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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
By Admin (from 19/08/2011 @ 11:00:55, in it - Scienze e Societa, read 3144 times)

Per più di un secolo gli astronomi di tutto il mondo si sono scervellati nel tentativo di spiegare la struttura e la dinamica delle macchie solari, regioni della nostra stella che ci appaiono più scure rispetto al resto per via di una temperatura minore (circa 5.000 gradi Kelvin). Ora, grazie ai dati raccolti dallo Swedish 1-meter Solar Telescope, un gruppo di ricercatori delle università di Stoccolma (Svezia) e Oslo (Norvegia) è riuscito a ricostruire il meccanismo che porta alla formazione di queste macchie. Lo studio, pubblicato su Science, conferma i più recenti modelli e simulazioni tridimensionali, mostrando come le macchie solari siano il prodotto del movimento di gas caldi verso l'alto e freddi verso il basso.

Detail-macchia solare

“Le macchie solari – spiegano gli studiosi – sono formate da un nucleo centrale scuro, detto ombra, circondato da un anello più chiaro, chiamato penombra. Se nell'ombra i filamenti magnetici fuoriescono dalla superficie del Sole, è nella penombra che la maggior parte di questi filamenti ha un moto circolare”. I filamenti, simili a delle colonne, possono essere lunghi più di 2.000 chilometri e spessi circa 150 chilometri.

I ricercatori scandinavi sono ora riusciti a dimostrare che i filamenti sono in realtà delle colonne di gas che si muovono avanti e indietro, “bucando” la superficie solare. Il movimento di questi gas, chiamato flusso convettivo, è proprio ciò che provoca le macchie solari. Il nucleo più scuro è la regione in cui le colonne di gas raggiungono la superficie del Sole e si raffreddano, per poi sprofondare nuovamente nella zona di penombra.

Il gruppo di ricerca, guidato da Göran Scharmer dell'Istituto svedese di Fisica Solare, ha utilizzato immagini scattate dallo Swedish 1-meter Solar Telescope, posizionato a La Palma, nell'arcipelago delle Canarie. Il 23 maggio del 2010 il telescopio è stato puntato su una macchia solare in particolare, per documentarne la dinamica ed eseguire analisi di spettropolarimetria. I ricercatori hanno così potuto osservare la presenza di due tipi di movimento: una serie di flussi convettivi scuri verso il basso, la cui velocità è stata stimata attorno ai 3.600 chilometri orari, e una serie di flussi convettivi brillanti, che si muovevano a velocità superiori ai 10.800 chilometri all'ora.

“È ciò che pensavamo di trovare - ha spiegato Scharmer – anche se non ci aspettavamo di riuscire a osservare direttamente questi flussi”. Nel prossimo futuro, l'obiettivo dei ricercatori sarà quello di misurare i campi magnetici collegati ai flussi convettivi, così da comprenderne meglio il funzionamento.

Fonte: galileonet.it

 
By Admin (from 18/08/2011 @ 11:00:18, in it - Scienze e Societa, read 2124 times)

Un repentino abbassamento delle temperature, compiutosi nel giro di poche decine d’anni, ancora prima che avesse inizio la Piccola Era Glaciale: solo pochi gradi in meno, quattro, ma abbastanza da mettere in crisi la sopravvivenza delle popolazioni nordiche. Secondo uno studio pubblicato su Pnas dai ricercatori della Brown University (Usa) sarebbe questa una delle cause della scomparsa dei Vichinghi dalla Groenlandia intorno al 1100 d.C.

Detail-foto-groenlandia

Per studiare l’andamento delle temperature nel tempo, gli scienziati hanno prelevato alcuni campioni dal sedimento di due laghi nei pressi di Kangerlussuaq, un piccolo villaggio nella regione sud occidentale della Groenlandia, ottenendo dati climatici su un periodo complessivo di 5600 anni. Le regioni dove sono stati eseguiti i campionamenti, come spiegano gli studiosi, sono le stesse in cui vissero i Vichinghi, e ancor prima le popolazioni delle culture Saqqaq e Dorset.

Analizzando i campioni, i ricercatori hanno osservato che intorno al 1100 d.C., circa due secoli dopo l’insediamento dei Vichinghi, le temperature in Groenlandia cominciarono a diminuire in modo significativo: meno quattro gradi Celsius nel giro di soli ottanta anni. Un cambiamento che ebbe effetti devastanti e mise in crisi la sopravvivenza dei popoli nordici perché determinò una riduzione dei tempi di crescita delle coltivazioni, limitò le risorse con cui allevare il bestiame e prolungò i periodi di gelo in mare, rendendo più difficili i viaggi per il commercio. Questo, insieme allo stile di vita solitario e l’indole combattente, avrebbe dato origine alla scomparsa dei Vichinghi dai territori della Groenlandia, che si sarebbe poi concretizzata tra la metà del 1300 e gli inizi del 1400, come suggeriscono i reperti archeologici e le testimonianze scritte.

