mac, iPhone e iPad) era tracciata dal motore di ricerca di Mountain View.

Queste informazioni erano contenute nei cookies, brevi file testuali memorizzati nei dispositivi degli utenti, ma senza il loro consenso. La pratica dei cookies, infatti, è usata comunemente nel Web, ma Safari di default la aggira, non permettendo il tracciamento del proprio girovagare online e garantendo maggiore privacy. Google, con poche righe di codice e qualche escamotage, sarebbe riuscito invece a ingannare il browser e a conoscere le abitudini degli utenti Apple (come già succede con altri browser).

A cosa servono queste informazioni? In sostanza, sono fondamentali per il marketing: in loro assenza, BigG non riuscirebbe a proporre pubblciità mirata. Contattati dal quotidiano Usa, a Mountain View hanno risposto che nei cookies non era conservata alcuna informazione personale, ma si sono premurati di bloccare subito questa procedura.

Fonte: Wired.it

 
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By Anonimo
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21/11/2016 @ 09:40:41
By Anonimo


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