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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 

Un'affermazione ambiziosa. " Il video più divertente di YouTube", così lo definiscono a Mountain View. E non c'è proprio da scherzare (questa passatecela), visto che c'è voluto un algoritmo degli ingegneri di Google Research per scovarlo in tutti quelli postati nella categoria Comedy. Ma come valutare quanto facesse ridere un certo video? Semplificando, è bastato un programma che prendesse in considerazione quanti " hahah" e simili fossero pubblicati nei commenti, e quante volte si usassero acronimi come " lol", " lmao", " rofl", parole come " funny" ed emoticon come " :)" o " ; - )". Senza contare, poi, le diverse enfasi che si davano ai commenti (" looooool" vale più di " lool"?). Stabiliti i parametri, i diversi video sono stati dati in pasto all'algoritmo, considerando anche la combinazione di testo e caratteristiche audiovisive. Chi ha vinto? Be', non vi resta che guardare di seguito e giudicare. E, se non vi basta, potete vedere l' intera classifica.

 

Fonte: Wired.it

 

L’idea l’aveva avuta molti anni prima, nel 1860 circa, quando Dmitry Ivanovich Mendeleyev (1834-1907) si era ritrovato al primo congresso internazionale di chimica di Karlsruhe (Germania), durante uno dei brevi e pochi periodi che avrebbe passato fuori dalla sua Russia. In realtà, più che aver avuto un’idea, aveva ricevuto un invito dai colleghi: c’era bisogno di mettere ordine nella lista degli elementi chimici che col tempo si andava allungando. Magari usando il peso atomico come sistema di classificazione. Ma raccolto l’invito, Mendeleyev tornò in patria e non avrebbe messo mano al problema fino al 1867.

In laboratorio La sua tavola sui muri Illuminata

In Russia, dove era nato l’ 8 febbraio 1834, aveva infatti di che tenersi impegnato. Tra il suo lavoro di insegnate all’Istituto di Tecnologia di San Pietroburgo, il dottorato in chimica, e la passione per l’agricoltura che l’avevano spinto a metter su una fattoria, il tempo da dedicare alla soluzione del problema era davvero poco. Fino a quando non divenne professore all’Università di San Pietroburgo. Si dice infatti che l’idea della tavola periodica fosse nata come un bisogno: quello di trovare un modo chiaro e semplice di insegnare la chimica, un metodo che mancava nei libri di testo allora a disposizione e che invece sarebbe stato presente nella sua opera, Osnovy Khimii (Principi di Chimica).

Cominciò creando delle carte per ogni elemento allora conosciuto (63 in tutto), e scrisse su ognuna il peso atomico e le proprietà chimiche. Poi iniziò a giocare, mescolando le carte, cercando una qualche regola che permettesse di distribuire i diversi elementi in ordine. E a un certo punto la vide. Posizionando le carte in ordine crescente di peso atomico, e raggruppando i diversi elementi in base alle proprietà simili, abbozzò la sua prima tavola periodica (ovvero con il ripetersi delle proprietà chimico fisiche a intervalli, periodi). Anche se non tutti i conti tornavano.

In particolare c’era il problema dei buchi. Alcune posizioni della sua tavola rimanevano infatti in bianco. Come se ci fosse una discontinuità negli elementi presenti in natura. Ma Mendeleyev difese la sua tavola periodica supponendo che gli elementi mancanti non fossero stati ancora scoperti. E sebbene non ne potesse conoscere l’identità, il suo sistema permetteva comunque di stabilirne le proprietà chimiche. Aveva fatto centro, come dimostrarono poi le scoperte del gallio, dello scandio e del germanio, alcuni dei tappi che nel corso dei decenni servirono a chiudere i buchi iniziali.

Ma quello di Mendeleyev non fu certo il primo tentativo di far ordine nella giungla degli elementi chimici. Il concetto di periodicità, per esempio, lo aveva già annunciato intorno al 1860 John Newlands nella sua legge degli ottavi (ispirandosi alla musica). Lo scienziato inglese infatti aveva osservato che le proprietà chimiche sembravano ripetersi a intervalli di otto elementi, ordinati secondo il peso atomico.

Anche il chimico tedesco Julius Lothar Meyer era arrivato ad analoghe conclusioni, realizzando una tavola molto simile a quella di Mendeleyev, che però gli avrebbe strappato il primato pubblicando per primo i suoi risultati, nel 1869. Anche il lavoro di Henry Moseley - che dimostrò come fosse in realtà il numero atomico (quello dei protoni o degli elettroni) di un elemento, e non il suo peso, a ordinare gli elementi in una tavola periodica – non sarebbe riuscito a cancellare la paternità dell’invenzione. Come dimostrarono gli stessi studenti di Medeleyev, portando, si dice, ai suoi funerali anche la sua tavola periodica.

Fonte: Wired.it

 

Il 2011? Č stato l'anno dell' effetto Anonymous. La chiave di lettura è di  Marco Gioanola, consulting engineer di Arbor Networks, società che snocciola i dati sulla sicurezza delle infrastrutture informatiche in concomitanza con il Safer Internet Day 2012. L'evento è dedicato all'aumento della consapevolezza degli internauti in merito ai rischi che si corrono nel mare magnum della Rete, soprattutto per i minori: secondo una ricerca di Microsoft solo il 2% degli utenti italiani è sul pezzo e il 60% non è in grado di proteggersi da eventuali furti di identità. L'analisi annuale di Arbor chiama in causa 114 service provider di tutto il mondo e tiene il dito premuto sul polso degli attacchi DDoS, quelli che mettono in ginocchio interi sistemi.  