Scavando più indietro nel tempo, invece, i ricercatori hanno scoperto che la civiltà degli Saqqaq, in Groenlandia dal 2500 a.C., sperimentò per secoli oscillazioni di temperature, fino all’850 a.C. circa. Intorno a quella data infatti, il clima divenne all’improvviso più rigido, contribuendo forse alla scomparsa della popolazione e favorendo l'insediamento della cultura dei Dorset, più adattata al clima rigido.

Fonte: galileonet.it - Riferimenti: Pnas doi: 10.1073/pnas.1101708108

 

Basta guardare alle trasformazioni, spesso selvagge, delle nostre città e delle periferie per rendersi conto che il cemento e l’asfalto avanzano sempre di più, mentre scompaiono le superfici naturali. Il consumo di territorio è un fenomeno preoccupante che riguarda tutta l’Europa. Ogni anno mille chilometri quadrati di terreno, corrispondenti a un’area più estesa di Berlino, vengono sacrificati a vantaggio dell’espansione urbana e della costruzione di infrastrutture. Lo rivela il report “Overview of best practices for limiting soil sealing or mitigating its effects in EU-27”, presentato a Bruxelles nel corso della Green Week, che al tema ha dedicato una sessione. Questo assalto modifica per sempre le caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche del suolo e si traduce in una perdita irreversibile. Per preservare questa risorsa, nell’ottica dello “using less, live better”, che è stato il tema di questa edizione della manifestazione europea, la Commissione propone un approccio basato sul “limitare, attenuare e compensare” il consumo di suolo.

In gergo tecnico si chiama “soil sealing” ed è quel processo di sigillatura o impermeabilizzazione causato dalla copertura del suolo con materiali impermeabili, dovuto appunto all’urbanizzazione e alla costruzione di infrastrutture. Questo processo modifica le funzioni del suolo provocando la perdita di terreni fertili e di biodiversità, la frammentazione dei paesaggi e, cosa ancor più grave, una ridotta capacità di assorbire e filtrare l’acqua, con il conseguente rischio di inondazioni devastanti. Secondo il report, tra il 1990 e il 2000 nell’Ue sono stati cementificati almeno 275 ettari di terreno al giorno, la metà dei quali occupati da edifici, strade e parcheggi. Negli ultimi anni c’è stato un rallentamento a 252 ettari al giorno dovuto alla crescita lenta della popolazione, ma il fenomeno resta comunque preoccupante. Tra il 2000 e il 2006 l’aumento medio di aree trasformate è stato pari al 3 per cento, con picchi del 14 per cento in Irlanda e Cipro, e del 15 per cento in Spagna. E in Italia? La situazione non è tra le peggiori: il consumo annuale di suolo è in diminuzione rispetto alla crescita della popolazione e il tasso di impermeabilizzazione è del 2,8 per cento, ma tra i territori ad alto rischio il rapporto segnala anche otto provincie italiane: Vercelli, Lodi, Verona, Piacenza, Parma, Campobasso, Matera, Catanzaro.

Un caso emblematico è proprio quello della provincia di Parma, la cosiddetta “Food Valley”, presentato alla Green Week grazie alla proiezione del film “Il suolo minacciato”. Negli ultimi anni nella Pianura Padana si sono persi migliaia di ettari di suolo agricolo e solo nella food valley parmense, dove si concentrano importanti produzioni agroalimentari, lo “sprawl” urbano (la dispersione) avanza al tasso di oltre un ettaro di suolo agricolo al giorno. “Il film nasce dalla constatazione di un problema che riguarda tutta l’Italia”, ci spiega Nicola Dall’Olio, regista del documentario. “L’agricoltura è espropriata dei suoi terreni, visti come una risorsa da sfruttare per la loro rendita immobiliare. Bisogna cambiare rotta, soprattutto considerando che le esigenze urbane potrebbero essere soddisfatte con la riqualificazione delle aree in disuso piuttosto che con nuove costruzioni”. Sullo schermo passano le interviste di esperti come Carlo Petrini di Slow Food, il climatologo Luca Mercalli e il sociologo Wolfgang Sachs, alternate alle immagini di gru, strade, capannoni, scheletri di costruzioni disseminati negli spazi verdi appena fuori le città. Una corsa all’accaparramento di suolo che non trova giustificazione: il tasso di crescita della popolazione è stabile e la situazione sociale è diversa rispetto a quella dell’urbanizzazione degli anni ‘60-70. Il motivo reale è la speculazione edilizia, “favorita dalle leggi che privilegiano lo sviluppo basato sul calcestruzzo a quello agroalimentare”. Il risultato è la comparsa sul territorio di capannoni che, dice Luca Mercalli nel film, “sono brutti, devastano e limitano la fruizione turistica e soprattutto sono vuoti, non calibrati sulle reali necessità…monumenti allo spreco che hanno sacrificato la produttività dei suoli migliori”. Come far fronte al problema? Il documentario suggerisce le possibili strade per preservare la risorsa suolo e i modelli di sviluppo urbano alternativi sulla scia delle esperienza della Germania e della Francia o di piccoli comuni come Cassinetta di Lugagnano (Mi).

