Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
In quanti modi si può scrivere 4 come somma di numeri interi? 1+3, 2+2... E 10.000? In quanti modi si può scrivere? Un giovane scienziato americano è venuto a capo di un problema, banale solo in apparenza, che tiene in scacco i matematici da secoli.
Ken Ono, un ricercatore della Emory University di Atlanta, in Georgia, è venuto a capo di uno degli enigmi matematici più resistenti della storia: la funzione di partizione. A prima vista sembra un problema banale: la partizione di un numero intero n è una sequenza di numeri interi la cui somma dà come risultato n. Per esempio, il numero 4 può essere scritto come somma di interi in 5 modi diversi:
4=4 4=3+1 4=2+2 4=2+1+1 4=1+1+1+1+1
Si dice quindi che la partizione di 4 è 5 e si indica come P(4)=5
La sequenza delle partizioni dei primi numeri naturali è quindi P(0)=1, P(1)=1, P(2)=2, P(3)=3, P(4)=5, P(6)=7, P(8)11, P(9)=15, P(10)=42. Come si può vedere il valore della funzione di partizione P(n) cresce molto in fretta al crescere di n: per il numero 100 è maggiore di 190.000.000 e tende rapidamente all'infinito (Per vedere la sequenza delle partizioni dei numeri fino a 10.000 clicca qui). A prima vista la crescita non segue alcuno schema nè moltiplicativo nè additivo e per secoli i matematici hanno tentato di trovare un'equazione che permettesse di calcolare il valore di P(n) per qualunque intero n. Ci aveva provato nel XVIII secolo Eulero, che era riuscito a mettere a punto un metodo di calcolo ricorsivo lento, complesso e inapplicabile a numeri grandi.
Giallo matematico
Nel XX secolo i matematici Ramanujan e Hardy svilupparono una formula che funziona abbastanza bene per numeri inferiori a 200, ma, contenendo la costante π, offre risultati approssimativi e con un numero infinito di decimali. Nel 1919 Ramanujan, poco prima di morire, lasciò un misterioso appunto nel quale indicava una non meglio specificata schematicità secondo le potenze di 5, 7, 11 nella sequenza dei numeri di partizione. Nel 1937 il tedesco Hans Rademacher riesce a sviluppare un'equazione che permette di calcolare l'esatto valore di partizione: peccato che per funzionare richieda di sommare infiniti numeri che hanno un numero infinito di decimali. "Sono numeri macabri" commenta Ono.
Lo schema del disordine
Ma dopo mesi di tentativi falliti Ken Ono e il suo team hanno trovato la chiave di lettura della misteriosa sequenza: i numeri di partizione si comportano come i frattali. In apparenza sono disordinati e senza alcuna congruenza, ma se analizzati a livello "micro" sono composti da schemi ordinati che si ripetono. Le sequenze delle partizioni sono insomma periodiche e si ripetono identiche a intervalli precisi. Ramanujan aveva ragione e il segreto di questo schema è nelle proprietà di divisibilità dei numeri di partizione. Ono e i suoi collaboratori si sono spinti oltre e grazie a una serie di intuizioni geniali sono riusciti a sviluppare una formula che permette di calcolare P(n) per ogni numero intero pari a n. "I risultati di Ono sono sorprendenti" ha commentato George Andrews, presidente della American Mathematical Society. "Ha ideato una superstruttura matematica inimmaginabile fino a qualche anno fa. È un fenomeno"
Cui prodest?
Interessante ma... a cosa serve tutto questo? In realtà, oltre che essere un affascinante problema matematico, le partizioni hanno molte implicazioni in diverse aree dell'algebra, della fisica, della statistica, e dell'economia.
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Fonte: Focus.it
Un ricercatore svizzero è riuscito a mettere in relazione i mutamenti climatici con i cicli di ascesa e declino delle civiltà antiche. È tutto scritto negli alberi. Basta avere abbastanza legno a disposizione.