"Il trend di crescita di questi attacchi si conferma anche quest'anno", spiega Gioanola:  "è aumentata la percentuale degli Isp attaccati più di dieci volte al mese e più di un terzo dei soggetti chiamati in causa si è sentito bersagliato per motivi ideologici o politici". Di questo si parla quando si fa riferimento all'effetto Anonymous: la rilevanza mediatica concessa alle azioni del gruppo di hacker avrebbe incoraggiato il proliferare di casi simili e mossi dalle medesime motivazioni. Ha radici politiche e geografiche anche il timore legato alla provenienza degli attacchi, Gioanola fa notare come i vari paesi tendano a puntare il dito contro gli storici nemici, in un contesto in cui " è difficile identificare" l'indirizzo reale dei mandanti.

Tornando ai dati, le iniziative si distinguono anche per entità, essendo stato esposto il 25% degli Isp ad attacchi che hanno superato la banda totale dei rispettivi data center. "Il più grande è stato di 65 Gbps, rispetto ai 100 dello scorso anno (il 13% ha registrato attacchi superiori a 10 Gbps, nda)", aggiunge Gioanola. Da segnalare, inoltre, la prima azione contro "l' Ipv6, protocollo che andrà a sostituire l'Ipv4: negli ambienti tecnici c'è grande preoccupazione per la complessità della soluzione, che la renderà più vulnerabile quando l'e-business si sarà trasferito in modo rilevante".

Da tenere sotto controllo anche le reti mobili, "meno preparate a gestire le criticità, essendo esploso di recente l'utilizzo di Internet tramite chiavetta e smartphone. I dati indicano che la situazione sta leggermente migliorando, ma rimane un punto interrogativo sull'adozione dei protocolli di nuova generazione. Con Lte e 4G la banda aumenterà sensibilmente e si andrà incontro a nuovi problemi". Il mercato italiano nello specifico, tiene a sottolineare Gioanola, dovrà fare attenzione nel 2012 all'esplosione dell' e-commerce nostrano "l'aumento della presenza delle aziende online coinciderà inevitabilmente con un aumento degli attacchi". 

Fonte: Wired.it

 

Il comico dedica l’apertura di Ballarò alla retata della Finanza nella Milano da bere: “Prima Cortino, poi Portofino, la Milano da bere... solo due categorie in Italia possono permettersi una vita così: il finanziere e Lapo Elkan”.

 

Ma non risparmia un duro rimbrotto al Pd, prendendo spunto dalle parole della Melandri contro il taglio dei privilegi ai politici.

 

Per difendere la libertà di espressione in Rete non basta condividere un video, firmare una petizione o piazzare una decina di pollici alzati su alcuni status di Facebook. Non è nemmeno sufficiente aderire a un blackout trasversale oscurando il proprio sito per consapevolizzare la gente sui rischi che un controllo verticale della condivisione in Internet implicherebbe. Per difendere veramente la libertà di espressione in Rete bisogna tenere gli occhi costantemente aperti, e accettare che anche dopo aver incassato una (mezza) vittoria come quella che il Web ha portato a casa nella lotta contro Sopa e Pipa, si debba tornare subito ad appuntire le frecce per fronteggiare un'altra. E tra chi vuole battaglia c'è in prima fila il gruppo di cyberattivisti Anonymous.

Perché il fatto è che questa minaccia esisterebbe già, si chiama Acta (acronimo di Anti-Counterfeit Trade Agreement) e ha ricevuto oggi il via libera dell’Unione Europea. Sulla carta, si tratta di un Accordo Commerciale Anti-Contraffazione volto a introdurre misure internazionali comuni contro la contraffazione di beni di lusso e di prodotti coperti da diritti di proprietà intellettuale come farmaci e sementi. Da ieri, i cittadini polacchi hanno scatenato le proteste contro l’annunciata intenzione del governo di firmare l’accordo internazionale. Ma la promulgazione dell’accordo è già in una fase estremamente avanzata, tra i paesi che l’hanno siglato figurano: Stati Uniti, Corea, Marocco, Singapore, Giappone, Canada e Nuova Zelanda. Si attendono invece le firme di Svizzera, Messico. E ora si è espressa positivamente anche l' Unione Europea. Finora ci si basava sui singoli stati - oggi la Polonia metterà la propria firma in calce all'accordo, ma gli altri paesi ancora non si sono espressi. Per essere ratificato, l'accordo deve passare al vaglio del Parlamento Europeo, stimato entro il 2013.

Qualcuno di voi se lo starà chiedendo: da dove spunta ora questa fregatura? Com’è possibile che, in questi ultimi mesi di battage mediatico su proprietà intellettuale e libera condivisione, non si sia mai (o quasi) sentito parlare di Acta? La domanda è meno ingenua di quanto potrebbe sembrare, dal momento che le trattative che hanno portato alla stesura di Acta sono in corso dal 2007 e fino a poco tempo fa sono state mantenute in totale segreto.

