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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 

MONACO - L’ acquisto di Summify da parte di Twitter è forse la risposta di Jack Dorsey all’ integrazione di Google+ in Google Search da parte di Mountain View, con relativa esclusione di Twitter (e Facebook) dal nuovo motore di social-ricerca. Il co-fondatore di Twitter è stato ospite alla Digital Life Design conference di Monaco, dove ha spiegato che la propria creatura non è (più) un social network, ma uno strumento di informazione.

“Il nostro servizio è incentrato su semplicità e informazione in real time . Vogliamo aiutare l’utente a scoprire cosa sta succedendo ora, mentre negli altri social network - Dorsey dice proprio così -  non hai bisogno di questa immediatezza”. Intervistato sul palco della Dld, Dorsey si toglie un sassolino: “Non siamo focalizzati sul social, come invece Google. Che ha un sacco di evoluzioni da affrontare ancora, con la ricerca che lentamente comincia a essere rimpiazzata dalle applicazioni”.

“Ci stiamo concentrando sulla crescita di Twitter”, ribadisce il presidente della compagnia quando si tratta di spiegare l’acquisizione di Summify, web app e iOS app che crea un sommario degli argomenti più twittati dai nostri contatti. “Vogliamo consegnare ai nostri utenti i contenuti più rilevanti istantaneamente - spiega il co-fondatore di Twitter - e oggi non ci sono più solo twit da 140 caratteri, ma anche foto, video e link ad articoli. Già con l’ultima versione di Twitter abbiamo fatto un passo in questa direzione”. Il destino di Summify, che già pareva segnato, resta dubbio, visto che alla domanda circa eventuali nuove acquisizioni Dorsey risponde: “Siamo sempre in cerca di team in gamba e dato che li possiamo avere acquistando aziende, perché no?”

La sintesi estrema del Dorsey-pensiero è in una frase all’apparenza banale: “Io non controllo più le news, apro Twitter”. Per presentare (l’ex) sito di microblogging come strumento d’informazione il presidente ricorda l’episodio dell’ammaraggio di un aereo nell’Hudson: “La notizia l’ha data su Twitter una persona con venti follower e da lì è arrivata ai media”. Molti, spiega Dorsey, usano Twitter proprio così: per leggere le notizie. Tanto più che “per usare Twitter non è necessario un account”. Visto che “ogni singolo dispositivo sul pianeta è connesso con Twitter” e che “chiunque può partecipare, anche semplicemente mandando un sms”, ecco che ritorna il lato social del sistema, che si configura come un luogo pubblico in cui si trovano le notizie e “dove avvengono conversazioni pubbliche in tempo reale”. Nulla a che fare con Facebook e Google.

L’operazione di ri-posizionamento del prodotto è completata da Dorsey con l’aggiunta di qualche numero (140 milioni di dollari di ricavi nel 2011) e l’assicurazione che il business model basato sui “tweet sponsorizzati”, capaci di coinvolgere gli utenti con una percentuale che varia del 3 al 5%, funziona: “Gli inserzionisti stanno tornando indietro e il fatto che questo abbia un mercato dimostra che la gente è interessata a queste cose”.

(Nella foto: Jack Dorsey al Dld di Monaco. Credit: Johannes Simon/Getty Images)

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P per V uguale a una costante. O, per dirla in un altro modo: in un gas ideale a temperatura costante, la pressione (P) e il volume (V) variano in modo inversamente proporzionale tra loro. Dunque, se aumenta l’uno, l’altro diminuisce. L’eredità più grande lasciata da Robert Boyle (1627-1691) ai posteri è forse la legge di fisica che porta il suo nome. Eppure lo scienziato irlandese avrebbe messo il naso in quasi tutti i campi del sapere del Diciassettesimo secolo, dalla medicina, alla biologia, alla religione, e soprattutto alla chimica.

Robert Boyle era nato il 25 gennaio 1627 nel Castello di Lismore, in Irlanda, penultimo di quindici fratelli, figli del ricco Primo Conte di Cork. Il piccolo Boyle lasciò presto la casa paterna, diretto verso l’ Eton College, in Inghilterra, all’età di soli otto anni, insieme a uno dei suoi fratelli. Ma terminati gli studi, Boyle non tornò a casa. Intraprese invece un viaggio attraverso l’Europa, che avrebbe influenzato non poco la sua formazione e i suoi interessi.

Toccò Parigi, Lione e Ginevra, e tra le partite di tennis e gli incontri di scherma imparò il francese, la matematica, il latino e l’italiano. Nel 1642, infatti, Boyle arrivava a Firenze, nello stesso anno e negli stessi luoghi in cui Galileo Galilei moriva. E sarebbe stata forse la vicinanza geografica a convincerlo ad abbracciare anche le teorie dello scienziato italiano sul metodo sperimentale, che lo distinsero una volta tornato in Gran Bretagna nel 1644, a Stalbridge, nel Dorsetshire.

