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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 

Un gruppo di scalatori sul Caminito del Rey, un antico sentiero sulla gola di El Chorro, Andalusia.

Passo dopo passo, in fila indiana. Di più non consente questo sentiero sgangherato che si affaccia sulla gola di El Chorro, in Andalusia (Spagna meridionale). Il Caminito del Rey (il "cammino del re", in onore del sovrano Alfonso XIII che vi camminò nel 1921), è un antico passaggio ricavato nei primi anni del '900 sulle ripide pareti di arenaria, a oltre 100 metri dal fiume sottostante. Originariamente costruito per collegare due impianti idroelettrici limitrofi e consentire ai lavoratori di trasportare materiale tra uno e l'altro, è ora pericolante in molte sue parti e interrotto in alcuni punti. Sgangherato e pericoloso è ora chiuso al pubblico. Ma questi scalatori, debitamente attrezzati e messi in sicurezza, hanno voluto percorrerlo prima che inizino i grandi lavori di ristrutturazione per sistemarlo.

Un momento di sosta durante un'arrampicata sul Great Sail Peak (Isola di Baffin, Canada).

Anche i sostenitori delle vacanze avventurose potrebbero vacillare di fronte all'insolita "piazzola" scelta per queste tende. Per i campeggiatori che vi alloggiano, invece, si tratta di ordinaria amministrazione: quello che vedete, infatti, è il bivacco di una cordata di scalatori esperti - e un po' spericolati - immortalati dal fotografo del National Geographic Gordon Wiltsie sulle pareti del Great Sail Peak, un muro di granito che svetta sull'isola di Baffin, in Canada. Queste arrampicate, ha spiegato Wiltsie, possono durare anche alcuni giorni ed è necessario organizzare alcuni momenti di riposo, anche se a 1200 metri, come in questo caso. E i rischi sono sempre dietro l'angolo. Durante la primavera artica, per esempio, lo scioglimento della neve può provocare il distacco di massi che rotolano pericolosamente a pochi centimetri dagli scalatori.

Fonte: focus.it

 

Una donna Tuareg durante la Cure Salee a Ingall, Niger.

Il volto dipinto di questa donna Tuareg non sarà certo passato inosservato durante l'ultima Cure Salee, la "cura del sale" o Festival dei Nomadi che si tiene ogni settembre nelle piscine saline nei pressi di Ingall, Niger settentrionale. Tuareg, Peul e Wodaabe, le popolazioni nomadi della regione, accorrono in questa zona per far rinfrescare il bestiame e festeggiare la fine della stagione delle piogge. Si pensa che il sale abbia effetti benefici sulla salute degli animali e dei pastori. Ma probabilmente a far bene all'umore sono i rapporti umani che dopo mesi di lavoro e solitudine, si riallacciano. Č questa l'occasione per cercare marito, ballare, cantare e raccontare le ultime novità agli amici ritrovati. Per attirare l'attenzione, gli uomini si esibiscono in prove di forza e parate, e ciascuno sfoggia il tradizionale make-up.

Una delle zucche scolpite dell'artista americano Ray Villafane.

Tagliare e sbucciare una zucca è già di per sé un'operazione tutt'altro che semplice. Immaginatevi quanta abilità servirebbe per ricavarne un faccione pensieroso come questo. Lo zuccone è opera di Ray Villafane, 42enne americano specializzato nella scultura del vegetale arancione. Altro che la classica zucca con ghigno malefico, in occasione di Halloween - che si festeggia proprio oggi - l'artista si è sbizzarrito con cucchiai e scalpelli dando vita a "volti" bitorzoluti ed espressioni da gargoil. Il trucco, ha spiegato Villafane, che è un ex insegnante di arte, è considerare la zucca alla stregua di un pezzo di argilla. Sceglierne una soda e ricca di polpa, meglio se un po' deforme: darà l'ispirazione per qualche buffa variazione sul tema.

Fonte: focus.it

 

Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Questo proverbio ben si adatta alla schiera di ottimisti che, infischiandosene di tutto ciò che di negativo accade loro intorno, continua a vedere il bicchiere mezzo pieno.

Detail-optimism

Come ci riescono? Secondo uno studio pubblicato su Nature Neuroscience, il cervello delle persone ottimiste ignora sistematicamente le brutte notizie, mentre è bravissimo a recepire, processare e tenere a mente quelle le informazioni positive. Semplicemente, si tappa i neuroni quando viene messo di fronte a situazioni che non gli piacciono, e compila la sua lista personale di bei ricordi, costruendosi un’immagine rosea (ma falsata) della realtà che lo circonda. Beati gli ottimisti, quindi, che vivono più felici? Mica tanto: se da una parte l’ottimismo fa bene alla salute, perché aiuta a tenere a bada i livelli di stress, quando diventa patologico può nuocere, impedendo alle persone di prendere le necessarie precauzioni contro qualsiasi rischio.

L’idea che un cervello ottimista si rifiuti di processare le cattive notizie è di un gruppo di ricerca coordinato da Tali Sharot dello University College London, in Gran Bretagna. Nel loro studio, i ricercatori hanno per prima cosa valutato l’indole di 19 volontari, dividendoli nei due gruppi di ottimisti e pessimisti. Successivamente, mentre il loro cervello veniva monitorato con risonanza magnetica funzionale, i volontari sono stati messi di fronte a un’ottantina di scenari ipotetici e poco piacevoli, se non tragici: dalla possibilità di perdere il lavoro a quella di ammalarsi di cancro. Per ogni situazione, i partecipanti dovevano azzardare una percentuale: la possibilità che la disgrazia potesse accadere a loro.