La storia delle civiltà antiche non si studia solo sui manoscritti e negli scavi archeologici, ma anche leggendo… gli alberi. Un gruppo di scienziati svizzeri ha analizzato oltre 9.000 manufatti in legno degli ultimi 2.500 anni ed è riuscito a stabilire un collegamento tra l’ascesa e il declino delle popolazioni europee e gli improvvisi mutamenti climatici che hanno caratterizzato le diverse epoche. I periodi con estati calde e umide hanno coinciso con prosperità e pace, mentre quelli secchi e instabili hanno accompagnato sconvolgimenti politici e guerre. Ma come può tutto questo essere scritto nel legno?
Anelli di storia
Ulf Buntgen, un paleoclimatologo dello Swiss Federal Research Institute for Forest, Snow and Landscape, ha studiato l’influenza del clima sulla crescita degli alberi dell’Europa Centrale negli ultimi due secoli e in particolare la formazione degli anelli di crescita. Ha scoperto che negli anni più floridi, quando acqua e terra sono più ricche di sostanze nutritive, gli alberi crescono con anelli grandi e dai bordi ben definiti. Al contrario, negli anni di siccità, gli anelli sono più stretti e fitti. I ricercatori hanno poi utilizzato queste informazioni per studiare gli anelli di crescita presenti nei manufatti d’epoca e in alcuni alberi fossilizzati. Hanno potuto così ricostruire in modo molto preciso la cronologia climatica degli ultimi 2500 anni. "Le estati più umide e calde hanno coinciso con i periodi di massimo splendore dell’epoca romana e medievale, mentre la maggior instabilità climatica degli anni tra il 250 e il 600 d.C. ha accompagnato il declino dell’Impero, le sollevazioni popolari e le migrazioni" spiega il ricercatore alla BBC. E in effetti nel III secolo Roma ha dovuto fronteggiare, oltre a un periodo di grande siccità e carestia, le invasioni barbariche e una pesante crisi economica in molte province della Gallia. Lo studio di Buntgen non si limita ad aprire la strada a un nuovo modo di studiare la storia, ma permette di costruire modelli in grado di spiegare gli effetti delle mutazioni climatiche su società ed economia.
Fonte: Focus.it
Con le lenti a contatto non si correggono più solo i difetti della vista o il colore degli occhi, ma si effettuano diagnosi e... si leggono i risultati in realtà aumentata.
Se fissando negli occhi una bella fanciulla (o un bel fanciullo) doveste scorgere circuiti integrati e telecamere non spaventatevi: non state per baciare un cyborg, ma probabilmente qualcuno che indossa le lenti a contatto intelligenti, un dispositivo di nuova concezione a metà strada tra la medicina e i...videogames. Queste singolari lenti sono infatti dotate di una serie di sensori in grado misurare il livello glicemico e la pressione dell’occhio in pazienti affetti da diabete o glaucoma ma anche di proiettare immagini direttamente sulla retina di chi le indossa creando un vero e proprio display biologico che può essere utilizzato in applicazioni di realtà aumentata.
Lacrime... dolci
L’idea non viene dal set di Star Trek ma da Babak Parviz, un ricercatore della Washington University di Seattle, che già nel 2008 aveva creato il primo prototipo di lente intelligente, o smart lens, installando un microscopico led rosso su un materiale trasparente bio compatibile. Utilizzando la stessa tecnologia ha costruito, qualche anno dopo, la prima lente a contatto in grado di indicare a un diabetico il livello di glicemia. Il dispositivo contiene un minuscolo sensore elettronico e misura in modo continuo e senza bisogno di aghi o prelievi, il livello di glucosio delle lacrime che corrisponde perfettamente a quello del sangue. Una serie di led, impercettibili quando sono spenti, visualizza l’informazione direttamente sull’occhio dell’utilizzatore che in questo modo può dosare in modo più preciso i farmaci per tenere sotto controllo la malattia. Fantascienza? No, realtà.