In realtà, a spingerlo a indagare la natura e i suoi misteri era stata anche la fede religiosa, a cui, si racconta, si avvicinò dopo un temporale estivo. Credeva infatti che la scienza fosse un modo per comprendere la natura divina delle cose. E forse anche per questo mise in piedi un laboratorio nella sua residenza del Dorsetshire, prima di trasferirsi nel cuore pulsante della scienza inglese dell’epoca, Oxford.

Qui, insieme all’illustre collega Robert Hooke, studiò a lungo le proprietà dell’aria. Capì per esempio che era necessaria per la trasmissione dei suoni, che in sua assenza gli animali non potevano vivere e gli oggetti cadevano più velocemente verso il basso. Ma soprattutto ebbe il coraggio di mettere in discussione Aristotele e le sue teorie sui quattro elementi (aria, terra, fuoco e acqua) come mattoni fondamentali di tutto quello che ci circonda.

Boyle infatti, forte anche delle osservazioni che aveva collezionato in laboratorio, arrivò per primo a elaborate la cosiddetta teoria corpuscolare, quanto di più vicino, per l’epoca, alla chimica moderna e al concetto di atomo. Come riportava nel suo The Sceptical Chymist (Il chimico scettico) del 1661, la materia era fatta di corpuscoli, a loro volta particelle più piccole combinate insieme.  Boyle inoltre introdusse per primo il concetto di elemento, come qualcosa “che non è fatto di nessun’altra entità”, ovvero l’unità fondamentale della materia. Teorie grazie alle quali lo scienziato si guadagnò per sempre il titolo di “padre della chimica”.

Fonte: Wired.it

 

Che i raggi X permettano di osservare la materia nel dettaglio si sa. Ma se fosse possibile raggiungere una precisione tale da riuscire a fare una foto dei processi molecolari più veloci? Se fosse possibile catturare l’immagine di una singola reazione chimica? Un passo in più verso quest’incredibile precisione è stato fatto grazie a un gruppo di ricercatori del Lawrence Livermore National Laboratory, in California, guidati da Nina Rohring, che descrivono sulle pagine di Nature un primo tentativo di laser atomico a raggi X in grado di raggiungere una lunghezza d'onda pari a 1,46 nanometri. Un valore vicino alla barriera dello 0,1 nm: vero obiettivo della ricerca in questo campo, rincorso dagli scienziati da quando i laser sono stati inventati, 50 anni fa.

Gli strumenti tradizionali sono basati su un principio abbastanza semplice. Atomi opportunamente eccitati, che si trovano dunque in uno stato con grande energia ma poco stabile, tenderanno a tornare nella loro condizione fondamentale (a energia minore) emettendo radiazione elettromagnetica. Quando il numero di atomi che si trovano in questo stato è abbastanza alto (condizione che si chiama di inversione di popolazione) si può ottenere quel fascio di luce coerente, monocromatica e collimata che è, appunto, il laser.

Quando però si cerca di operare nello spettro dei raggi X, la storia non è così semplice. Perché l’emissione finale sia abbastanza energetica da ricadere in questo spettro, la radiazione incidente deve essere decisamente molto alta, tanto che finora i laser a raggi X basati sull’inversione di popolazione non erano mai stati creati. Per ottenere delle emissioni così energetiche erano state scelte altre tecniche, come ad esempio il ricorso a fasci di elettroni liberi accelerati a velocità relativistiche, piuttosto che sorgenti atomiche. Sebbene questi laser, chiamati a elettroni liberi, raggiungano delle luminosità mai viste con altri metodi, i laser che ne derivano non sono del tutto coerenti e spesso i loro spettri fluttuano molto. Inoltre, di nuovo, le energie che servono per produrre i raggi collimati sono molto alte e il risultato continua ad essere ben lontano dalla precisione delle emissioni a raggi X duri (ovvero quelli che si avvicinano alla barriera del decimo di nanometro).

Ma ecco arrivare la brillante idea dei fisici californiani: perché non combinare le due tecniche, inversione di popolazione e laser a elettroni liberi? Per farlo i ricercatori hanno usato il Linac Coherent Light Source (LCLS) degli SLAC National Accelerator Laboratory della Stanford University (California), un laser a elettroni liberi a emissione di raggi X (Xfel), per colpire un gas di neon ad alta pressione.