Cos’è in realtà Acta:
Ma insomma cosa c’entrano i beni contraffatti con la protezione del copyright in Rete? Stando all’ articolo 23 di Acta c’entrano eccome, dal momento che un prodotto contraffatto (un paio di scarpe di marca taroccate, per esempio) viene equiparato a un contenuto piratato.

Oltre a stabilire una serie di linee guida sulle misure da adottare contro la contraffazione di beni coperti da copyright, Acta si concentra nello specifico sull’introduzione di misure e sanzioni contro quegli Internet Service Provider che ospitino materiale coperto da copyright e che in qualsiasi modo favoriscano (questo il termine utilizzato) la pirateria su scala commerciale. Secondo i maggiori critici dell’accordo, i termini che abbiamo evidenziato in corsivo sarebbero sufficientemente ambigui da permettere di applicare sanzioni penali verso qualunque sito che non solo metta a disposizione materiale piratato ma anche solo che introduca link che conducoano a contenuti illeciti. Per siti come YouTube, Facebook e Google, questo significherebbe essere obbligati a controllare nel dettaglio qualsiasi tipo di contenuto condiviso (fosse anche un video in cui in sottofondo ci sono venti secondi di una hit coperta da copyright) e a evitare preventivamente che sulle loro pagine venga introdotto materiale piratato. In poche parole: significherebbe la fine della condivisione in Rete e quindi del Web 2.0 come lo conosciamo. Č anche utile prestare attenzione alle parole “ su scala commerciale”, l’accordo non parla in fatti di profitto o di intento commerciale, ma allarga il campo anche alla condivisione gratuita di contenuti tra utenti, equiparandola alla contraffazione.

Perchè è più pericoloso di Sopa:
Per la sua natura, innanzitutto. Se Sopa era una proposta di legge al vaglio del Congresso Americano, Acta si presenta come un accordo commerciale tra nazioni, proponendo una serie di misure che avrebbero validità a prescindere dalle leggi vigenti nei singoli paesi. Inoltre, non trattandosi di una proposta di legge, Acta ha davanti a sé un iter di approvazione molto meno accidentato, basti considerare che diverse nazioni hanno già posto la propria firma in calce ad esso senza dover presentare (per ora) l’accordo al vaglio dei rispettivi parlamenti. Oltre a ciò, Acta è il frutto di contrattazioni rimaste segrete, che hanno coinvolto 40 diversi paesi, associazioni come la Riaa e multinazionali del calibro di Walt Disney, Sony, Intel, Verizon, e da compagnie che nulla hanno a che fare con la Rete (ma con farmaci e prodotti agrobiologici sì) come Monsanto, Pfizer e GlaxoSmithKline.  Come abbiamo detto in precedenza, lo sviluppo di Acta è già in fase avanzata, e per via della sua iniziale segretezza non si è ancora formato un movimento di opposizione sufficientemente forte e trasversale.

Cosa si può fare per contrastare Acta:
Il collettivo di hacktivisti Anonymous si è preso una pausa dalla rappresaglia contro la chiusura di Megaupload per annunciare l’avvio di una campagnia di opposizione ad Acta:

Ma il fronte di opposizione si va allargando ogni giorno di più. Tra le voci più forti si contano, oltre ad Anonymous, anche Reporter Senza Frontiere, il Pirate Party, diversi membri del Parlamento Europeo e, in particolare, l’associazione La Quadrature Du Net, che sta portando avanti un’opera di informazione sorprendente al riguardo. Quello che gli utenti possono fare per arginare Acta è innanzitutto informarsi e informare, seguire da vicino l’evolversi dell’iter di approvazione e, volendo, aggiungere firme alla petizione online (male non fa). Mi rendo conto che, arrivati in fondo a questo articolo, si può avere l’impressione che siano già passati mesi dal blackout della Rete, dal momento che la guerra sembra tutt’altro che vinta. Il problema di fondo è sempre lo stesso, le proposte di legge come Sopa e gli accordi plurilaterali come Acta pretendono di ignorare la diffusione del concetto di libera condivisione dei contenuti, per far prevalere una visione dicotomica della proprietà intellettuale. O un contenuto creativo è stato pagato, oppure la sua fruizione è automaticamente illecita. In questa dicotomia non c’è spazio per la produzione e la condivisione di contenuti amatoriali, né tantomeno per la rielaborazione e diffusione di contenuti già esistenti. Questo porta a pensare che dietro a questi tentati blitz legislativi ci sia anche l’intenzione di riportare indietro le lancette al Web 1.0, quando il passaggio da utente-consumatore a utente-produttore di contenuti non era ancora stato completato. A questo proposito, c’è chi come Clay Shirky è convinto che Sopa e Pipa facciano leva sul problema della pirateria per mettere le ganasce allo sviluppo del Web 2.0, dal momento che è molto più difficile spremere guadagni da un pubblico di produttori e condivisori che da un tradizionale pubblico di consumatori.

Come abbiamo già detto a proposito di Sopa, non ha senso sbarazzarsi delle erbacce radendo al suolo un’intera foresta. Significherebbe impoverire la Rete, la diffusione della cultura nel Web, segare le gambe a nuove forme di espressione e, in ultima battuta, tagliare fuori ogni possibile soluzione alternativa che permetterebbe di preservare la libertà della Rete senza necessariamente eliminare il concetto di copyright.