Anche la Commissione Europea, in attesa di una direttiva in materia, indica le buone pratiche da seguire e propone un triplice approccio. Per prima cosa, ‘limitare’ l’impermeabilizzazione del suolo introducendo dei limiti, ottimizzando la pianificazione territoriale o ridefinendo i sussidi che incentivano le pratiche di ‘soil sealing’. In questo senso rappresentano buoni esempi quelli di Portogallo, Svezia, Spagna e Paesi Bassi, che stanno migliorando la qualità della vita e dei servizi in alcuni centri urbani per attrarre nuovi residenti e controbilanciare la dispersione territoriale. Oppure i progetti di Regno Unito, Francia, Repubblica Ceca e Fiandre, che incoraggiano lo sviluppo di nuove infrastrutture su vecchi siti industriali e commerciali dismessi. Poi bisogna ‘attenuare’ gli effetti del consumo di suolo, sostituendo l’asfalto o il cemento con superfici permeabili e costruendo tetti verdi, come stanno facendo diverse città in Germania, Danimarca e Austria. Infine, ‘compensare’ le perdite attuando misure di recupero in altre aree o con una riqualificazione di terreni già impermeabilizzati come accade in Repubblica Ceca e in Slovacchia.

Fonte: galileonet.it

 
By Admin (from 12/08/2011 @ 14:00:46, in it - Scienze e Societa, read 3573 times)

A vederlo nell’hangar 117 dell’aeroporto di Zaventem, nei pressi di Bruxelles, ciò che stupisce dell’aereo ecologico Solar Impulse HB-SIA è l’enorme apertura alare, simile a quella di un Airbus A340. Oltre 63 metri di ali ricoperte da celle solari, che si dipanano da una fusoliera esilissima, e che fanno venire in mente una libellula gigante. Come prima cosa ci si chiede “come si può volare per 26 ore consecutive chiusi lì dentro?”. Eppure è successo e, fatto ancora più straordinario, sfruttando la sola energia del Sole: l’8 luglio 2010 questo aereo, per la prima volta nella storia, ha volato nei cieli della Svizzera anche in notturna senza bisogno di carburante. Nella mente dei suoi ideatori, Bertrand Piccard e Andrè Borschberg, il viaggio doveva dimostrare le enormi potenzialità delle energie rinnovabili e aprire la strada a nuove sfide. E, infatti, il 13 maggio scorso il prototipo ha lasciato per la prima volta il territorio elvetico per raggiungere, dopo circa 13 ore, Bruxelles. Dove è atterrato giusto in tempo per la Green Week (24-27 maggio), la conferenza annuale sulla politica ambientale europea. Il prossimo obiettivo, molto più ambizioso e da realizzare entro il 2014 con un secondo prototipo, è il giro del mondo in tappe, sia diurne che notturne.

Frutto del lavoro di tecnici, ingegneri e fisici impegnati dal 2003 nella progettazione e nelle simulazioni di volo, l’eco-aereo è un concentrato di innovazione e tecnologia. Nonostante la grande apertura alare, necessaria per aumentare la superficie ricoperta di pannelli solari, HB-SIA è super-leggero grazie ai materiali in fibra di carbonio: pesa 1.600 chilogrammi, quanto una berlina, per intenderci. Il prototipo è stato progettato per massimizzare le performance aerodinamiche e ottimizzare l’accumulo di energia. È ricoperto da 12 mila celle in silicio monocristallino, la maggior parte delle quali (più di 10 mila) si trova sulle ali, mentre la restante parte è sulla coda. Sotto le ali si trovano quattro navicelle, ciascuna contenente un insieme di batterie ai polimeri di litio, che pesano in tutto 400 chili (un quarto del peso totale dell’aereo), un motore da 10 cavalli e un’elica a due pale. L’energia solare assorbita dalle celle serve in parte ad alimentare i motori e in parte a ricaricare le batterie, in modo da garantire l’autonomia di volo durante la notte. Con i 200 metri quadrati di celle fotovoltaiche e il 12 per cento di efficienza della catena propulsiva, i quattro motori raggiungono in media la potenza di 6 kilowatt, l’equivalente di quella di uno scooter. 