In questo modo hanno ottenuto che una parte degli atomi del gas venissero eccitati tanto da emettere nello spettro dei raggi X, pulsazione che a sua volta ha stimolato altri atomi vicini ad emettere altre radiazioni così energetiche, producendo una sorta di effetto valanga che in gergo viene chiamato fenomeno di auto-amplificazione. In questo modo i ricercatori hanno ottenuto il famoso raggio laser di lunghezza d’onda 1,46 nanometri di cui sopra, che presentava, tra le altre cose, una purezza e una luminosità mai viste. La frequenza di questa emissione fa ancora parte dei cosiddetti raggi X ‘molli’ (in contrapposizione a quelli ‘duri’, cercati dagli scienziati), ma sicuramente promette di avvicinarsi all’obiettivo finale. “ Almeno adesso sappiamo che dobbiamo lavorare ancora, ma che stiamo andando nella giusta direzione”, hanno commentato i fisici californiani nello studio. “Ad esempio per migliorare il risultato potremmo lavorare sulla densità del gas su cui lanciamo il primo laser, o giocare con le energie dei raggi incidenti. Provare ad aumentarle ulteriormente, fino a creare un apparecchio che invece di lavorare col neon, funziona a idrogeno o elio”.

Fonte: Wired.it

 

Nel dna di alcune persone ci sono piccoli pezzetti di codice genetico che offrono una resistenza naturale contro l’ Aids. Sono 47 varianti genetiche che fanno da  scudo e aiutano a controllare la progressione della malattia. A individuarle è stata una ricerca coordinata da Guido Poli, docente di Patologia Generale e Immunologia dell’ Università Vita-Salute San Raffaele e responsabile dell’Unità di immunopatogenesi del Aids presso l’ Istituto Scientifico Universitario San Raffaele di Milano, pubblicata sulla rivista Journal of Infectious Diseases.

Il lavoro è stato condotto da un consorzio finanziato dal Sesto Programma Quadro della Commissione Europea, Gisheal – Genetic and Immunological Studies on Hiv + European and African Ltnp che include alcuni tra i massimi ricercatori europei impegnati in questi studi.

In pratica gli scienziati hanno analizzato 144 persone sieropositive nelle quali la malattia non dava segni di progressione, cioè rimaneva stabile nel tempo. Si tratta di individui definiti Ltnp, Long Term Non Progressors, una rara condizione osservata solo nell’1-2% di tutte le persone con infezione, nelle quali il sistema immunitario reagisce in modo innato o naturale alla replicazione del virus in assenza di terapia anti-retrovirale.

I ricercatori hanno poi confrontato il dna di questo campione con un altro gruppo di 605 persone infettate da poco. Ebbene, dai risultati di questo confronto è emerso che nei pazienti in cui la malattia non progredisce ci sono 47 varianti genetiche particolari. La maggior parte di queste mutazioni sono state identificate nella porzione di genoma in cui sono presenti i geni del cosiddetto Complesso maggiore di istocompatibilita (Mhc). Studi precedenti avevano identificato alcuni geni Mhc di Classe I coinvolti nel controllo spontaneo della replicazione del virus Hiv in assenza di terapia anti-retrovirale. I geni Mhc di Classe I sono infatti responsabili della risposta immunitaria specifica all’infezione esercitata dai linfociti T citotossici ovverosia in grado di riconoscere, grazie anche alle proteine codificate da questi geni, in modo altamente selettivo le cellule infettate dal virus e di eliminarle. Questa ricerca ha inoltre evidenziato per la prima volta l’importanza di un’altra regione dell’Mhc, ovvero la Classe III, che codifica molte proteine responsabili della cosiddetta immunità naturale o innata alle infezioni.

In pratica gli scienziati hanno scoperto l'esistenza di una particolare classe di molecole Mhc capaci di produrre proteine responsabili della cosiddetta immunità naturale alle infezioni.

“Questo lavoro scientifico - spiega Poli - servirà come base per ulteriori studi di varianti geniche associate alla resistenza spontanea alla malattia in persone già infettate e potrebbe portare alla scoperta di nuovi aspetti della risposta immunitaria, sia specifica che innata, importanti per la messa a punto di strategie di prevenzione generale dell’infezione quali i vaccini, potenzialmente in grado di avere un impatto fondamentale sulla corrente pandemia da Hiv”.

Nonostante le prospettive eccezionali, c’è il rischio che gli scienziati non riescano ad andare avanti.  “Purtroppo, il finanziamento europeo al consorzio Gisheal - riferisce Poli - è terminato e non vi sono ulteriori finanziamenti attivi per proseguire lo studio. Tuttavia, i ricercatori del consorzio sono fiduciosi che l’importante pubblicazione scientifica stimolerà l’interesse di enti pubblici e privati per sostenere sia il consorzio che iniziative simili finalizzate a comprendere quali siano ‘i segreti’ alla base della resistenza naturale alla progressione di malattia in persone infettate che non assumono farmaci anti-retrovirali i quali, è importante sottolinearlo, rimangono un presidio fondamentale per l’assoluta maggioranza delle persone infettate”.