Fonte: Wired.it

 

Il grande sciopero di Internet contro i due progetti di legge Usa contro la pirateria, Sopa e Pipa ( qui per saperne di più) è servito allo scopo e i timori di rendere la Rete meno libera sono per il momento accantonati (anche se in Italia corriamo ancora qualche rischio), visto che anche i promotori si sono tirati indietro e hanno lanciato in un limbo legislativo le proprie proposte. Al feroce dibattito sui diritti d'autore e il Web si è aggiunta la chiusura forzata di Megavideo e Megaupload della scorsa settimana. E la domanda resta la stessa: è vero che la pirateria digitale sta mettendo in ginocchio l'industria dell'intrattenimento? Le motivazioni che spingono le grandi major a battersi fino all'ultimo sangue contro i download illegali le conosciamo tutti. Chi scarica un contenuto gratis ovviamente non lo acquista, e causa perciò un danno economico a chi produce e distribuisce dvd, album e libri.

A un'analisi più attenta, però, il fenomeno della pirateria potrebbe apparire molto meno grave di quanto non lo dipingano i politici e le multinazionali. Come fa notare Wired.com, i download illegali non hanno intaccato la produzione di film e musica negli States che, invece, ha raggiunto record storici negli ultimi anni. Inoltre, non ci sono prove concrete sul fatto che i contenuti pirata causino danni ingenti all'economia. La realtà è che i file scaricati liberamente in Rete potrebbero aiutare gli artisti a farsi conoscere dal pubblico e a innescare un circuito virtuoso in cui il denaro risparmiato sull'acquisto di un cd può essere speso altrove. In sintesi, al mercato non interessa dove tu spenda i tuoi soldi.

Infatti, come spiega New Scientist, l'equazione “ download illegale uguale calo delle vendite” non sta affatto in piedi. Le grandi multinazionali danno per scontato che se la pirateria online venisse azzerata, tutti gli utenti della Rete si riverserebbero nei negozi a comprare i prodotti originali. Niente di più sbagliato: chi non può scaricare un film gratis – o pagarlo un prezzo che considera abbordabile – abbandonerà l'idea di averlo in dvd. Per le major, quindi, la vera perdita economica consiste nel fatto di non saper sfruttare bene la domanda di mercato.

Nell'esempio fatto da New Scientist, una casa di produzione decide di mettere in vendita su iTunes quattro stagioni complete di una serie a 100 dollari. Č questo il prezzo minimo imposto da ragioni di marketing, ma il pubblico potrebbe pensarla diversamente. Tra i fan della serie, c'è chi fissa come prezzo equo 80 dollari e chi, magari, solo 15. Tutte queste persone sono clienti mancati, perché il prodotto viene venduto solo a chi è pronto a sborsare 100 dollari. Lo stesso corto circuito avviene quando viene deciso che una serie in prima visione venga diffusa sui siti online a pagamento con delle limitazioni geografiche.

Perché tagliare fuori dei potenziali clienti stranieri che sarebbero disposti a pagare pur di vedere in anteprima l'ultima puntata di Sherlock?

In una situazione in cui la grande distribuzione non è in grado di soddisfare i bisogni del pubblico, il download illegale diventa un'alternativa seducente e molto appagante. Viceversa, come suggerisce GigaOm, se un utente può trovare il prodotto che gli interessa immediatamente disponibile online a un prezzo equo, è molto probabile che lo acquisti. Č proprio questa la meccanica che ha sancito il successo di siti di movie streaming come Hulu e Netflix. Entrambe le piattaforme forniscono video on-demand in modo perfettamente legale e nel 2011 hanno incassato, rispettivamente, 0,4 e 1,5 miliardi di dollari.

Il successo travolgente dei siti di movie streaming ha messo in luce il vero punto della questione: la pirateria ha funzionato per anni come una enorme vetrina di promozione online visitata da milioni di utenti che hanno scaricato, visto e rivisto migliaia di ore di video. Di sicuro, queste persone non hanno comprato un dvd, ma niente vieta loro di acquistare altri prodotti di merchandising legati ai personaggi della loro serie preferita. Certo, diffondere merce illegale è sbagliato, ma il business del video on-demand non ha fatto altro che copiare l'idea dei pirati digitali e trasferire tutti i contenuti online per renderli facilmente accessibili. In un certo senso, le major dovrebbero rendersi conto che il mercato sta cambiando le sue regole e la pirateria rappresenta un buon motivo per trovare sistemi di distribuzione più equi e funzionali.

Tutto sommato, anche il concetto di proprietà intellettuale avrebbe bisogno di una rinfrescata. Nella sua Ted conversation, la ricercatrice Johanna Blakley fa presente che nel mondo della moda il concetto di copyright è molto labile. Qualunque stilista può copiare un'idea di un collega o trarre ispirazione dalle mode che sorgono spontanee. In questo settore, il successo di una linea di prodotti non è dato dall'esclusività del design, bensì dallo sforzo creativo che la distingue da quelle concorrenti. Copiare un marchio registrato è sbagliato, ma rubare un'idea e creare un prodotto migliore è un colpo da artisti. L'importante è non essere sleali ma accettare il fatto che la concorrenza non guarda in faccia a nessuno.