A questo punto, i ricercatori hanno rivelato le reali possibilità (stimate secondo statistiche) che un evento come il licenziamento o la malattia potesse colpirli da un giorno all’altro. Dopo averli messi di fronte alla realtà, hanno quindi chiesto ai volontari di esprimersi nuovamente sulle probabilità di ciascuno scenario. Č uscito fuori che i più ottimisti tendevano a modificare le loro percentuali solo verso valori più alti, e cioè se quelle date dai ricercatori erano migliori di quanto aspettato. In caso contrario, non prendevano minimamente in considerazione i valori reali. Un esempio? Se la possibilità di ammalarsi di tumore fosse stata intorno al 30%, chi avevano detto in prima battuta 40% scendeva poi al 31%, mentre chi aveva azzardato un 10% aumenta solo lievemente il rischio. In altre parole, ignorava la realtà.

Grazie alla risonanza magnetica, i ricercatori sono stati in grado di risalire alla fonte (neurale) di questo comportamento. In tutti i partecipanti, ottimisti e pessimisti, quando la realtà era più rosea dell’immaginazione aumentava l’attività nei lobi frontali, l’area cerebrale deputata al processamento degli errori.

Al contrario, se le notizie erano peggiori di quanto aspettato, si registrava un’intensa attività solo nei lobi temporali delle persone più negative, mentre negli ottimisti, i segnali emessi da quest’area diventavano molto più deboli. Come si legge nello studio, è come se il cervello delle persone positive non riuscisse ad aggiornare le proprie valutazione della realtà, e premesse il bottone refresh solo quando la realtà supera le aspettative.

“ Questo lavoro mette in luce qualcosa che è sempre più evidente nelle neuroscienze, ossia che il compito di gran parte delle aree cerebrali coinvolte in processi decisionali è di testare le predizioni contro la realtà - ha commentato sulla Bbc Chris Chambers, neuroscienziato della Cardiff University, in Gran Bretagna, che non ha partecipato allo studio.

Ma gli autori mettono in guardia sul risvolto della medaglia: essere ostinatamente positivi non aiuta a prendersi le proprie responsabilità. Per esempio non porta le persone ad allacciare la cintura in automobile o a smettere di fumare, visto che, nelle loro menti, un incidente o una malattia sono sempre poco probabili.

Via: Wired.it

 
By Admin (from 04/01/2012 @ 14:06:29, in it - Osservatorio Globale, read 2175 times)

Il Premio Nobel per la fisica 2011 è stato assegnato appena a chi ha dato il suo contributo per scoprire quale sia il futuro dell'Universo (leggi Galileo “Un Nobel per la fisica che apre le porte all'energia oscura”). Ma oggi, grazie a una simulazione eseguita con un supercomputer, conosciamo meglio anche il suo passato e il suo presente: si chiama Bolshoi Simulation e rappresenta il più grande e dettagliato modello cosmologico dell'evoluzione dell’Universo mai realizzato.

Questo strumento, descritto in uno studio in via di pubblicazione sulla rivista Astrophysical Journal (e già reperibile online su arXiv), potrà essere utile per la comprensione di “misteri” come la formazione di galassie o la genesi di materia ed energia oscure. Gli autori dello studio sono ricercatori dell'Università della California di Santa Cruz e della Nasa, che hanno anche pubblicato un esempio di simulazione in un video su Vimeo (in particolare relativa alla materia oscura presente al centro di un grande ammasso di galassie) e numerose immagini ricavate attraverso di essa.

Il Bolshoi si basa su dati raccolti negli scorsi anni da osservazioni condotte sia da terra sia dalla missione Wilkinson Microwave Anisotropy Probe (Wmap) della Nasa; quest’ultima ha fornito una mappa precisa delle leggere variazioni che si rilevano nella misura della radiazione cosmica di fondo, ovvero la radiazione termica primordiale che è considerata essere l'ultima eco del Big Bang.

Precedentemente erano già state effettuate ricostruzioni della struttura e dell'evoluzione dell'Universo con l'uso di supercomputer: l'ultima, la Millennium Run, è stata la base di circa 400 diversi articoli dal 2005 ad oggi. Ma la Bolshoi Simulation la supera sia in risoluzione che in accuratezza: da quando la simulazione precedente è stata sviluppata ci sono stati avanzamenti significativi nella velocità dei supercomputer, ma soprattutto è migliorata la misurazione dei parametri cosmologici che sono alla base dell'elaborazione. I dati su cui questa si basava erano, infatti, i primi rilasciati dalla missione Wmap, che sono stati superati da quelli ottenuti nel 2008 (Wmap5, ovvero i risultati di cinque anni di osservazioni) e nel 2010 (Wmap7, a sette anni dall'entrata in funzione del satellite Nasa).

La nuova simulazione è invece basata proprio sui parametri Wmap5 (che sono comunque in linea con gli ultimi rilasciati dalla Nasa) e, secondo i ricercatori che hanno lavorato al modello, diventerà il punto di riferimento per tutti gli studiosi di cosmologia che vorranno testare le loro previsioni teoriche. “Oggi sappiamo che i dati ricavati da Wmap1 sono inesatti - ha spiegato Joel Primack, tra i realizzatori del Bolshoi - e mi aspetto che lo strumento abbia un forte impatto nel campo dell'astrofisica”.

Così, come si analizza una popolazione intera studiandone un campione rappresentativo, il Bolshoi ha nello specifico ricostruito l'evoluzione solo di un volume dello Spazio: un cubo di un miliardo di anni luce di lato, porzione ridotta dell'Universo visibile (che ha la forma di una sfera con un raggio pari a 46 miliardi di anni luce). Attraverso di esso, la simulazione non mostra solo in che modo sia cambiato ciò che riusciamo a vedere, ma anche quello che ci è invisibile: ecco perché, secondo gli astronomi, lo strumento potrà predire l'evoluzione degli aloni di materia oscura, per poi facilitarne la ricerca nel Cosmo.