Fonte: Wired.it

 

Riservato e meticoloso, proprio come ci si immaginerebbe un matematico. Eppure lui, Charles Lutwidge Dodgson (1832-1898) nell’immaginario collettivo non è uno scienziato famoso ma il papà di una delle favole più raccontate di sempre. Per indovinare quale basterebbe aggiungere lo pseudonimo sotto cui Dodgson firmò i suoi racconti, nell’intenzione di tener bene separate quelle strampalate fantasie messe nero su bianco dal suo serissimo lavoro da matematico. Per farlo scelse di chiamarsi Lewis Carroll, invertendo l’ordine dei suoi due nomi e mescolando l’inglese al latino (a partire da Carolus Lodovicus): così sarebbe diventato il papà di  Alice nel paese delle meraviglie (più correttamente Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie). Ma la carriera di Carroll come cantastorie cominciò molto prima del 1865, anno di uscita della sua fiaba più famosa.

Dodgson era nato il 27 gennaio 1832 a Daresbury nel Cheshire (Inghilterra) in una famiglia numerosa, con nove sorelle e due fratelli, e proprio con loro il piccolo Lutwidge iniziò a inventare storie. Si dice infatti che, malgrado la balbuzie - che una volta adulto gli avrebbe impedito di fare il predicatore anche dopo essere diventato il reverendo Dodgson – amava intrattenere i fratelli con giochi, poemetti e assurde storie. E anche da grande avrebbe continuato a preferire la compagnia dei piccoli a quella dei grandi. Proprio da qui nasce l'ipotesi di un Carroll pedofilo, anche se non è mai stato verificato che abbia oltrepassato la soglia dell'amore platonico.

Nel 1851 arrivò al Christ Church College di Oxford. Ci era andato per studiare la logica e la matematica e lì sarebbe rimasto anche dopo essersi diplomato, diventando prima professore e poi reverendo. Nel tempo libero amava fotografare e fu la scusa di uno scatto alla cattedrale del college dal giardino del preside a dar inizio alle avventure di Alice nel paese delle meraviglie. Con una bambina che, guarda caso, si chiamava proprio così.

Era la figlia del preside Henry Liddell, e aveva avvicinato Dodgson chiedendogli di essere fotografata. Non è chiaro come, ma forse, per intrattenere Alice e i suoi fratelli tra uno scatto e l’altro, il matematico rispolverò la vecchia passione e si ritrovò a raccontare fantastiche storie. Piacevano così tanto ai bambini che presto l’appuntamento con Dodgson e le sue avventure divenne una piacevole abitudine. Come quel giorno d’estate del 1862, quando il professore, in compagnia di un collega e delle figlie del preside, era usciti in barca per una passeggiata lungo le rive del fiume Isis (come viene chiamato il Tamigi dalle parti di Oxford). “Raccontaci una storia”, implorarono i bambini:  “e mister Dodgson cominciò”, avrebbe ricordato Alice Liddell una volta diventata adulta.

Le avventure nel paese delle meraviglie erano nate quel giorno, e solo per richiesta della bambina sarebbero state messe per iscritto, in un libro che originalmente recitava così: “Come regalo di Natale a una cara bambina in memoria di un giorno d’estate”.

Era la prima copia delle Le avventure di Alice nel sottosuolo. Già, perché almeno all’inizio il paese delle meraviglie non c’era nel titolo, così come la bionda ragazzina che tutti conoscono era mora, proprio come Alice, l’originale, s’intende. Su consiglio di un amico, poi, Carroll decise di rendere pubblico quel racconto. Venne così ampliato e arricchito dei disegni di John Tenniel, che firmò le illustrazioni della storica edizione del 1865. Il contenuto lo conosciamo tutti.

Fonte: Wired.it

 

Camminando per lo spazio espositivo di Peep-Hole vedrete molte luci accendersi. Non si tratta, però, di una mostra di design o di lampade d'autore. Gli interruttori sono a Rio de Janeiro, nella casa di Renata Lucas, artista brasiliana che espone a Milano l' impianto elettrico della sua abitazione in Brasile nell'installazione Third Time.

Le lampade - tutte al neon, per accentuarne la presenza negli spazi - sono nell'esatta posizione originale dall'altra parte del mondo e si accendono quando la Lucas, banalmente, le accende a casa sua. L'installazione utilizzza un impianto di domotica che consente il coordinamento dei due impianti elettrici che fanno dell'artista il collante tra la sua abitazione e la galleria milanese, giocando con la sua assenza/presenza. E annullando i 9mila chilometri di distanza.

L'ispirazione per l'opera nasce da un fatto curioso: nel 1931 l'illuminazione della Statua del Cristo Redentore a Rio, nel giorno della sua inaugurazione, venne attivata via radio proprio dall'Italia pare - anche se non vi è la certezza - da Guglielmo Marconi. Third Time è visitabile fino al 4 di febbraio, presso Peep-Hole.