Occhio alla pressione
Lo scorso settembre Sensimed, uno spin-off dell’Istituto Federale Svizzero per la Tecnologia, ha lanciato la prima versione commerciale di smart lens: serve per tenere sotto controllo il glaucoma, una malattia che provoca un aumento della pressione all’interno del bulbo oculare e che può danneggiare, se non opportunamente curata, il nervo ottico e la vista. Le super lenti misurano costantemente la curvatura dell’occhio, direttamente correlata con la pressione che c’è al suo interno, e trasmettono l’informazione via radio a un dispositivo portatile indossato dal paziente. La smart lens è alimentata dal campo elettromagnetico generato da una piccola antenna attaccata con un cerotto al volto del paziente. Funziona insomma come le etichette antifurto dei supermercati che sono alimentate dal campo elettromagnetico delle antenne poste all’uscita. Una volta indossate, chi le porta presenta una qualche somiglianza con Robocop: "una lente colorata potrebbe ovviare al problema" spiegano i ricercatori della Sensimed, "ma in questo momento non è la nostra priorità".
Fonte: Focus.it
Il cervello dell'uomo si sta rimpicciolendo. E secondo alcune teorie stiamo diventando... sempre meno intelligenti. Eppure dal punto di vista evolutivo avere il cervello piccolo ha i suoi vantaggi.
Le misure non contano. Almeno, non sempre. Il nostro cervello per esempio, a un certo punto dell'evoluzione ha smesso di crescere e ha inziato a diventare sempre più piccolo. Accadde 20-30.000 anni fa, quando sulla Terra comparve il più dotato, dal punto di vista della massa cerebrale, di tutta la specie "homo": l'Uomo di Cro-Magnon. Le evidenze fossili hanno dimostrato che il suo cervello era del 10% più grande rispetto al nostro. Ma che senso ha, dal punto di vista evolutivo, questo strano andamento a fisarmonica delle misure cerebrali? Gli esperti hanno elaborato diverse teorie.
Un po' tonti e tanto buoni
Secondo David Geary, docente di Scienze Psicologiche all'Univeristà del Missouri, sarebbe la prova che stiamo diventando sempre meno intelligenti: la crescente complessità delle interazioni e dei rapporti sociali che ha contraddistinto la storia umana, ha reso sempre meno necessaria l'intelligenza del singolo come elemento indispensabile alla riproduzione e alla sopravvivenza. Ma non tutti sono così pessimisti. Ben Hare, antropologo al Duke Univeristy Institute for Brain Sciences, ritiene che la riduzione delle misure cerebrali sia un vantaggio evolutivo: "Un cervello più piccolo indica che la selezione naturale ha privilegiato comportamenti non aggressivi" spiega ai media. Č accaduto a numerose specie animali quando sono state addomesticate dall'uomo, per esempio i cani: hanno perso la componente aggressiva e hanno evidenziato alcune caratteristiche fisiche come uno scheletro più snello, quindi meno adatto al combattimento, una fronte più piatta e un cervello più piccolo.
Cooperativo come una scimmia
Hare ha condotto un interessante studio sugli scimpanzè e sui bonobo: queste scimmie, dal punto di vista evolutivo, sono molto simili all'uomo ma sono molto diverse tra loro. I bonobo hanno il cervello più piccolo rispetto agli scimpanzè e sono meno aggressivi. Non solo: pur essendo entrambe molto abili nel superare facili prove, per esempio procurarsi del cibo azionando dei meccanismi, i bonobo hanno una maggior predisposizione alla cooperazione finalizzata al raggiungimento del risultato. "L'aspetto più interessante degli studi sugli animali e sul comportamento umano è che aiutano a fare luce sul nostro lato più nascosto" spiega Hare.
Fonte: Focus.it
Mangiare insetti per salvare il Pianeta? È la tesi di un ricercatore olandese: introdurre formiche, cavallette, farfalle e grilli nell'alimentazione contribuirebbe seriamente a ridurre i gas serra derivanti dall'allevamento di bestiame.