“In un certo senso si può quasi pensare che i primi risultati siano piuttosto noiosi, perché mostrano solo che il nostro modello cosmologico standard funziona - ha aggiunto Primack -  ma veramente eccitante è che ora possediamo una simulazione talmente accurata che può essere la base di innumerevoli nuovi studi”.

Riferimento: Bolshoi Simulation

 

Calendario 2012: ecco i giorni festivi in cui non si lavora.

Fa eccezione il primo dell’anno, che è capitato di domenica. Si inizia con la Befana, l’Epifania: venerdì 6 gennaio. Poi niente feste fino a Pasqua e Pasquetta: 8 e 9 aprile. Il 25 aprile, la festa della Liberazione, quest’anno è di mercoledì. Il primo maggio è di martedì. La festa della Repubblica del 2 giugno è di sabato: salta il “ponte”. Ferragosto, il 15 agosto, cade di mercoledì. Il 1 novembre, giorno di Ognissanti o Tutti i Santi, è di giovedì. L’Immacolata, l’8 dicembre, è di sabato. Natale e Santo Stefano, 25 e 26 dicembre, cadono di martedì e mercoledì. Il primo dell’anno del 2013 sarà di martedì.

L’ora legale entrerà in vigore nella notte fra sabato 24 e domenica 25 marzo. L’ora solare nella notte fra sabato 27 e domenica 28 ottobre.

Fra le ricorrenze che non si traducono in ferie, San Valentino, il 14 febbraio, è un martedì. Due giorni dopo, il 16 febbraio, è giovedì grasso. Domenica 19 febbraio è Carnevale, il 21 febbraio è martedì grasso. La festa di San Giuseppe, o “del papà”, è lunedì 19 marzo. Occhio agli scherzi durante la domenica delle Palme: è il 1° aprile. La festa della mamma è domenica 13 maggio. La Pentecoste domenica 27 maggio. Il 2 novembre, giorno dei Morti, è un venerdì. San Silvestro, il 31 dicembre, un lunedì.

Feste patronali: per i romani, SS. Pietro e Paolo sarà venerdì 29 giugno. I milanesi festeggeranno Sant’Ambrogio venerdì 7 dicembre. Bologna: San Petronio è giovedì 4 ottobre. Torino e Genova: San Giovanni Battista è domenica 24 giugno. Napoli: San Gennaro è mercoledì 19 settembre. Palermo: Santa Rosalia cade di domenica, 15 luglio.

Ecco uno schema riassuntivo dei giorni festivi e delle ricorrenze del 2012, preso dal sito Calendario-365.it.

Fonte: www.blitzquotidiano.it

 

Unicredit, l’aumento di capitale ed i relativi diritti. Lo sconto? Una fregatura!

Che strano mondo quello della finanza, sembra proprio di vivere in un’altra dimensione, dove anche le parole assumono un significato diverso.
 
Un esempio emblematico è quello del termine “sconto”, proprio oggi, giorno di inizio dei “saldi”, troviamo questa parola scritta su tutte le vetrine dei negozi, e ci evoca una condizione “di favore”, pagheremo di meno un bene che, fino a ieri, costava di più.
 
Quando ci viene praticato uno sconto siamo felici, abbiamo risparmiato, quindi, in un certo senso siamo diventati più ricchi, poiché possiamo permetterci qualcosa in più.

 
Certo anche quando compriamo qualcosa nei negozi, a volte, dietro ad uno sconto, si nasconde una fregatura, ma … a volte, in finanza invece possiamo esserne sicuri, se viene usata la parola “sconto” noi dobbiamo leggerla come “fregatura” e più lo sconto è alto, più grande sarà la fregatura.
 
La dimostrazione più lampante l’abbiamo nelle operazioni di aumento di capitale, che avvengono, tipicamente, offrendo ai vecchi azionisti, la possibilità (il diritto) di acquistare nuove azioni “a sconto”, cioè ad un prezzo inferiore rispetto a quello di mercato.
 
Peccato, però, che questo “sconto” non venga praticato per agevolare il vecchio azionista, bensì per imbrigliarlo in una trappola per topi senza via d’uscita. Più lo “sconto” è elevato, infatti, e più egli sarà costretto ad aderire all’operazione perché l’eventuale “mancata adesione” gli procurerà un’ingente perdita (di solito proprio pari allo “sconto” praticato).
 
C’è inoltre una cosa che aggrava ulteriormente la situazione, ovvero che l’adesione all’operazione di adc  non è gratuita, quindi se il vecchio azionista in quel momento non ha i soldi per aderire? Peggio per lui, scatterà inesorabile la trappola per topi, dopotutto se è un pezzente perché ha comprato azioni? Andando avanti di questo passo sarà sempre più arduo trovare investitori in Borsa.
 
Allora scendiamo dal teorico al pratico e, naturalmente, rifacciamoci all’operazione di aumento di capitale le cui condizioni sono state rese note ieri dal Consiglio di Amministrazione della Banca più importante d’Italia, Unicredit.
 
Allora ogni vecchio azionista avrà la facoltà di sottoscrivere due azioni di nuova emissione per ogni azione ordinaria e/o di risparmio posseduta, al prezzo prefissato di 1,943 euro ciascuna. Il comunicato della Banca specifica che “il prezzo di sottoscrizione delle nuove azioni incorpora uno sconto del 43% circa rispetto al prezzo teorico ex diritto (TERP) delle azioni ordinarie Unicredit sulla base del prezzo ufficiale di borsa del 3 gennaio 2012”.
 