Fonte: Wired.it

 

Il punto di partenza di questo libro è esplicito: la misurazione dell'universo dei social media in senso rigoroso e pratico. Rigoroso perché basato sulla misurazione quantitativa dei fenomeni; pratico, perché dalla teoria più alta si allontana per diventare insieme di azioni e best practice. Misurare, dunque. Certo misurare vuol dire valutare, ma ciascuna misura, presa da sola, si limita a un numero tanto preciso quanto inutile. Quindi per valutare in modo compiuto e utile bisogna comprendere altri elementi: lo scenario di riferimento, con uno sguardo prospettico, i mutamenti che ha contribuito a determinare, il terreno d’azione e le logiche di funzionamento. Analoga situazione si forma nel passaggio dalle valutazioni prese singolarmente al loro insieme, la strategia, distillata nelle azioni da compiere. Ecco perché dopo le valutazioni bisogna trovare il modo per far capire l’importanza di agire a chi in azienda ha il potere di decidere la partenza di un programma strategico di azione attraverso i social media.

Breve storia dell'incontro tra aziende e social media:
La storia dell'interesse dei manager aziendali per i social media si può retrodatare al periodo in cui i blog iniziarono a diventare un oggetto d'interesse per i mass media e il Web cominciò a rivelarsi come complesso sistema non solo di fruizione ( readable) ma anche di produzione dal basso ( writable). Fu in quel momento, fotografato dalla famosa "copertina specchio" del Time che decretava “YOU” persona dell'anno ( Time, volume 168, numero 26, dicembre, 2006), che iniziò a insinuarsi nei comunicatori più illuminati un tarlo, alimentato dalle prime agenzie di digital PR. Queste, intuendo la dirompente portata sociale e, naturalmente, commerciale del fenomeno, provarono a offrire nuovi servizi in grado di consentire alle aziende di comprendere quella magmatica realtà. I blogger iniziarono ad incuriosire e, a volte, impensierire per primi gli uomini delle pubbliche relazioni che non capivano né quanto fossero davvero importanti né come "catalogarli". Queste persone animate da grande passione, che con le proprie opinioni, potevano scalfire la granitica reputazione delle aziende erano un fenomeno da analizzare attentamente. Dal tentativo di comprensione si passò ben presto alla sperimentazione di inediti approcci alle relazioni pubbliche. Alcuni azzardarono i primi contatti con i blogger, inviando loro prodotti in cambio di un feedback sincero. In Italia lo fece per primo Antonio Tombolini col progetto "pesto ai blogger" (febbraio, 2006) sulla scia del successo dell'iniziativa di Stormhoek (maggio 2005) piccolo produttore di vini sudafricano, che con un investimento di 40.000 dollari in due anni riuscì a ottenere una visibilità tale da essere accolto dal colosso Tesco sui suoi scaffali.

Lo spirito dell'idea fu chiarito dalle parole del suo creatore Hugh MacLeod, marketer e disegnatore, "un'azienda vinicola non dovrebbe essere come un country club, ma avere la stessa attitudine di una start-up della Rete" . Altre aziende provarono a incontrarli informalmente per stabilire un contatto personale. Il primo esempio italiano risale al febbraio del 2006. Lo ricordo bene perché contribuii a realizzarlo dall'interno. Microsoft aveva deciso che era giunto il momento di dialogare con i sostenitori dell'open source e così provammo a mettere a confronto una decina di blogger con i più alti rappresentati dell'azienda di Bill Gates.

Si incominciò a parlare dei blog come strumento utile a modificare la percezione delle aziende quali opache “macchine macinasoldi”. Fecero scuola le esperienze di Microsoft e del suo Channel 5 o dei blog dei CEO di Sun Microsystem o della catena di hotel Marriott. Erano nati i “corporate blog” e i “CEO blog”. Questi ultimi, in particolare, erano animati da manager che decisero di "metterci la faccia" e dar vita ad un dialogo, il meno ingessato possibile, fuori dagli schemi imposti dalla tradizione delle relazioni pubbliche. A volte arrivando anche all'estremo di dare la notizia di odiosi licenziamenti dalle colonne del blog.

Con l'aumentare degli strumenti di condivisione aumentò anche la complessità di gestione delle attività aziendali sui social media e il disorientamento del management.

L’equazione social web uguale blog sembrava rivoluzionaria e destinata a vivere anni felici, ma contrariamente alle aspettative successe qualcosa del tutto inaspettato: l’avvento dei social network.Il successo planetario di Facebook indusse molti a sostituire o evitare il corporate blog, delicato e impegnativo, a favore della pagina su Facebook, più snella e meno rischiosa. É l'inizio della grande illusione zuckerberghiana: l'idea implicitamente indotta che basti una pagina infarcita di promozioni e post ammiccanti, nel più trafficato centro commerciale online, per diventare social e raggiungere migliaia di persone. La storia dei servizi web mostra un pattern che si ripete: introduzione, adozione da parte degli utenti ( innovators prima e poi early adopters) osservazione e successiva sperimentazione da parte delle aziende più innovatrici. Qui il vantaggio dell'azienda first mover si rivela sempre molto importante: quella che per prima riesce a superare l'iniziale ritrosia naturale verso le novità e a esplorare i modi più genuini e innovativi per comunicare attraverso il nuovo servizio, è nella giusta posizione per costruire una credibilità duratura. Per di più, solitamente, gli utenti sono disposti a perdonare anche i piccoli incidenti di percorso, che possono capitare quando si esplora per primi un territorio sconosciuto.