“Solar Impulse non è stato costruito per trasportare passeggeri, ma messaggi”, ha spiegato in conferenza lo svizzero Bertrand Piccard, già noto alle cronache per aver fatto il giro del mondo in mongolfiera senza scalo, e figlio d’arte in fatto di primati (suo padre Jacques fu il primo a percorrere la fossa delle Marianne in batiscafo). “Vogliamo mostrare cosa si può ottenere usando le tecnologie pulite. Se promosse su vasta scala dai governi, queste possono ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili”.

Solar Impulse model airplane at Show

Solar Impulse, quindi, vuole essere un esempio e uno stimolo per promuovere politiche ambientali ed energetiche più coraggiose e improntate allo 'using less, live better', che è stato il motto di questa Green Week. Sul sito del progetto è possibile diventare sostenitori dell’iniziativa adottando una cella solare dell’aereo, oppure facendo scrivere il proprio nome sulla fusoliera. Intanto, il lavoro del team continua. I risultati ottenuti finora serviranno per progettare la seconda versione del monoposto, HB –SIB: l’impresa del suo giro del mondo prevede cinque scali con l’avvicendamento dei piloti, ognuno dei quali sarà impegnato in volo dai tre ai quattro giorni.

Fonte: galileonet.it

 

A rivelare l'evento è stata l'individuazione dei raggi gamma (Grb) relativi all'esplosione da parte del satellite Swift della Nasa. Si tratta del più antico fenomeno cosmico mai osservato e, forse, dell'oggetto più lontano nel tempo e nello Spazio conosciuto finora. Il team internazionale di astronomi che sta studiando i Grb, di cui fanno parte due italiani dell’Istituto Nazionale di Astofisica (Inaf), ha presentato al congresso nazionale dell’American Astronomical Society (conclusosi ieri a Boston) i primi dati; lo studio sarà poi pubblicato su The Astrophysisical Journal.

Dopo la segnalazione da parte del satellite Swift, avvenuta il 29 aprile del 2009, le prime osservazioni terrestri sono state effettuate grazie ai telescopi Grond e Vlt, installati sulle Ande cilene. Subito dopo è entrato in azione anche il telescopio Gemini, sul vulcano Mauna Kea, nelle Hawaii, coordinato da Antonino Cucchiara, ricercatore italiano trasferitosi da poco a Berkeley. Per dissipare ogni dubbio sulla distanza dell'esplosione è stato chiamato in causa anche il telescopio spaziale Hubble, che ha fornito un'immagine a colori del cielo nelle vicinanze della sorgente dei Grb. Tutti i dati raccolti da questi strumenti sono stati esaminati da un gruppo di ricercatori guidato da Lorenzo Amati dell’Inaf-Iasf di Bologna; Ora i risultati sono stati resi pubblici.

L'esplosione sarebbe avvenuta esattamente 13 miliardi e 104 milioni di anni fa, quando l'Universo era ancora molto giovane. I due lampi di raggi gamma che ne sono scaturiti – ognuno della durata di una decina di secondi – hanno attraversato lo Spazio raggiungendo solo qualche settimana fa la Terra, a distanza di sei giorni l'uno dall'altro. Unificati sotto il nome di GRB 090429B, si contendono il titolo di "oggetto più lontano nell'Universo" con un altro lampo di raggi gamma chiamato GRB 090423 e con due galassie: Lehnert e Bouwens (la più quotata).

“La scoperta di un’esplosione cosmica così distante, avvenuta in un’epoca in cui l’Universo aveva meno del 4 per cento dell’età attuale, è di grande interesse per lo studio della sua storia”, ha commentato Paolo D'Avanzo dell’Osservatorio Astronomico Inaf di Brera, coatuore dello studio.

Fonte: galileonet.it - Riferimenti: Inaf

 

Non solo vi è acqua sulla Luna, ma è molta di più di quanto si pensasse: sembra infatti che il nostro satellite ospiti, sotto la sua superficie, una quantità di acqua pari a quella presente nello strato superiore del mantello terrestre. A tre anni di distanza dal clamoroso annuncio della Nasa che stabiliva una volta per tutte la presenza del prezioso liquido sulla nostro satellite, lo stesso gruppo di ricercatori pubblica su Science la non meno sorprendente precisazione.

Autori dello studio sono i geologi della Brown University (Providence, Usa) e della Carnegie Institution di Washington, che per anni hanno analizzato i campioni di suolo lunare riportati dalla missione Apollo 17 della Nasa. Le loro conclusioni arrivano dall’analisi delle cosiddette inclusioni fuse, ovvero piccole bolle di roccia fusa intrappolate all'interno di cristalli nelle rocce prodotte dalle colate laviche. Si tratta quindi di campioni di magma che, non avendo subito gli effetti delle alte temperature, conservano ancora  tutte le sostanze volatili - tra cui l'acqua - alle stesse concentrazioni in cui si trovano nel mantello lunare.