Allora usciamo dal burocratese per cercare di rendere chiaro a tutti ciò che significa questa frase, innanzitutto va stabilito cosa si intende per TERP, lo faccio molto volentieri in quanto puntualmente, ad ogni operazione di aumento di capitale, trovo nella mia casella di posta alcune mail di lettori che mi chiedono di specificare il calcolo di questo prezzo teorico.

 
Allora TERP sta per Theoretical Ex Right Price, cioè Prezzo Teorico dopo l’attribuzione del diritto d’opzione, ed ovviamente va calcolato rispetto ad una valore di chiusura del titolo azionario in questione.
 
Al solito risulterà più semplice da comprendere un caso pratico che non il concetto teorico, e prendiamo proprio, come esempio,  l’operazione Unicredit. Una sola precisazione prima dei numeri, tutti noi siamo abituati a prendere come valore di chiusura di un’azione il suo prezzo di riferimento, il calcolo del TERP, invece, prevede l’utilizzo del  Prezzo Ufficiale, che normalmente differisce, anche se non di molto, dal prezzo di riferimento.
 
Allora il Prezzo Ufficiale di una azione Unicredit alla chiusura del 3 gennaio era risultato 6,40 euro (lasciamo perdere i millesimi ed i decimillesimi che creano solo confusione).
 
Qual è il TERP calcolato su questo valore di chiusura?
 
Semplice equivale a calcolare il valore teorico dell’azione dopo la conversione dei diritti associati alla stessa.
 
In questo caso, dato che i diritti permettono l’acquisto di 2 azioni al prezzo di 1,943 euro cadauna,
 
1,943*2 = 3,886 euro che è il valore delle azioni di nuova emissione per ogni “vecchia” azione posseduta, a questo importo dobbiamo sommare 6,40 euro, ossia il prezzo ufficiale della “vecchia” azione, per un totale, quindi di
 
3,886 + 6,40 = 10,286 euro, ma ora quante azioni ci ritroviamo?
 
Naturalmente 3 (una “vecchia” + le 2 di nuova emissione) per cui quanto vale (teoricamente) ogni azione?
 
10,286:3=3,4287 euro (3,4286 periodico per i pignoli).
 
Questo è il TERP calcolato sulla chiusura del 3 gennaio, quindi 3,4287 euro.
 
Applicando uno sconto del 43,33% (per la precisione) al TERP (3,4287-43,33%*3,4287)  troviamo questo, ormai celebre prezzo di 1,943 per ogni nuova azione, comunicato ieri dal Consiglio di Amministrazione di Unicredit.
 
Ieri il titolo Unicredit ha perso in Borsa il 14,45% crollando a 5,415 euro, come mai? E’ uno di quei casi in cui la risposta degli analisti è unanime, proprio perché “lo sconto” è stato ritenuto troppo elevato, come volevasi dimostrare: più forte lo sconto, maggiore la fregatura.
 
Ed il mercato, sotto questo punto di vista, è impietoso.
 
Se infatti a questo aggiungiamo che il fondo di investimento americano Blackrock è passato nei giorni scorsi dal 4,2% del capitale all’1,71% e che le Fondazioni, grandi azioniste della Banca di Piazza Cordusio, con l’eccezione di quella di Verona, parteciperanno solo parzialmente all’operazione di aumento (e la Fondazioni Banco di Sicilia e Cassamarca hanno annunciato che non sborseranno un solo euro), il quadro è completo.
 
C’è qualcuno entusiasta dell’operazione che ha annunciato di aderire in toto all’operazione di aumento mantenendo inalterata la propria quota del 4,98%? Sì proprio il maggior azionista di Unicredit: La Banca Centrale Libica, ma non è che la notizia debba far felici gli italiani.
 
dott. Giancarlo Marcotti per www.FinanzaInChiaro.it

 

Immaginate Google come uno Stato. Un accogliente, servito e funzionante Stato in cui i cittadini non pagano le tasse. Immaginate, come è ovvio che sia, che negli anni sempre più persone decidano di trasferirsi in quest'area e che Google, altro passo ovvio, decida a un certo punto di investire direttamente sul territorio di sua proprietà aprendo negozi, ristoranti e banche che vadano a concorrere direttamente con quelle già presenti e di diversa paternità. Č a questo punto che Google viene chiamato da un'autorità sovrastatale a spiegare, o meglio a rassicurare in merito, in che modo gestisce la concorrenza commerciale a Googlelandia: spinge i cittadini verso i suoi esercizi commerciali? In che modo permette o meno a strutture di altri di avere successo? Si comporta correttamente? E, in definitiva, se invece di uno Stato fosse il mondo intero, è giusto che sia Google a decidere cosa funziona o cosa no?

L'ex amministratore delegato e presidente di Google Eric Schmidt è stato chiamato al cospetto della commissione Giustizia del Senato statunitense a a fornire lumi sull'equivalente situazione che si è generata online. Sul banco degli accusatori Yelp, Expedia e Nextag, portali che accusano Mountain View di fare il bello e il cattivo tempo con le gerarchie del suo motore di ricerca, e ad ascoltare e punzecchiare Schmidt alcuni dei senatori americani (Mike Lee, Al Franken e Richard Bklumenthal), scettici sulla buona fede dell'attività del colosso californiano. La Federal Trade Commission sta portando avanti delle indagini per verificare la correttezza del comportamento di Google e l' Unione europea si sta interrogando sulla questione da tempo.