Ecco perché uno degli obiettivi dell'azienda moderna dovrebbe essere quello di introiettare quella cultura della Rete, quella curiosità verso il nuovo, tale da spingerla naturalmente verso la sperimentazione di approcci innovativi di comunicazione.

Oggi siamo in una fase delicata di passaggio. Dalla consapevolezza delle sfide che pone il nuovo ambiente mediale ai primi tentativi di gestione professionale. Dalla gestione esclusiva delle nuove pratiche di comunicazione da parte della funzione marketing o relazioni esterne, all'idea di “social business” o “social organization”. In questo contesto chi prova a spostare investimenti dalle attività tradizionali a quelle sui nuovi media, inizia ad interrogarsi sulla loro misurabilità. Si parla con sempre più insistenza di R.O.I. (Ritorno sull'Investimento) con la pretesa di voler trasformare magicamente i likers, un tempo conosciuti come fan, e i follower in clienti.  Senza aver ben chiari gli obiettivi di business e in un contesto aziendale ai limiti dell'anarchia e dell'improvvisazione.

Č da qui che nasce l'idea di questo libro che, senza pretesa di esaustività, vuole offrire un contributo iniziale di riflessione a quanti intendono utilizzare i social media professionalmente, e misurarne i risultati.
Einstein diceva "non tutto ciò che può essere contato conta, e non tutto ciò che conta può essere contato". Il detto del grande fisico si attaglia alla perfezione al nostro caso. Quando parliamo di attività di comunicazione attraverso i social media dovremmo avere in mente non uno strumento tecnologico, né un canale di distribuzione, ma attività tese a generare uno scambio di valore tra persone. Un valore immateriale, per definizione, impossibile da misurare puntualmente e soprattutto non convertibile sic et simpliciter in valori finanziari.

Ciononostante è importante che anche le attività di social media marketing e PR, come ogni azione aziendale, si pongano degli obiettivi raggiungibili e misurabili, in modo, quantomeno, di guidare l'azienda verso il graduale miglioramento. La misurazione, dunque, è un processo, non un attività improvvisabile ex post. Richiede un pensiero strategico, un contesto e un framework di riferimento in grado di supportare l'implementazione del social media marketing plan.

Cosa è cambiato nella comunicazione: dal controllo alla cogenerazione dei messaggi aziendali:
Con l’affermarsi della società in rete e il successivo, inevitabile, dissolvimento della rete dentro la società, il ruolo della comunicazione in azienda sta cambiando inesorabilmente, indipendentemente dalla consapevolezza e dai comportamenti, spesso reazionari, dei comunicatori, siano essi uomini di marketing o relatori pubblici. 

Manuel Castells sostiene che la società in rete comunica e consuma mediante la Rete, in base a processi che diffondono istantaneamente simboli e conoscenze, modificando in profondità le espressioni culturali e cambiando radicalmente le forme del potere politico e della mobilitazione sociale (Manuel Castells, Comunicazione e Potere, Bocconi Università Edizioni, 2009).

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Produrre enormi quantità di energia senza inquinare il pianeta. Sulla carta è un obiettivo molto nobile, ma nella realtà dei fatti e tutta un'altra cosa. Deve essere per questo che l' E-Cat di Andrea Rossi è ancora avvolto in una densa coltre di mistero. L'inventore italiano sembra aver scelto gli Stati Uniti per effettuare nuove prove con il suo generatore di vapore alimentato da una reazione nucleare tra nichel e idrogeno. Ma senza prove concrete, è difficile fidarsi. Ecco perché, come spiega Wired.uk, il panorama della fusione fredda degli ultimi decenni è nutrito di casi emblematici. La scarsa credibilità dei prototipi simili a E-Cat è dovuta al fatto che promettono di produrre molta più energia di quella necessaria a farli funzionare. Di fatto è un concetto del tutto impossibile, a meno che non si tirino in ballo i processi di fusione del nucleo che avvengono normalmente dentro le stelle a temperature di milioni di gradi. Nel 1989, gli elettrochimici Stanley Pons e Martin Fleischmann dissero di aver ottenuto gli stessi risultati della nostra stella in un comune laboratorio, ma furono immediatamente smentiti. Ma ancora oggi c'è chi non demorde.

E-Cat
L'invenzione di Andrea Rossi è sicuramente la punta di diamante di chi crede che la fusione fredda possa entrare nelle nostre case in modo semplice e pulito. Dopo la prima serie di controversi esperimenti condotti a Bologna – i cui risultati non sono mai stati comprovati da esperti indipendenti – Rossi ha trasferito il proprio business negli States dove ha già messo in offerta i propri generatori da un Megawatt. Il prezzo? 1,5 milioni di dollari.