Per vedere qualcuno mangiare insetti, oggi sembrano esserci solo due possibilità: guardare un tizio in tv che lo fa per sopravvivere nei posti più strani, o spingerci verso luoghi esotici dove il prelibato e nutriente pasto a base di proteine è visto con curiosità o disgusto solo dall'occidentale occhio turistico.
Ma una dieta a base di insetti è tutt'altro che incredibile. È ecosostenibile! Uno studio della Università di Wageningen in Olanda, ha infatti scoperto che la carne di insetto è nutriente come una bistecca (e questo a dire il vero era già noto), ma soprattutto è a impatto zero.
Questione di emissioni
Calcolando la quantità di gas serra (nel caso specifico metano e ossido di azoto) prodotta dalle 5 specie diverse di insetti e comparandola a quella di bovini e suini, i ricercatori hanno dimostrato che gli insetti inquinano, al chilo, circa il 99% in meno dei ruminanti e almeno la metà dei suini. Un bel risparmio, soprattutto considerando che l'industria della carne bovina e suina è colpevole di circa il 18% delle emissioni globali di CO2 (e quindi concausa del cambiamento climatico). Anche se lo studio non tiene conto dell'intero ciclo produttivo necessario per la grande distribuzione, in linea di principio la carne di insetto ha tutte le carte in regola per sostituire quella bovina nella futura società sostenibile. Un solo dubbio resta: siamo davvero sicuri di preferire una manciata di locuste a una succosa fiorentina?
Autore: Riccardo Pavone - Fonte: Focus.it
Anche il mondo della ricerca diventa social e apre le porte (virtuali) a tutti coloro che vogliono contribuire attivamente al progresso della scienza.
Ken-ichi Ueda e Scott Loarie, due dottorandi al Carnagie Institute di Stanford, hanno sviluppato qualche tempo fa iNaturalist.org, una community di cittadini-scienziati, che ha per obiettivo il controllo della diffusione delle specie animali viventi e l’analisi dell’evoluzione degli ecosistemi in risposta ai mutamenti climatici. L'idea alla base del progetto è semplice: se passeggiando per un bosco o per un parco di città si avvistano una pianta o un animale, una volta tornati a casa ci si logga sul sito e si registra la segnalazione. L’enorme mole di dati che iNaturalist sta raccogliendo permetterà ai ricercatori di monitorare con grande precisione come si stanno modificando gli ecosistemi di tutto il mondo.

Pappagalli metropolitani
L'aumento delle temperature e il cambiamento nelle destinazioni d’uso delle terre stanno infatti facendo spostare flora e fauna anche molto lontano dalle loro zone d’origine. Nei parchi delle nostre città è per esempio sempre più frequente avvistare pappagalli e altri uccelli di origine tropicale: si tratta dei discendenti di animali fuggiti dalle gabbie che sono riusciti a riprodursi allo stato libero e che stanno colonizzando nuovi habitat. Lo stesso si può dire per le nutrie che popolano la Pianura Padana o per i pesci siluro sempre più diffusi nei fiumi del nord Italia. Per contribuire alla ricerca di Ueda e Lorie non è necessario essere degli esperti: se anche non si sa cosa si è visto, sul sito è disponibile una guida che aiuta, un passo dopo l’altro, ad effettuare il riconoscimento. E nel giro di qualche settimana iNaturalist sarà disponibile anche in formato app per iPhone: permetterà di inviare le proprie segnalazioni in tempo reale corredate di foto.