Forte dei suoi dieci anni di esperienza alla guida della società, il timone a gennaio è tornato nelle mani del fondatore Larry Page, Schmidt ha respinto le accuse in quello che si può definire senza mezzi termini il solito modo: è apparso tranquillo, non è entrato nel dettaglio del funzionamento tecnico del motore di ricerca e si è trincerato dietro al principio secondo il quale è prima di tutto nell'interesse di Google, che " vive nel costante terrore di una migrazione verso un prodotto concorrente", fornire risultati utili e non alterati. " Non sono a conoscenza di manipolazioni dei risultati per dare rilevanza ai nostri", "per motivare la presenza dei servizi di Google al terzo posto dei risultati di ogni ricerca dovrei avere in mano dettagli tecnici", "diamo rilevanza a ciò che è più completo per l'utente", "non siamo perfetti, ma aggiorniamo le pagine ogni 12 ore", sono alcune delle risposte date alla commissione a stelle e strisce.

Nella parte finale quello che di primo acchito potrebbe sembrare uno scivolone, ma in realtà è solo l'ennesima dichiarazione in linea con la tradizionale difesa di BigG: " Diamo la preferenza ai nostri risultati di ricerca quando riteniamo che i nostri siti offrano le migliori risposte agli utenti".

Inoltre, ha fatto notare Schmidt in vari passaggi, gli equilibri in Rete stanno cambiando e gran parte delle informazioni passa ormai dai social network. Una risposta, questa, che potenzialmente potrebbe aprire un nuovo vaso di Pandora. Stando alle accuse mosse ieri, a puntare il dito contro Schmidt e compagnia potrebbe esserci stato benissimo Mark Zuckerberg per l'attività di auto-comunicazione che Google ha organizzato per il debutto e la promozione di Google+. La freccia rossa comparsa sulla hompage del motore di ricerca ieri, quando il social network di Mountain View ha aperto le porte a tutti, invitava gli utenti a utilizzare il servizio era pubblicità scorretta comparendo su una piazza in cui il confine fra pubblico e privato è sempre più labile? Far comparire i profili di Plus in testa alle ricerche mette in difficoltà gli altri social network già attivi e inibisce l'entrata nel settore a nuovi attori? Ancora: il +1 di Plus in che modo modifica le ricerche? E quello dei nuovi attori è un tasto toccato in modo particolare da chi accusa e assicura che oggi non sarebbe in grado di iniziare il suo business a causa del comportamento di Google. Ieri si è parlato anche di Android e Schmidt ha replicato che chi usa uno smartphone dotato del sistema operativo del gigante sotto accusa non deve per forza affidarsi al suo motore di ricerca. Suzanne Michel, dipendente Google ed ex Federal Trade Commission, aveva inoltre dichiarato che i due terzi delle ricerche mobili di Google arrivano da dispositivi Apple, per precisa scelta di adozione del servizio da parte di Cupertino.

Si potrebbe andare avanti all'infinito prendendo tutti i concorrenti di Google Places, Google Shopping, YouTube, Google Books, Google Flight eccetera eccetera e interrogarsi, anche con prove pratiche, sulla visibilità che hanno su Google Search. La risposta sarà sempre la stessa: agiamo in buona fede e nell'interesse dell'utente, che fra l'altro può tranquillamente approdare altrove. Ed è questo, per ora, l'ago della bilancia. Lo strapotere di Google è sotto gli occhi di tutti nei dati degli istituti di ricerca, 65% del mercato Usa in agosto, ma a differenza di quanto accaduto offline a Microsoft non è stato ancora dimostrato che all'internauta viene imposto qualcosa. Che si tratti dell'utilizzo del motore di ricerca stesso o dei risultati che genera. Il monopolio è di fatto e nasce da precise scelte quotidiane, le alternative ci sono e sono a portata di click. Google fa un sacco di soldi con la pubblicità e questo continuerà inevitabilmente a esporla a rivendicazioni di questo tipo o a accuse come quelle mosse a Street View, mancato rispetto della privacy, o a Google News, sfruttamento dell'attività giornalistica, e starebbe facendo intensa attività di lobbing per evitare di finire nell'occhio del ciclone come Bill Gates anni fa. Per ora le risposte di Schmidt e colleghi, per quanto vaghe e basate quasi esclusivamente su non facciamo niente di male, - il celebre motto di BigG è " don't be evil" -  sono state sufficienti. La palla alla prossima indagine.

Fonte: daily.wired.it - Credits per la foto: Ap La presse

 

Cosa c’entrano i satelliti militari con gli scienziati che studiano il riscaldamento globale? E perché l’ esercito incoraggia i progressi in campo medico, per esempio aiutando i ricercatori a sviluppare vaccini contro l’ Aids? Sono alcune delle domande su cui si sofferma Nature, che dedica al tema la copertina e uno speciale dal titolo “ Oltre la bomba”. Nell’editoriale della rivista inglese, si parla dei complessi rapporti tra scienza e mondo militare, una tradizione che è già passata per la bomba atomica e la Guerra Fredda. Resta un'impressione di fondo: la ricerca militare è inevitabile e la scienza non può ignorarlo. Deve farci i conti. E, secondo Nature, la soluzione sarebbe minimizzare i danni e trarne il maggior beneficio possibile per la società intera. Un'idea pragmatica, che bandisce ogni ingenuità, ma che può anche sollevare aspre polemiche.