Fonte: Wired.it

 

Sul fatto che le web serie siano la nuova grande promessa per il futuro della televisione se ne discute ormai da mesi. Ma negli ultimi giorni le notizie riguardanti l’arrivo di nuovi ambiziosissimi spettacoli televisivi sul Web si sono susseguite a un ritmo ubriacante: Netflix sta per lanciare una serie con protagonista Steve Van Zandt de I Soprano (boom!), Tom Hanks ha in cantiere una serie animata che uscirà in esclusiva per Yahoo (boom!), House of Cards, il nuovo show commissionato da Netflix, coinvolgerà Kevin Spacey e David Fincher (doppio boom!). Che cosa sta succedendo? Perché di colpo le star di Hollywood si stanno buttando sullo streaming online?

Ora ci arriviamo. Ma prima, un po’ di storia. Tutto è cominciato verso la fine degli anni ’90, quando alcuni produttori televisivi ebbero la brillante idea di girare episodi televisi dedicati unicamente al pubblico del Web. Nel febbraio del 1997, la Nbc cominciò a pubblicare in esclusiva sul proprio sito gli episodi di uno spin off della serie Homicide. Nel frattempo, in Rete spopolavano le serie animate di Magic Butter. Al tempo, gli episodi web (o webisodes) erano poco più che un esperimento collaterale. Ci vollero alcuni anni prima di vedere comparire le prime serie specificamente pensate per l’ecosistema web.

Red vs Blue (2003, serie creata a partire dalle immagini di gioco di Halo), The Guild (2007, microepisodi da tre minuti incentrati su un gruppo di persone dipendenti dagli Mmorpg),  Doctor Horrible’s Sing-along Blog (2008, divertissment del buon Joss Wheadon su uno scienzato pazzo fallito interpretato da Neil Patrick Harris), sono alcuni esempi di web serie di successo create negli ultimi 10 anni. Si tratta comunque di piccole produzioni, niente a che vedere con i carrozzoni milionari che nel frattempo occupano i canali televisivi (il primo episodio di Broadwalk Empire è costato qualcosa come 60 milioni di dollari). La stessa Pioneer One, web serie di fantascienza attiva da poco più di un anno, è nata da una stanza di college e da due ragazzi appassionati di cinema. Perché allora di colpo spuntano tutte queste operazioni milionarie? Cos’è cambiato negli ultimi mesi?

Č cambiato che dopo una sequela di false partenze, quest’anno potrebbe essere quello buono per le Smart tv. Per capirlo basta fare un giro a Las Vegas in questi giorni, al CES 2012, dove LG, Samsung e Panasonic hanno presentato la loro personale ricetta per il Connected tv. In particolare, bisogna sottolineare il fatto che Panasonic, per lo sviluppo del nuovo VIERA Connect, ha deciso di rivolgersi a MySpace. “ Siamo pronti a portare l’intrattenimento e la televisione un passo avanti nel futuro, integrando l’esperienza dei social network” ha dichiarato il co-proprietario di MySpace, Justin Timberlake (altra star col botto) “ Questa è l’evoluzione di una delle nostre più grandi invenzioni, la televisione.

E oggi non dobbiamo più raggrupparci davanti a un solo apparecchio per vederla in compagnia ”.

Insomma, se fino a qualche tempo fa le Smart tv erano un progetto ancora in via di sviluppo, oggi le tv connessi sono una realtà. Ma per ottenere una vera e propria televisione condivisa, è necessario riempire questi apparecchi connessi con contenuti di qualità. Questo spiega la foga con cui Netflix, Hulu e simili si stanno adoperando a impalcare web-show ad alto budget. I più attenti l’avevano già previsto due mesi fa, quando Disney Interactive Media e YouTube avevano annunciato di voler investire 15 milioni di dollari nella produzione di serie web animate. I sospetti avevano poi trovato una mezza conferma il mese seguente, quando YouTube annunciò il completamento del suo restyling. Lo storico hub di videoclip online aveva dismesso i suoi tradizionali abiti per rafforzare il suo lato social e concentrarsi sulla creazione di canali web personalizzabili, una sorta di riadattamento dell’approccio televisivo in chiave web. Con la funzione AutoPlay, gli utenti potevano personalizzare il proprio canale YouTube e appoggiare la schiena alla sedia guardando carrellate di video scorrere ininterrottamente sullo schermo.

YouTube nel frattempo ha anche cominciato a investire decine di milioni di dollari nella produzione di contenuti di qualità, seguito a stretto giro da Yahoo, Hulu e Netflix.Un altro segnale inconfondibile, arriva proprio da Netflix. Quello che era nato come un servizio di noleggio DVD via posta, e che nel 2008 aveva cominciato a noleggiare video online, ora comincia a estendere il proprio raggio d’azione anche in Europa. Proprio in queste ore Netflix è entrato in piena operatività nel Regno Unito, fornendo contenuti on-demand al prezzo di 7 euro mensili. L’arrivo del servizio in Italia è certo, ma ancora non è dato sapere con che tempi e modalità.

Comunque sia, le novità che abbiamo esposto dimostrano che in pentola sta bollendo qualcosa di troppo grosso per fallire. Se un anno fa la prima Google tv è scivolata nel baratro, insieme a milioni di euro, proprio a causa della mancanza di contenuti (e piattaforme disposte a fornirli), lo scenario per il 2012 è decisamente mutato. Sarà davvero l’anno delle Connected tv e delle web serie? Staremo a vedere. 