Detail-luna acqua

Osservare queste pietre, formatesi con le eruzioni vulcaniche di circa tre miliardi di anni fa, è come guardare direttamente l'interno della Luna. I geologi hanno analizzato i cristalli con una microsonda ionica, uno strumento che determina la composizione chimica dei minerali, rilevando elementi presenti anche solo in tracce. Una volta misurata la concentrazione di acqua, gli scienziati sono riusciti a stimare la quantità del liquido presente nel mantello. E, sorpresa, i risultati dicono che potrebbe essere compresa tra 615 e 1410 ppm (parti per milione): cifre paragonabili a quelle del mantello terrestre (500-1000 ppm), e superiori di circa cento volte rispetto alle stime precedenti.

“Nel 2008 avevamo stabilito che il contenuto di acqua nel magma lunare avrebbe dovuto essere simile a quello della lava proveniente dal mantello superiore della Terra. Ora abbiamo provato che è realmente così”, ha detto Alberto E. Saal, tra gli autori dello studio. Tuttavia i ricercatori invitano alla cautela: questi dati non significano che la Luna sia davvero piena d'acqua, ma solo che vi sono dei luoghi in cui è più abbondante. Punto fondamentale, questo, perché altrimenti verrebbe a cadere la teoria più accreditata sull'origine della Luna, secondo cui il satellite sarebbe un frammento della Terra, sbalzato lontano dal pianeta quattro miliardi di anni fa, in seguito all'impatto con un oggetto di dimensioni simili a quelle di Marte. Un evento di tali proporzioni, infatti, avrebbe fatto evaporare tutta l'acqua presente sulla Luna. “Se tutta la Luna presentasse una quantità d'acqua equivalente a quella che abbiamo analizzato, allora la teoria dell'impatto gigante sarebbe compromessa. Come quest'acqua sia poi arrivata sul satellite, è un problema del tutto aperto”, ha concluso Saal.

Fonte: galileonet.it - Riferimenti: Science DOI: 10.1126/science.1204626; Nasa

 
By Admin (from 06/08/2011 @ 08:00:12, in it - Scienze e Societa, read 1979 times)

Detail-elettrone

Stiamo parlando di qualcosa di minuscolo, che possiede una massa e una carica elettrica pur non avendo dimensioni né una struttura interna. Insomma, un concetto abbastanza astratto, che richiede una buona dose di immaginazione. Di immaginazione non hanno invece bisogno i fisici che hanno appena eseguito una nuova e precisa misura di questa particella. E quel che si può dire, ora è che l’elettrone sembra proprio essere sferico.

Lo studio, presentato su Nature e coordinato da Jony Hudson dell'Imperial College di Londra, ha notevoli implicazioni per la fisica moderna, che spaziano dalla comprensione delle interazioni fondamentali all’evoluzione dell’Universo. Il risultato è ancora parziale, ma senza dubbio sarà di grande aiuto ai fisici teorici, in quanto le teorie più moderne delle interazioni fondamentali fanno precise previsioni sulle caratteristiche di questo curioso protagonista del mondo subnucleare.

Pur essendo la prima particella elementare scoperta (nel XIX secolo), l’elettrone ha ancora molti segreti. Sappiamo infatti che è fra le particelle elementari più leggere che si conoscano e che la sua carica elettrica è un’unità indivisibile. Tutte le particelle elementari isolate finora hanno infatti carica elettrica multipla di quella dell’elettrone. Ma le sorprese non finiscono qui: perché pur non avendo una struttura, l’elettrone può orientarsi nello spazio, essendo dotato di un momento magnetico intrinseco detto spin. In pratica, l’elettrone è come una minuscola calamita che si orienta in presenza di un campo magnetico, in modo analogo all’ago di una bussola.

Per studiare la forma dell’elettrone, i ricercatori hanno tentato di scoprire l’esistenza dell’analogo elettrico dello spin, detto momento di dipolo elettrico. Lo si può immaginare come una minuscola batteria che può ruotata da un campo elettrico. Ogni asimmetria nella forma dell’elettrone – o, più precisamente, delle sue interazioni con i campi elettrici esterni, si manifesta con la presenza di un momento di dipolo elettrico.

Finora il momento di dipolo elettrico dell’elettrone non è stato osservato, e gli scienziati come Hudson continuano a dargli la caccia, progettando esperimenti sempre più precisi. Nell’esperimento presentato su Nature, il team londinese ha utilizzato molecole di monofluoruro di itterbio (YbF), studiandone il comportamento in presenza di campi magnetici per ricavare le proprietà degli elettroni nella molecola. Pur senza ottenere un numero definito, i ricercatori hanno potuto affermare, con una precisione senza precedenti, che il momento di dipolo elettrico è compatibile con zero. In altre parole che l’elettrone potrebbe ben avere una forma sferica.