L’editoriale parte da un dato: il Pentagono dispone di un budget di quasi 9 miliardi di euro da investire nella ricerca militare. Se è vero che parte di queste risorse serve allo scopo di mettere a punto armi di distruzione, è altrettanto vero che alcuni progressi in campo militare hanno storicamente avuto ricadute importanti per la società civile, basti pensare allo sviluppo di Internet o del Sistema di posizionamento globale (Gps). Nature mette anche in luce un’altra caratteristica della scienza militare: da una parte distrugge e dall’altra cura. Lo studio dei traumi cerebrali riportati dai soldati in seguito all’esplosione di una bomba, per esempio, è oggi utile alla diagnosi e alla cura di malattie che colpiscono il cervello. Ancora, la necessità di avere soldati in buona salute ha promosso i progressi nella messa a punto di vaccini.

Confidando nei risvolti positivi della scienza militare, Nature incoraggia il Pentagono a fare di più per promuoverla. Ma a delle condizioni: rendere pubblici i dati quando siano utili alla società civile, garantire la trasparenza negli studi in campo medico, organizzare incontri per discutere dei risvolti etici, legali e sociali della ricerca militare. A fare da cappello a queste raccomandazioni arriva un’altra considerazione. Con le guerre sempre più frequenti e i budget sempre più limitati, c’è il pericolo che il Pentagono scelga di investire in una ricerca militare a breve termine, che abbia come massimi obiettivi quelli di disattivare esplosivi o addestrare i soldati con videogiochi 3D. Un errore, in un momento in cui la sicurezza nazionale non è più solo una questione di potenza militare, ma di salute pubblica, di forza economica, di cambiamenti climatici, insomma, di tutto ciò che rende forte una società. E qui torniamo al punto di partenza: bisogna incoraggiare - si legge - quella vocazione della scienza militare capace di aiutare la società a crescere.

In tutto questo c’è ovviamente un risvolto della medaglia: la società potrebbe non essere sempre in grado di stare dietro a queste spinte.

Almeno dal punto di vista etico e legale. Lo sostiene P. W. Singer, direttore del 21st Century Defense Initiative at the Brookings Institution, in un commento allo speciale di Nature. Secondo Singer, la velocità dei progressi nel campo della tecnologia militare è superiore alla velocità con cui la società civile è in grado di metabolizzarli. A supporto della sua tesi, Singer fa riferimento a un fenomeno esploso negli ultimi dieci anni: l’uso di robot nelle operazioni militari. Attualmente, gli Stati Uniti possiedono un esercito di 7mila velivoli robotici e 12mila sistemi terrestri che non necessitano di conduzione umana, tanto che ormai la Us Air Force passa più tempo ad addestrare i suoi soldati-robot che non quelli in carne e ossa. L’uso massiccio di robot in guerra, d’altra parte, solleva problemi politici, se pensiamo che Obama ha recentemente affermato di non avere bisogno dell’approvazione del Congresso per attaccare la Libia. Il motivo? Perché le operazioni militari erano condotte da sistemi robotici, e quindi non avrebbero comportato sacrifici umani.    

E cosa dire del diritto, da parte di un veivolo senza pilota, di difendersi se attaccato? Non è una trovata da romanzo di fantascienza, ma quanto ha recentemente affermato la US Air Force. La questione tecnologica, poi, non riguarda solo le guerre, ma la quotidianità di ognuno di noi. Teoricamente, sistemi di controllo sempre più sofisticati potrebbero essere utilizzati per spiare i cittadini, violandone i diritti di privacy e dando loro la sensazione di vivere in un Grande Fratello che li controlla. Ecco come dai campi di battaglia il passo per arrivare alla società civile è breve. E quindi? Singer individua nel confronto l’unica soluzione al possibile cortocircuito tecnologia-società. Ricercatori, medici, filosofi, avvocati, politici, militari, industriali e comuni cittadini devono necessariamente oltrepassare i confini del loro orto per discutere delle implicazioni che i progressi scientifici (non solo quelli militari) hanno sulla società.

La scienza militare viene incoraggiata a seguire l’esempio del Progetto Genoma Umano, che dedica il 5% del suo budget annuale all’organizzazioni di incontri per discutere delle implicazioni sociali, etiche e legali delle sue stesse scoperte. Certo, quella dell’identità genetica è una questione rilevante che tocca la sensibilità di ognuno, ma lo stesso potrebbe essere per il problema tecnologico, quando entrerà di prepotenza nelle nostre vite. Ecco perché, secondo Singer, è bene non farsi trovare impreparati, eticamente troppo piccoli per una tecnologia da giganti.

Fonte: daily.wired.it

 

Schianto scampato, stavolta. I rottami del satellite Uars, che per giorni hanno minacciato di caderci in testa, giacciono ormai in fondo all'Oceano Pacifico, anche se la Nasa non sa esattamente dove e a che ora siano precipitati, e probabilmente mai lo saprà. Ma il pericolo dei detriti spaziali non finisce con la fine della saga di Uars. C'è una quantità impressionante di spazzatura, lassù, che tiene in apprensione i tecnici delle agenzie spaziali.

Secondo il censimento dello United States Space Surveillance Network, intorno alla Terra ruotano almeno 22mila oggetti di dimensioni superiori a 10 centimetri. Mine vaganti, che viaggiano a una velocità di circa 28mila chilometri orari (quella necessaria per restare nell'orbita terrestre, ovvero 40 volte superiore alla velocità di crociera di un aereo). Sono costantemente monitorati da appositi sistemi radar, perché risulterebbero letali nell'impatto con qualunque attrezzatura spaziale. Ai pezzi grossi si aggiunge una marea di rifiuti più piccoli: centinaia di migliaia di frammenti superiori al centimetro, capacissimi di danneggiare una navicella o la Stazione spaziale internazionale, e almeno 300 milioni di pezzetti di pochi millimetri, in grado comunque di mandare in tilt le strumentazioni.