Fonte: wired.it

 

Ci sono immagini che non si possono dimenticare. All'alba della grande depressione del 1929, vedere una schiera di lavoratori alienati costretti a marciare in un tunnel sotterraneo deve aver fatto una certa impressione. Era il 10 gennaio 1927, e sugli schermi dei cinematografi di Berlino veniva proiettato per la prima volta il film muto Metropolis. Oltre a essere uno dei capolavori indiscussi del regista austriaco Fritz Lang, la pellicola ha contribuito alla nascita del cinema fantascientifico.

Il male all'operaMetropolisIl golem 

Prima ancora che la Germania sprofondasse nell'incubo nazista, la repubblica di Weimar aveva dato largo spazio alle produzioni artistiche di qualità, e la pellicola di Lang è senza dubbio uno dei prodotti più significativi dell'epoca. La storia è ambientata in una megalopoli governata da una classe dirigente dispotica, una sorta di super città futuristica che prospera sullo sfruttamento dei lavoratori più poveri. Un misto di anticapitalismo, tradizione biblica e leggende ebraiche infusi in un capolavoro di due ore e mezza.

Il fulcro della narrazione ruota intorno all'inganno messo in atto dal perfido scienziato Rotwang in combutta con il reggente della città, Fredersen, che teme una rivolta operaia. Per soffocare l'impeto di ribellione, Rotwang rapisce Maria, leader ispiratrice dei lavoratori, e ne clona l'aspetto servendosi di un androide (o meglio ginoide, visto che ha apparenza femminile) ai suoi comandi: un  golem senza cuore sguinzagliato per la città con il solo scopo di seminare la discordia e gettare in rovina l'intera Metropolis.

Il film – girato allora con un budget astronomico di quelli che adesso sarebbero 15 milioni di dollari – è stato anche un grande laboratorio di effetti speciali. Le riprese sul set della megalopoli sono state girate grazie a una tecnica chiamata effetto Schüfftan, che attraverso un gioco di specchi permetteva di ricreare scenografie imponenti con spese minime. Inoltre, per volere di Lang, l'attrice protagonista Brigitte Helm interpretò sia la parte di Maria che quella del robot, indossando un costume futuristico realizzato su misura. Dettagli a parte, il costume della Helm era tanto scomodo e opprimente da procurarle tagli e abrasioni su tutto il corpo.

Nonostante il grande impatto visivo e la trama visionaria, la pellicola di Lang non riscosse un grande successo in Germania. Alla critica non era piaciuta affatto la forte carica retorica del film, a tratti considerata quasi eccessiva. Deve essere proprio per questi motivi che il film entusiasmò ben altri personaggi: Adolf Hitler e Joseph Goebbels rimasero piacevolmente colpiti dal potere espressivo di Metropolis.

L'improvviso interesse mostrato nei confronti della sua opera da parte degli esponenti del partito nazional-socialista disgustò profondamente Lang.

In seguito all'ascesa del nazismo il regista, nel timore di essere perseguitato per le proprie origini ebraiche, lasciò il paese e fuggì prima a Parigi (1934) e, successivamente, negli Stati Uniti. Si lasciò alle spalle anche il matrimonio con l'attrice Thea von Harbou – simpatizzante filonazista – con cui aveva scritto il soggetto del film.

Per fortuna, negli Stati Uniti Metropolis aveva riscosso un successo strepitoso e per Lang fu facile sfruttare il successo della sua opera per diventare un grande regista di Hollywood. Tuttavia, nelle sale americane (come in quelle europee) furono diffuse fin da subito delle versioni pesantemente ritoccate. Oltre ad accorciare le 2 ore e mezza di film, i cinema avevano deciso di proiettare la pellicola a 24 fotogrammi al secondo (fps) piuttosto che a 16 fps. Dopo aver sconvolto il ritmo del film, anche il montaggio subì delle modifiche estese, che portarono alla eliminazione di intere scene.

Nonostante tutto, Metropolis si affermò come una delle icone del XX secolo. I Queen inclusero vari spezzoni del film nel video del loro singolo Radio Ga Ga, mentre il mondo del cinema trasse ispirazione da più di uno dei personaggi della pellicola: basta pensare alla somiglianza tra Maria e C-3PO (il robot di Star Wars). La consacrazione definitiva della pellicola di Lang avvenne nel 2001, quando l'Unesco riconobbe come patrimonio dell'umanità una versione del film molto rispondente all'originale ricostruita grazie al lavoro della Friedrich Wilhelm Murnau Foundation. Sette anni più tardi, negli archivi del Museo del Cine di Buenos Aires vennero ritrovati dei negativi originali che si pensavano ormai perduti. Dopo una lunga opera di restauro, Metropolis venne proiettato al festival di Berlino nel 2010 in una versione da 154 minuti con tanto di colonna sonora eseguita dal vivo. Un vero spettacolo.

Fonte: wired.it

 

16mila euro (lordi) al mese, il 60% in più rispetto alla media comunitaria e 11mila e spiccioli dei quali di indennità parlamentare. Dalla Camera è giunta una repentina smentita, l'indennità parlamentare dei deputati italiani " è pari mediamente a 5mila euro netti" e inferiore a quella di altri paesi Ue, ma ormai la frittata (mediatica) è fatta: almeno per qualche giorno, il primo problema del paese riguarda il gonfiore dei portafogli di chi lo governa.