Fonte: galileonet.it - doi:10.1038/473459a - Credit immagine: Scienceheath

 

Il prof. Tullio Simoncini nel suo libro intitolato “Il cancro è un fungo”, ha raccolto alcune testimonianze che vi ripropongo e vi consiglio di leggere:

“Il Dr. Hardin Jones, docente presso l’Università della California, dopo aver analizzato per molti decenni le statistiche relative alla sopravvivenza al cancro, ha tratto la seguente conclusione: [...] quando non sono curati, i malati non peggiorano, o addirittura migliorano.” Le inquietanti conclusioni del Dr. Jones non sono mai state confutate”. (Walter Last, "The Ecologist" vol 28, n. 2, marzo/aprile 1998).
 
“Molti oncologi raccomandano la chemioterapia praticamente per qualsiasi tipo di tumore, con una fiducia non scoraggiata dagli insuccessi pressoché costanti”. (Albert Braverman, MD, "Medical Oncology in the 90s", Lancet 1991, vol 337, p. 901).

“I nostri regimi più efficaci sono gravidi di rischi, di effetti collaterali e di problemi pratici. Dopo che tutti i pazienti che abbiamo curato ne hanno pagato lo scotto, solo un’esigua percentuale di essi viene ricompensata da un effimero periodo di regressione tumorale, generalmente parziale”. (Edward G. Griffin, "World Without Cancer", American Media Publications, 1996).

“Alcuni scienziati di stanza presso il McGill Cancer Center (McGill University, Montreal, Canada) inviarono a 118 medici, esperti di cancro ai polmoni, un questionario per determinare quale grado di fiducia essi nutrissero nelle terapie che applicavano. Fu loro chiesto di immaginare di aver contratto essi stessi la malattia e quale delle sei attuali terapie sperimentali avrebbero scelto. Risposero 79 medici, 64 dei quali non avrebbero acconsentito a sottoporsi ad alcun trattamento che contenesse Cisplatino – uno dei comuni farmaci chemioterapici che applicavano – mentre 58 dei 79 reputavano che tutte le terapie sperimentali in questione fossero inaccettabili, a causa dell’inefficacia e dell’elevato grado di tossicità della chemioterapia”. (Philip Day, "Cancer: Why We're Still Dying To Know The Truth", Credence Publications, 2000).

“Il Dr. Ulrich Abel, epidemiologo tedesco della Heidelberg/Mannheim Tumor Clinic, ha esaustivamente analizzato e passato in rassegna tutti i principali studi ed esperimenti clinici mai eseguiti sulla chemioterapia [...].Abel scoprì che il tasso mondiale complessivo di esiti positivi in seguito a chemioterapia era scioccante in quanto, semplicemente, non erano disponibili da nessuna parte riscontri scientifici del fatto che la chemioterapia riesca a “prolungare in modo apprezzabile la vita dei pazienti affetti dai più comuni tipi di cancro organico.” Abel sottolinea che di rado la chemioterapia riesce a migliorare la qualità della vita, la descrive come uno squallore scientifico e sostiene che almeno l’80% della chemioterapia somministrata nel mondo è priva di qualsiasi valore. Ma, anche se non esiste alcuna prova scientifica che la chemioterapia funzioni, né i medici né i pazienti sono disposti a rinunciarvi. (Lancet, 10 agosto 1991)

Ovviamente chi vi scrive non è un medico e non può accertarsi della veridicità di certe teoria ma sembra che il prof. Simoncini abbia curato svariati tumori,anche in malati terminali,con il semplice aiuto del bicarbonato di sodio.

D’altra parte ci sono altri medici che affermanoo che l’utilizzo del bicarbonato non solo non servirebbe a nulla ma sarebbe addirittura dannoso per il nostro organismo.

Per come la vedo io la cura più importante per qualsiasi malattia è l’auto-convincimento.Se credi che una malattia sia incurabile allora sarà incurabile ma se credi di poter guarire allora guarirai.

Se volete informarvi riguardo il prof. Simoncini basta cercare i suoi video e le sue teorie tramite google.

Fonte: OsaSapere.it

Chi è il Dr. Tullio Simoncini?


Tullio Simoncini, è un medico chirurgo romano, specializzato in oncologia e in diabetologia e malattie del ricambio, è anche dottore in filosofia.   La sua nota distintiva caratteriale è l’insofferenza per la falsità e la menzogna. A  livello scientifico  ciò si traduce in una forte opposizione contro ogni tipo di conformismo intellettuale.
Se si considera il totale fallimento dell’oncologia ufficiale, si capisce la sua posizione estremamente critica nei confronti di un sistema planetario scientificamente morto e produttore di morti. È uno sportivo che cura costantemente il suo stato fisico cercando di obbedire alle elementari regole della natura: sana alimentazione, attività fisica e responsabilità morale. Pratica costantemente jogging e, quando è possibile, sci e calcio.