In quest'enorme discarica artificiale a cielo aperto, è il caso di dirlo, galleggia materiale di ogni tipo: satelliti ancora attivi (appena il 5 per cento), satelliti esausti, razzi abbandonati, rottami disintegratisi in mille pezzi, schegge, polveri, bulloni, borse degli attrezzi, persino guanti persi da astronauti. La situazione tende a peggiorare, perché ogni scontro tra i frammenti moltiplica ulteriormente la quantità di detriti, in una reazione a catena che rischia ben presto di precludere la viabilità nella fascia bassa, tra i 200 e i 2mila chilometri di altezza, la più affollata di rottami. A reiterare l'allarme, un recente rapporto del National Research Council americano: l'immondizia in orbita, dicono gli esperti, ha ormai raggiunto “ un punto di non ritorno” e rischia di distruggere costosissimi satelliti e navicelle spaziali. Per correre ai ripari si sta sperimentando di tutto: gigantesche reti da pesca, proposte dall'Agenzia spaziale giapponese Jaxa, arpioni, reti magnetiche o ombrelli raccogli-detriti, studiate dalla Defense Advanced Research Projects Agency (Darpa), per spingere i rifiuti verso l'atmosfera e farli bruciare oppure verso orbite più alte e più sicure. E ancora raggi laser e spazzini nucleari. Praticamente tutte le agenzie, compreso l' ente spaziale italiano ed europeo, sono impegnate nella ricerca di soluzioni per risolvere il problema, o perlomeno mitigare i rischi.

Intanto, ogni giorno piove qualche pezzo dal cielo di tutta questa ferraglia. Nella stragrande maggioranza dei casi, i detriti si polverizzano completamente nell'impatto con l'atmosfera, vera e propria tomba dello space debris.

I rientri di oggetti grandi come Uars - pericolosi perché non si disintegrano del tutto -capitano una volta all'anno, ma il Center for Orbital and Reentry Debris Studies calcola che circa 100-200 oggetti moderatamente grandi sfreccino sopra le nostre teste ogni anno. Fino ad oggi è andata bene: non hanno mai fatto male a nessuno. Solo una donna, unica nella storia, è stata sfiorata da un frammento spaziale nel 1997, un pezzo del booster del Delta II, mentre stava passeggiando in un parco a Tulsa, nell'Oklahoma (non s'è fatta niente, ha raccontato, solo un picchiettio sulla spalla). D'altronde, la probabilità che un frammento spaziale colpisca qualcuno è una su 3.200. Vale per l'intera popolazione mondiale. Il rischio di ciascun individuo è inferiore a uno su un trilione. Praticamente prossimo allo zero (molto, molto più alta la probabilità di essere colpiti da un fulmine, che è una su un milione). Nei rientri controllati, in cui il veicolo ha ancora abbastanza propellente, il satellite viene posizionato su una traiettoria prestabilita, in modo che precipiti in mare (o in una zona disabitata). Nei rientri fuori controllo, dovuti al naturale decadimento della rotta orbitale, com'è stato nel caso di Uars, è più difficile, se non impossibile, fare previsioni sulla pioggia di frammenti.

Spesso va di fortuna, considerato che la superficie terrestre è ricoperta per il 70 per cento di acqua e la densità abitativa non è omogenea. Ma ci sono state diverse occasioni in cui la tragedia è stata sventata per un pelo. In particolare, hanno dato il batticuore il rientro delle 74 tonnellate dello Skylab, che nel 1979 ha prodotto una pioggia di rottami, delle dimensioni anche di 2 metri, dall'Oceano Indiano all'Australia, e ancora più pericoloso il rientro programmato della stazione spaziale russa Mir, il 23 marzo 2001: per un errore in fase di rientro, parte delle sue 136 tonnellate (molto più pesante di Uars) si sono sparse su duemila chilometri quadrati nella parte est dell'Australia, fortunatamente una zona quasi disabitata. L'apprensione è stata tale da spingere il governo russo a sottoscrivere un'assicurazione da 200 milioni di dollari per rispondere di eventuali danni a cose o persone. Già, perché non succede. Ma se succede un incidente a causa di un detrito spaziale, chi paga il conto? In generale, infatti, i satelliti in disuso non sono più coperti da polizze. Tuttavia, esistono convenzioni internazionali sulla responsabilità del danno causato da oggetti spaziali che regolamentano questi sinistri un po' particolari.

Se avete sottoscritto un'assicurazione su un immobile, potete dormire sonni tranquilli: la caduta dei rottami spaziali in genere è compresa nella copertura antincendio, dove si fa esplicito riferimento alla “ caduta di aeromobili, satelliti e meteoriti” o generici oggetti caduti dall'alto.

E in ogni caso, se viene coinvolto un paese straniero, c'è sempre la  Convention on International Liability for Damage Caused by Space Objects, che obbilga a ripagare i danni a persone o cose causati da oggetti spaziali . Per chi non volesse farsi trovare impreparato, la prossima volta, può consultare periodicamente il calendario dei prossimi rientri spaziali. Il più atteso? Il suicidio del mitico Hubble Space Telescope, che verrà dismesso nel 2014: lascerà le stelle per gettarsi per sempre tra le onde del mare.

Fonte: daily.wired.it

 

La notizia è arrivata a una sola settimana di distanza dal rumoroso lancio del nuovo Facebook: Zuckerberg e soci daranno vita a un Political Action Committee. Insomma, Facebook entra in politica. E, com’è tradizione presso le grandi compagnie della Silicon Valley, lo fa imboccando la porta sul retro, dando vita a un comitato che si occuperà esclusivamente di fornire appoggio economico a partiti e candidati politici in vista delle elezioni presidenziali del 2012.