Dimensioni, smisurate o meno, delle buste paga, si tratta di dati che vanno analizzati a braccetto con quelli sull'attività dei soggetti in esame. In parole povere: quanto guadagnano, ma soprattutto cosa fanno per guadagnarsi lo stipendio? In soccorso di chi vuol farsi un'idea più strutturata giunge Openpolis, associazione che monitora online l'attività di Camera e Senato e che ha tolto il velo proprio in queste ore sul rapporto Camere aperte 2011.

L'analisi, aggiornata a fine 2010, tiene il dito premuto sul polso della situazione grazie al calcolo dell'indice di produttività parlamentare, cioè la somma di una serie di variabili (atti e tipologia di atti presentati, presenza ai lavori, consenso dei colleghi, ecc) che dia un'idea quanto più precisa della partecipazione attiva dei nostri, e riapre il vaso di Pandora della pubblicazione in Rete dei redditi ( qui ci chiedevamo sia giusto pubblicare quelli dei cittadini). I trasparenti, quanti mettono online la loro dichiarazione patrimoniale, sono solo 45 (22 del Pd, 4 dell'Udc, 11 del Pdl, 3 del  Gruppo Misto, 3 della Lega e 2 di Fli).

Tornando alla produttività, a distinguersi fra i deputati sono Antonio Borghesi (IdV), Pier Paolo Baretta (Pd) e Franco Narducci (Pd). Sul podio dei senatori, Gianpiero D'Alia (Udc), Carlo Vizzini (Udc) e Lucio Malan (Pdl). Maglia nera, invece, per i deputati Niccolò Ghedini (Pdl), Antonio Angelucci (Pdl) e lo scomparso  Mirko Tremaglia (Fli) e per i senatori Sebastiano Burgaretta Aparo (Pdl), Alberto Tedesco (Pd) e Vladimiro Crisafulli (Pd). A livello di gruppi, i personaggi più virtuosi appartengono all' Idv, sia in Camera sia in Senato. La Lega si distingue con percentuali particolarmente basse, 6,3 Camera e 3,6 Senato, per ciò che concerne le assenze.

E di mancate presenze parlando quando c'è da alzare la mano, svettano i deputati Antonio Gaglione (Misto), ancora Ghedini (Pdl) e Tremaglia (Fli) con, rispettivamente, il 92% (!), il 76% e il 76,% delle assenze. Stesso discorso per i senatori Umberto Veronesi (Pd e 72% delle assenze), Emma Bonino (Pd, 68%) e Giovanni Pistorio (Misto 67%). Non se ne perdono una, invece, i deputati Remigo Ceroni (Pdl, 99% delle presenze), Rosy Bindi (Pd, 99%) e Paolo Vella (Pdl, 99%) e i senatori Cristiano De Eccher (Pdl, 99%), Madell Valli (Lega, 99%) e Mario Ferrara (Pdl, 99%). Per citare un'altra delle graduatorie stilate, i più attivi nella presentazione di progetti di legge sono la deputata Gabriella Carlucci (Pdl), 95 ddl messi sul tavolo e uno diventato legge, e il senatore Rosario Costa (Pdl), 76 ddl e una legge.

Fonte: wired.it

 

Per molti, questi giorni di vacanze singhiozzate sono stati l’occasione per allontanare lo sguardo dai giornali, dagli allarmi dell’economia, dal sangue che puntualmente imbratta le pagine di politica estera relative a nord Africa e Medio Oriente. Per questo, non tutti hanno seguito gli eventi che in pochi giorni hanno portato a livelli preoccupanti la tensione tra Iran e Stati Uniti.

Il 28 dicembre, mentre noi spazzolavamo gli avanzi del panettone, il vicepresidente iraniano Mohamed Reza Rahimi annunciava di essere pronto a chiudere lo stretto di Hormuz, da cui transita il 40% di tutto il petrolio venduto al mondo (“ più facile di bere un bicchier d’acqua”, sono state le sue esatte parole). Noi ci preparavamo a stappare lo spumante, e intanto Barack Obama ufficializzava nuove sanzioni contro le istituzioni finanziarie che intrattengono rapporti con la banca centrale iraniana. Infine, nelle ultime ore, la Marina iraniana ha portato a termine la fase finale dei dieci giorni di esercitazioni militari, culminate con il test di nuovi missili antiaereo e antinave, alcuni dei quali sarebbero in grado di sfuggire all’occhio dei radar statunitensi. Quest’ultima esercitazione, in cui veniva simulato il blocco dello stretto di Hormuz al traffico militare e civile, è stata intesa come una sorta di rappresaglia contro sanzioni statunitensi, che tra le altre cose hanno avuto il drammatico effetto di far crollare il valore del rial, moneta ufficiale iraniana.

Fra gli esperti di geopolitica quasi tutti sono pronti a scommettere che quella di Teheran sia solo un’ esposizione muscolare che nasconde una sostanziale incapacità di sostenere un nuovo conflitto nel Golfo Persico (al punto che, dal Ministero degli Esteri Iraniano, è trapelata l’indiscrezione secondo cui l’ayatollah non avrebbe intenzione di bloccare lo stretto di Hormuz, mossa che darebbe sicuramente il via a un conflitto). Eppure, da qualche tempo lo sviluppo militare e scientifico del paese “ cerniera tra mondo arabo e asiatico” è sotto l’occhio dei riflettori. Vediamo perché.