La sua naturale tendenza alla sintesi deriva anche da una sensibilità che tende a percepire l’armonia del “tutto”, distintamente dal valore delle parti. Questo suo istinto è stato rafforzato dalla sua propensione musicale, coltivata e rafforzata dal fatto che ha suonato vari strumenti come il pianoforte, la chitarra classica e quella moderna. Quest’ultima lo ha portato a formare, quando era studente al liceo classico e poi all’università, varie band musicali che si esibivano nel centro Italia.
Tutta la sua personalità, inoltre, è pervasa da una forte umanità, la vera molla che lo ha portato a chiedersi, di fronte allo straziante dolore dei malati, quanto misere e insignificanti fossero le nozioni fondamentali della medicina. Negli anni di professione medica ha elaborato una sua teoria sul "male del secolo".

Ha partecipato a diverse conferenze e dibattiti  ed è stato, tra l’altro, relatore al convegno "Firenze-Medicina 2000" (18-19 settembre 1999)  e  al  "Congresso Internazionale di Oncologia" di Treviso (15-16-17 ottobre 1999). Invitato a varie trasmissioni televisive di tv private, ha dibattuto le problematiche della medicina ufficiale e di quella alternativa e ha esposto le sue teorie sul cancro. Ha partecipato a importanti conferenze e in quella del 4 marzo 2000 svoltasi a Perugia, era presente come relatore anche il Prof. Luigi Di Bella. E' presidente del comitato scientifico di una federazione di associazioni per la libertà di cura. Dedicatosi da tempo alla studio e cura dei tumori, presenta una teoria molto interessante sull’eziopatogenesi della malattia cancerosa. Sostiene infatti che il cancro non dipende, come afferma la medicina ufficiale, da cause genetiche, ecc., ma è il risultato di un'affezione fungina "non visualizzata né studiata nella sua dimensione intima connettivale". Secondo la sua teoria, suffragata dai tanti casi risolti, responsabile del cancro è appunto la Candida.

 

A dimostrarlo, applicando allo studio dei fossili tecniche di tomografia computerizzata, è stato un gruppo di ricercatori statunitensi della University of Texas - Austin, del Carnegie Museum of Natural History (Pittsburgh) e della St. Mary's University (San Antonio), il cui lavoro è apparso nella rivista Science.

Detail-premammiferi-cervello-olfatto

Per la prima volta, i paleontologi statunitensi sono riusciti a scannerizzare crani fossili di due mammiferi ancestrali - il morganucodonte e l'adrocodio - così da ricrearne dei modelli interni. “Questi due animali – spiegano gli studiosi – popolavano la Cina durante il Giurassico Inferiore, tra 199 milioni e 175 milioni di anni fa”. Entrambi di piccole dimensioni (soprattutto l'adrocodio, lungo più o meno come una graffetta), sono considerati tra i primi cugini ancestrali dei mammiferi odierni per via della loro capacità cranica, di gran lunga superiore rispetto a quella dei loro contemporanei.

Il gruppo di ricerca, guidato da Tim Rowe, direttore del Laboratorio di Paleontologia dei Vertebrati dell'Università del Texas, ha trascorso diversi anni a scannerizzare più di una dozzina di crani fossili di pre-mammiferi con una tecnica chiamata tomografia computerizzata (CT) a raggi X, di solito utilizzata in ambito medico. “La tecnologia CT è indispensabile per l'analisi di fossili così fragili, poiché consente di ricreare immagini precise e tridimensionali di una cavità cranica fossilizzata senza il rischio di danneggiare il reperto”, precisano gli studiosi. Le immagini, ottenute presso la High-Resolution X-ray Computed Tomography Facility di Austin, sono state archiviate online e possono essere consultate al sito http://www.digimorph.org/.

Questi modelli tridimensionali hanno permesso ai ricercatori di osservare dall'interno il cervello e le cavità nasali di questi fossili e riscontrare un allargamento della cavità nasale e delle regioni legate all'olfatto, così come delle aree del cervello deputate a processare le informazioni olfattive. “Entrambe le caratteristiche – spiegano nell'articolo – indicano un miglioramento della capacità olfattiva nei pre-mammiferi”.

Lo studio, tuttavia, non si limita a esplorare il ruolo dell'olfatto nell'evoluzione cerebrale dei mammiferi, ma cerca anche di ricostruirne una storia “a puntate”. Secondo Rowe e colleghi, infatti, il cervello dei mammiferi si sarebbe evoluto in almeno tre fasi, di cui il miglioramento del senso dell'olfatto non è che la prima e la più significativa. Gli altri due momenti di sviluppo, spiegano i ricercatori, sarebbero correlati all'aumento della sensibilità tattile dovuta ai peli corporei e al miglioramento della coordinazione neuromuscolare o dell'abilità di produrre movimenti muscolari più precisi utilizzando i sensi.