Ma cosa si intende, esattamente, con Political Action Committee (Pac)? Sostanzialmente, si tratta di un gruppo privato che raccoglie donazioni con il fine di promuovere l’elezione di un candidato e, transitivamente, influenzare le decisioni politiche in determinati ambiti.

In una lettera inviata al quotidiano The Hill, Facebook fornisce la sua spiegazione ufficiale in proposito: “ Il Pac di Facebook darà ai nostri impiegati la possibilità di farsi ascoltare da quei candidati che condividono con l’obiettivo di promuovere il valore dell’innovazione nella nostra economia, dando al contempo alla gente il potere di condividere e rendere il mondo più aperto e connesso”

Giri di parole a parte, quello compiuto da Zuckerberg e soci è un passo obbligatorio se si vuole finanziare legalmente, e in modo consistente, un partito politico o un suo candidato.

Naturalmente Facebook non sta iniziando ora a esercitare la sua influenza sulla politica americana. Com’è costume diffuso nel campo dell’information-tecnology (e non solo), la compagnia di Mark Zuckerberg investe da anni centinaia di migliaia di dollari in lobbying, per fare pressione sulla politica e sulle istituzioni legislative. Se nel 2010 a Palo Alto avevano investito 350mila dollari in lobbying, nel 2011 gli investimenti di questo tipo hanno raggiunto quota 550mila dollari. Una cifra importante, senz’altro, ma ancora parecchio lontana dalla montagne di denaro con cui le altre aziende leader del settore riempiono le tasche dei loro lobbisti. Come si può notare in questa classifica redatta da OpenSecrets.org, Amazon e Apple investono cifre annuali almeno doppie rispetto a quella di Facebook, rispettivamente 1 e 1,3 milioni di dollari, mentre sul podio se la giocano Microsoft, Google e HP, con investimenti che orbitano intorno ai 3 milioni di dollari annui.

Qualcuno di voi si starà chiedendo: a cosa servono, nello specifico, tutti questi investimenti? Per capirlo, basta dare un’occhiata al lobbying report ufficiale di Facebook. Niente di particolarmente sorprendente, tra i campi di riferimento dei vari investimenti compaiono voci come: “ restrictions on Internet access by foreign governments”, “ Children's Online Privacy Protection Act”, “ freedom of expression on the Internet”, “ discussion of location-based services”, “ use social media to engage with citizens” etc.

Ora, con il lancio di una propria Pac, Facebook punta a ridurre ulteriormente la distanza tra l’azienda e Washington.

La legge americana consente alle Pac di donare fino a 5mila dollari per candidato a ogni elezione (primarie, mid-term e presidenziali sono da considerarsi separate), un massimo di 15mila dollari all’anno per ogni partito politico, più una quantità imprecisata di contributi alla campagna elettorale che possono essere erogati sotto forma di pubblicità o iniziative a supporto dei singoli candidati.

Questo, in parole povere, significa avere l’opportunità di investire milioni di dollari per assicurarsi la benevolenza e l’appoggio di una consistente fetta della politica americana. E questo ci porta all’inevitabile interrogativo: chi appoggerà Zuckerberg? Lunedì, mentre in Rete veniva pubblicato l’annuncio del lancio della Pac, sul canale Facebook Live compariva una videointervista ai giovani rampolli della classe politica repubblicana. C’è chi ha subito collegato le due cose e dedotto che Zuckerberg abbia intenzione di schierarsi dalla parte dell’ elefante. La realtà, è che quando si tratta di fare pressioni politiche, le differenze tra democratici e repubblicani si assottigliano.

Prendiamo Google, per esempio. Da sempre il colosso di Mountain View è considerato vicino ai democratici, e in particolare a Barack Obama. Se però si vanno confrontare le donazioni che il Pac di Google (attivo dal 2006) ha elargito nel corso della campagna per le elezioni mid-term del 2010, si noterà che BigG ha finanziato in misura praticamente identica repubblicani e democratici. Lo stesso vale per il più  generoso fra i colossi dell’informatica, Microsoft. 

E Apple? Apple per ora rimane l’unico giocatore a non servirsi ufficialmente di un Pac. Questo però non significa che non esista un flusso di denaro (e di pressione politica) tra Cupertino e Washington. Apple tiene a libro paga qualcosa come 16 lobbisti, tramite i quali l’azienda ogni anno investe centinaia di migliaia di dollari (nel 2008 era 1,7 milioni) per oliare a dovere gli ingranaggi legislativi. A questo si aggiungono le donazioni rivolte a specifiche campagne politiche (come i 100mila dollari per contrastare la normativa contro i matrimoni gay) e le donazioni effettuate dai singoli impiegati, che nel caso di Apple sembrano essere decisamente orientate (86,3%) a favore dei democratici.

Insomma, a giudicare da questo trend, pare che influenzare la politica attraverso gruppi di pressione, per una compagnia che opera nel settore dell’information technology, non sia tanto una scelta strategica, quanto una necessità. Un esempio: da qualche tempo è stata presentata una petizione che chiede alla Casa Bianca di eliminare i brevetti per i software, rei di essersi trasformati in “ un mezzo che, invece che favorire l’innovazione e la competitività dei mercati, soffoca l’innovazione e impedire la libera concorrenza”.

In questi giorni (articolo del 27 septembrie 2011 - di Fabio Deotto) la petizione ha superato le 5mila firme necessarie e passerà dunque al vaglio delle camere. Sarebbe un bel problema per tutte quelle aziende che hanno costruito le fondamenta su simili brevetti. Ma avendo speso montagne di denaro per oliare gli ingranaggi giusti, possono assicurarsi che qualcuno, alla Casa Bianca, si straccerà le vesti per salvare i loro brevetti.

Fonte: daily.wired.it

 
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