Fino a 15 anni fa, l’Iran aveva una produzione scientifica in linea con quella di paesi come l’Iraq e il Kuwait, con circa 700 paper pubblicati ogni anno. Oggi, mentre Iraq e Kuwait faticano a spostare l’assicella di qualche tacca più in alto, la Repubblica Islamica dell’Iran sforna articoli scientifici a ritmo serrato, arrivando a toccare quota 13mila paper all’anno e posizionandosi come il  paese con la più rapida crescita scentifica dell’ultimo decennio.

Com’è facile prevedere, i traguardi più noti (anche perché più pubblicizzati), sono quelli raggiunti in campo bellico e, soprattutto, nucleare.

Lo scorso novembre la International Atomic Energy Agency (Iaea) ha pubblicato un rapporto in cui illustra dati che suggeriscono che dal 1998 al 2003 l’Iran abbia lavorato alla costruzione di armi atomiche.

L’agenzia ha anche fornito dati che rivelano un programma di arricchimento dell’uranio al 20% (non sufficiente a produrre bombe, ma comunque contrario a quanto richiesto dalle Nazioni Unite), ma non è riuscita a raccogliere notizie certe sull’intenzione del governo iraniano di produrre armi nucleari. Gli unici possibili indizi si riscontrano in alcuni programmi di ricerca che potrebbero essere complementari alla produzione di armamenti nucleari (come un sistema che permette alle bombe di esplodere a mezz’aria). Insomma, la stessa Iaea  evidenzia che se anche c’è stata una corsa agli armamenti iraniana, dal 2003 è stata enormemente rallentata e la produzione nucleare è ancora a un stato rudimentale.

Un discorso diverso vale invece per i progressi compiuti nell’ambito della fisica nucleare. Attualmente l’Iran è il settimo produttore di esafluoruro di uranio e giusto ieri ha annunciato di aver prodotto la prima barra di combustibile interamente iraniana. Inoltre, partire dallo scorso febbraio è il sesto paese al mondo a disporre di un dispositivo nucleare IR-IECF.

Sul fronte dello sviluppo bellico, dal 1988 (fine della guerra con l’Iraq) ad oggi, il paese dell’ayatollah Khamenei si è concentrato nello sviluppo del comparto missilistico. I missili della discordia, che nelle ultime ore hanno debuttato nei pressi dello stretto di Hormuz, sono un missile superficie-mare (Qadar) e uno superficie-superficie (Nour), che hanno un raggio d’azione a lunga gittata (200 km) e una certa capacità di sfuggire al rintracciamento radar. Ma a far paura alle nazioni nemiche dell’Iran (e Israele, in particolare) sono i missili superficie-aria come il Mehrab, ma soprattutto, i missili balistici a lunga gittata come il Shahab-3. Quest’ultimo ha un raggio d’azione che può toccare i 2mila km e colpire qualsiasi paese del Medio Oriente. Si tratta di missili estremamente potenti, capaci di trasportare testate chimiche e nucleari. Le varie agenzie di intelligence non sono riuscite a stimare con esattezza il peso di questi missili balistici all’interno dell’arsenale iraniano: c’è chi sostiene che la Marina Iraniana non abbia più di una ventina di missili, chi è pronto a giurare di contarne più di 300, chi ancora arriva a scommettere anche sulla presenza di Shahab 4 o modelli superiori, la cui gittata si spinge invece sopra i 6mila km.

Ma dal momento che stiamo parlando dello sviluppo scientifico iraniano e non del suo arsenale di guerra, sarebbe ingiusto non riconoscere alla nazione mediorientale i traguardi raggiunti negli ultimi anni in svariati ambiti. Innanzitutto, l’Iran ricopre un ruolo significativo in campo chirurgico, sono infatti iraniani gli esperti che hanno sviluppato un nuovo trattamento neurochirurgico, che ha permesso alla politica americana Gabrielle Giffords di riprendersi dopo aver ricevuto una pallottola in testa.

In ambito biotecnologico gli scienziati iraniani si sono distinti per la progettazione dei primi impianti bio-oculari e nella produzione di anticorpi monoclonali terapeutici. Non solo, la Repubblica Islamica dell’Iran ha raggiunto notevoli traguardi anche in campo robotico, nella produzione di microscopi a effetto tunnel e nella produzione di supercomputer. Gli enti di ricerca iraniani hanno collaborato a Lhc e alla produzione dell’acceleratore di particelle giordano Sesame, inoltre, entro il 2017 l’Iran programma di spedire il suo primo astronauta in orbita.

Tuttavia, nonostante la variegata estensione del progresso scientifico iraniano, la nazione guidata da Mahmud Ahmadinejad conquista le prime pagine per motivi molto meno lusinghieri. Anche oggi, la situazione non accenna a raffreddarsi. Dopo aver concluso la pioggia di missili nella simulazione di ieri, infatti, in queste ore il Comandante in Capo delle Forze Armate iraniane, Ataollah Salehi, ha caldamente invitato gli Stati Uniti a tenere la propria portaerei, che attualmente naviga nel Golfo dell’Oman, lontana dal Golfo Persico, e di non farselo ripetere due volte.

Fonte: wired.it

 
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