Gli autori, infatti, ipotizzano che il pelo (di cui erano dotati sia l'adrocodio che il morganucodonte) servisse originariamente a “guidare” gli animali e ad aiutarli a muoversi all'interno di piccole fessure senza farsi del male. Questa accentuata sensibilità tattile avrebbe favorito la formazione di intricati campi sensoriali nella neocorteccia del cervello mammifero. Infine, poiché la neocorteccia è coinvolta sia nella percezione sensoriale sia nella produzione dei comandi del movimento, il suo sviluppo avrebbe contribuito alla messa a punto delle capacità motorie e della coordinazione neuromuscolare dei pre-mammiferi.

“Grazie a questo studio disponiamo ora di un quadro generale del cervello mammifero ancestrale”, precisano i ricercatori. “Ora siamo in grado di elaborare ipotesi più dettagliate sulla sequenza di eventi che ha portato all'evoluzione cerebrale dei mammiferi e sull'importanza dei diversi sistemi sensoriali”. “Prossimamente – ha concluso Rowe – esploreremo la successiva diversificazione del cervello e dei sistemi sensoriali. Questo ci permetterà di scoprire nuovi segreti su come abbiano fatto i mammiferi a sviluppare cervelli molto grandi e capacità sensoriali estremamente specifiche, come ad esempio l'elettrorecezione negli ornitorinchi e i sonar biologici di balene e pipistrelli”.

Fonte: GalileoNet.it - Riferimenti: Science DOI: 10.1126/science.1206915 - Credits: Mark A. Klingler/Carnegie Museum of Natural History

 

Il progetto che ci vede coinvolti in prima fila si chiama Thebera ed è stato presentato lo scorso 17 maggio a Milano. Perché l’Egitto e perché l’Italia? Il primo detiene il triste primato mondiale di diffusione di epatite C (causa del 40% circa di tutti i trapianti di fegato), mentre noi abbiamo una delle reti trapiantologiche migliori d’Europa, oltre alle competenze e l’esperienza che mancano ai medici nordafricani.
Lo scorso giugno è stata varata la prima direttiva europea in ambito trapiantologico che esorta alla cooperazione internazionale per la diffusione delle competenze medico-scientifiche nel bacino del Mediterraneo. E Thebera è il primo programma con cui si passa dalle parole ai fatti, con l’Italia a fare da apripista. Il progetto, finanziato con 1.200.000 euro (600.000 a partner) dal VII Programma Quadro, è partito nel novembre 2010 e durerà due anni. “Durante questo periodo verranno formati gruppi da 20 operatori ciascuno - già selezionati – che partiranno dal Theodor Bilharz Research Institute, a Giza, alla volta dell’Italia; qui saranno accolti nelle unità trapiantologiche di vari ospedali”, spiega Franco Filippini direttore del Dipartimento di trapiantologia epatica, epatologia dell'Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana, e presidente del Sisqt (Società per la sicurezza e qualità dei trapianti). Pisa è infatti capofila ma, oltre la Toscana, sono coinvolte altre regioni, tra cui Emilia Romagna, Lazio, Campania, Veneto, Marche e Piemonte.

Detail-europa_2020

Nella seconda fase del progetto, invece, saranno i medici italiani ad andare in Egitto, per continuare la formazione. Le équipe multidisciplinari dovranno essere preparate su tutti gli aspetti delle malattie epatiche, dal loro riconoscimento fino al trapianto del fegato: saranno quindi coinvolte diverse figure professionali, dai radiologi agli epidemiologi ai chirurghi, e verranno fornite le strumentazioni necessarie per la diagnosi. “È un progetto innovativo e pilota – sottolinea Alessandro Stefani, del consiglio scientifico del progetto – e si sta anche testando la tipologia di approccio a questi paesi”.

Ma perché l’Eu si preoccupa del Nord Africa? “La nuova politica europea non vuole più soltanto esportare i modelli di eccellenza, ma condividerli e integrare i paesi del Mediterraneo – risponde Stefani – e creare reti”. Inoltre si tratta di fare prevenzione, anche economica: “Il problema in Egitto è grave e investe la sfera sociale. Queste persone verranno a curarsi anche da noi. Invece di aspettare, possiamo pensarci prima, fare prevenzione, aiutarli a sondare la gravità della malattia epatica e a curarsi”, continua Stefani.

L’Italia non solo è il paese ideale per il know-how e le somiglianze con l'Egitto (eseguiamo circa mille trapianti di fegato l’anno e abbiamo un tasso di diffusione del virus dell’epatite C molto elevato), ma anche per la vicinanza geografica: siamo la porta dell’Unione verso il Nord Africa, in vista di altri progetti di cooperazione internazionale nell’ambito delle politiche sanitarie della strategia Europa 2020. In questi due anni dovremo fornire la prova dell’importanza e della validità di tali programmi.

Fonte: galileonet.it

 
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