Le caratteristiche del suo generatore a fusione fredda farebbero quasi gridare al miracolo: con un chilogrammo di nichel E-Cat produrrebbe l'equivalente d'energia ottenuto dalla combustione di 200 tonnellate di petrolio, ma con zero emissioni di anidride carbonica. I numeri volano alti fino alle stelle, ed entro il 2013 il gruppo di Rossi promette di lanciare sul mercato anche una linea di generatori per la casa da 10 Kilowatt. In lista d'attesa ci sarebbero già 10mila persone.

Il giallo di Ampenergo
Già nel 2011, il generatore da un Megawatt sponsorizzato da Rossi aveva più volte fatto la spola tra il capannone sperimentale di Bologna e una azienda americana, la Ampenergo. Come si legge nel suo sito web, il ruolo della corporation consiste nel promuovere la commercializzazione di E-Cat nelle Americhe.

Tuttavia, vista da vicino, la compagnia non sembra altro che una scatola vuota costruita all'occorrenza. La pagina online, scarna di contenuti, è stata registrata solo nel dicembre 2010, e non ha ricevuto che un aggiornamento lo scorso giugno. Secondo i registri americani, poi, Ampenergo sarebbe tuttora inattiva.

E, stranamente, l'indirizzo dei suoi uffici coincide con quelli della Leonardo corp di Andrea Rossi.

La concorrenza
I vecchi compagni di viaggio a volte possono pugnalarti alle spalle. Sembra essere il caso della azienda greca Defkalion che, dopo essere stata in affari con Rossi, ha rotto un contratto di collaborazione e si è messa in proprio. Forte della collaborazione tecnica avuta con l'inventore di E-Cat, la ditta ellenica ha messo a punto Hyperion, un reattore del tutto simile alla controparte italiana.

Il dispositivo sarebbe in grado di generare una quantità di energia fino a 30 volte superiore a quella necessaria per metterlo in azione. Un altro prodigio della fusione nucleare tra nichel e idrogeno. A differenza dell'invenzione di Rossi, Defkalion sembra bene intenzionata a diffondere alcune schede tecniche del prototipo, e promette di pubblicare nuovi dati sui test di funzionamento. Le scelte sono due: o stanno cavalcando l'onda di E-Cat, o vogliono davvero risollevare l'economia greca.

La via del plasma
Oltre ai reattori fai-da-te, esistono progetti più seri che puntano da anni sulla fusione nucleare come soluzione al dilemma dell'approvvigionamento di energia. Uno di questi si chiama Iter, nato nel 1985 a seguito dell'accordo proposto dal presidente francese François Mitterand, il ministro inglese Margaret Thatcher e il segretario sovietico Mikhail Gorbaciov al presidente americano Ronald Reagan. Ne è nata una collaborazione mondiale – a cui in seguito si sono uniti l'Unione Europea e altri paesi – mirata a utilizzare l'energia atomica per scopi pacifici.

Attraverso l'impiego di un dispositivo tokamak in grado di gestire del plasma ad alta temperatura, il progetto Iter punta a riprodurre la fusione di due atomi pesanti di idrogeno (deuterio e trizio) in uno di elio. Proprio come avviene nelle stelle, a parte il fatto che si rimane con i piedi ben saldi sulla Terra. Il progetto è davvero ambizioso, e i primi test avranno luogo solo nel 2020 presso il sito francese di St-Paul-lez-Durance.

Fonte: Wired.it

 

Ce lo ripetono da quando siamo piccoli: l’ attività fisica fa bene alla salute. Aiuta a contenere i livelli di stress, a non ingrassare e ad allontanare lo spettro di malattie come il diabete. Ma se dovessimo spiegare cosa accade alle nostre cellule mentre corriamo al parco o durante la lezione di aerobica in palestra, avremmo poco da dire. Perché poco si conosce dei meccanismi molecolari messi in moto dall’attività fisica. Un gruppo di ricercatori guidati da Beth Levine della University of Texas Southwestern Medical Center di Dallas (Usa) è però riuscito a scoprire che i benefici dell’attività fisica proverrebbero, almeno in parte, da un’efficiente attività di riciclo cellulare.

Come spiegano gli scienziati dalle pagine di Nature, lo sport induce un particolare meccanismo biologico: l’ autofagia, il processo con cui la cellula divora alcune sue parti (come certi organelli), destinandone al riutilizzo i diversi componenti. In pratica si tratta di una forma di economia cellulare: in caso di necessità, si smonta qualcosa per trovargli un nuovo utilizzo. E l’autofagia è tanto un processo fisiologico, quindi normale, quanto un meccanismo innescato da condizioni patologiche, come sistema di difesa (per esempio contro cancro, infezioni, invecchiamento o insulino-resistenza, come è stato dimostrato nei topi). 

Per capire se l’autofagia fosse legata anche all’ attività fisica, i ricercatori hanno allenato, sottoponendoli a intenso sforzo, alcuni topi in cui questo meccanismo fosse stato geneticamente compromesso, in cui cioè fosse alterato il gene BCL-2, un regolatore importante dell’autofagia (in realtà, in questi animali non risultava danneggiato il meccanismo in sé, ma solo quello indotto dall’esercizio fisico). Se, infatti, i topi normali mostrano un ritmo intenso di autofagia in seguito all’esercizio fisico (sia nei muscoli scheletrici sia in quello cardiaco), non accade lo stesso nei topi mutanti.

In questi animali inoltre, l’assenza del meccanismo è correlata a una serie di sintomi, come diminuita resistenza fisica e metabolismo del glucosio alterato. Ma non solo: senza riciclo cellulare, i topi sviluppano più facilmente intolleranza al glucosio se alimentati con una dieta ricca di grassi, una condizione prediabetica che invece l’esercizio fisico normalmente riesce a contrastare.

Secondo i ricercatori, l’effetto benefico dell’ autofagia sarebbe dovuto alla capacità delle cellule di adattarsi (attraverso il riciclo dei componenti cellulari) ai bisogni energetici e nutrizionali dell’organismo in seguito all’ attività fisica (per esempio regolando il metabolismo del glucosio). Qui, la via bio-molecolare legata alla proteina prodotta da BCL-2 sembra essere fondamentale, tanto da poter immaginare di utilizzarla in futuro nei trattamenti delle malattie metaboliche.

Fonte: Wired.it

 

Né sacerdote né avvocato. Alessandro Volta (1745-1827), come molti illustri colleghi, disobbedì al volere di famiglia (dello zio, in particolare) e virò dagli studi giuridici a quelli scientifici. Formandosi per lo più da autodidatta, aiutato in parte dalla grande curiosità che lo aveva accompagnato sin da piccolo e in parte da alcuni fortunati incontri. Uno dei quali fu quello con l’amico Giulio Cesare Gattoni, che aveva conosciuto proprio in seminario.

Fu infatti nel laboratorio improvvisato dell’amico che Volta - complici anche le letture di alcuni libri, come The History and Present State of Electricity di Joseph Priestley (lo scienziato che aveva contribuito alla scoperta dell’ossigeno) - cominciò a interessarsi di scienza. Dell’elettricità, in particolare. Ma anche se lo ricordiamo per la costruzione dell’elettroforo (uno strumento per accumulare carica elettrica), dell’elettrometro (per misurare la differenza di potenziale), per la sua disputa con Luigi Galvani sull’ elettricità animale e per la creazione della pila, Alessandro Volta non si occupò solo di elettricità.

Intorno agli anni Settanta del Diciottesimo secolo, Volta aveva sentito degli strani racconti sul fiume Lambro, in Lombardia: passando con una candela sulla superficie delle sue acque paludose, si accendevano fiammelle di un insolito colore azzurro. Non era la prima volta che qualcuno riportava l’insolito fenomeno, fino ad allora etichettato come un’ “esalazione di aria infiammabile, di origine minerale”. Ma Volta era comunque deciso a toccare con mano quei fuochi.

L’occasione sarebbe stata una passeggiata negli stagni di Angera, nei pressi del Lago Maggiore. Si  racconta che durante una gita in barca lo scienziato smosse con un bastoncino il fondale, notando delle bollicine che risalivano verso l’alto. Se fosse riuscito a catturare quelle bollicine, pensò Volta, avrebbe potuto capirne meglio le caratteristiche. Così, come si fa con un insetto per studiarlo al microscopio una volta tornati in laboratorio, il giovane Alessandro raccolse dei campioni di quell’aria melmosa e le imprigionò in un contenitore.

Si accorse presto che così come l’idrogeno, il gas emanato dalle paludi era infiammabile. Aveva scoperto quello che solo molti anni dopo sarebbe stato riconosciuto come il più semplice degli idrocarburi della famiglia degli alcani, il metano, formula CH 4, prodotto della decomposizione di organismi viventi. Una scoperta che si dice risalire al 31 gennaio 1776 e per la quale lo scienziato italiano trovò presto un’applicazione.

Con quell’ “aria nativa delle paludi”, come si riferiva al metano, costruì infatti la pistola elettroflogopneumatica: all’interno di un contenitore di vetro mescolò insieme ossigeno e aria infiammabile che, in presenza di una scintilla, potevano esplodere lanciando in aria un tappo di sughero. Una sorta di sistema di allarme. E nelle sue ipotesi il sistema poteva funzionare anche a distanza, con un segnale di innesco trasportato per via elettrica. Non vi ricorda il telegrafo?

Fonte: Wired.it

 
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