Tutti scienziati
iNaturalist non è comunque il primo progetto di ricerca che tenta di coinvolgere il grande pubblico: già da parecchi anni la NASA, il CERN e altre istutuzioni scientifiche hanno chiesto la collaborazione degli appassionati di tutto il mondo per analizzare grandi moli di dati. I più interessanti attualmente in essere sono Seti@home, per l’analisi dei segnali radio provenienti dallo spazio Malariacontrol.net, una gigantesca simulazione elettronica per lo studio della malaria e della sua diffusione Stardust: per l’analisi della polvere di stelle HiRiSe: per la ricerca della sonda Polar Lander caduta su Marte nel 1999 e mai più ritrovata Planethunters.org: per la ricerca di pianeti al di fuori del Sistema Solare
Fonte: Focus.it
Diciamolo chiaramente: il nostro intestino è pieno zeppo di Escherichia coli, il batterio alla ribalta in questi giorni a causa di un’epidemia che, al momento, ha mietuto 14 vittime in Germania e contaminato già qualche migliaio di persone. Cioè, non è il fatto di essere infettati da E. coli che è pericoloso: da pochi giorni dopo la nascita il nostro intestino si riempie di questo batterio, che in realtà ci protegge (occupando tutti gli spazi) da altre infezioni nocive e che ha pure un ruolo importante nella sintesi della vitamina k2, importante per il nostro organismo. Certo E. coli può essere nociva se invece che nell’intestino viene a trovarsi altrove (per esempio nel tratto urinario). Inoltre i ceppi che sono benefici per una specie (l’essere umano) possono essere dannosi per un’altra specie (le mucche per esempio) e viceversa.

Ma come esattamente E. coli diventa mortale? Per capirlo ci sono alcune cose fondamentali da sapere sui batteri. I batteri non rispettano le barriere dettate dalle specie, o meglio tendono a comportarsi come un superorganismo composto da tanti tipi di cellule, piuttosto che come singoli individui ognuno appartenente a una data specie. Nella fattispecie questo significa che ogni batterio ha l’abitudine di scambiarsi pezzetti di DNA con gli altri. Č un meccanismo diverso da quello usato dalle specie sessuate, che attraverso la fusione dei gameti creano un nuovo individuo con un DNA che è un mix di mamma e papà. Nel caso dei batteri si tratta di piccoli frammenti di DNA.
C’è più di un meccanismo attraverso il quale i batteri effettuano questi scambi ma nel caso dell’E. coli responsabile della recente epidemia si parla di “coniugazione batterica” e i frammenti di DNA scambiati sono “extra”, non hanno cioè funzioni vitali, ma garantiscono alcune funzionalità in più che possono risultatre utili in certe situazioni (una specie di “app” per batteri?). I pezzettini di DNA in questo caso si chiamano plasmidi. Pare che i batteri siano molto avidi nel raccogliere quanti più plasmidi possibile e non fanno molta attenzione da dove essi provengano .
Sono questi plasmidi che possono trasformare E coli in un “mostro”. I plasmidi per esempio possono garantire al batterio la resistenza a un antibiotico. O ancora, ed è il caso recente, possono fargli produrre una tossina, letale per l’ospite – in questo caso si tratta di una tossina normalmente prodotta da un altro enterobatterio, la Shigella dysenteriae. Il nome non lascia molti dubbi, questa tossina ha conseguenze devastanti nel nostro organismo: attacca le mucose dell’intestino (ma anche nei reni e nei polmoni). La gran massa di cellule morte provoca la diarrea sanguinante e così via.
Normalmente Shigella dysenteriae non ha campo libero nel colonizzare l’intestino, perché è già zeppo di E. coli, dunque la tossina per entrare deve usare proprio quest’ultima specie come cavallo di troia. Così è successo. Ancora non è chiaro come la verdura (sono stati accusati pomodori, cetrioli e lattuga provenienti da un paio di aziende spagnole) si sia infettata (o meglio l’acqua contenuta in questa verdura). Si attendono i risultati delle analisi condotte su campioni di terreno delle aziende incriminate.
PS: un aggiornamento sui cetrioli. La Germania ha ufficialmente dichiarato che non è la verdura spagnola ad essere la causa dell’infezione.
Fonte: oggiscienza.wordpress.com; Autore: Federica Sgorbissa
Che memoria hanno gli animali? Che cosa sono in grado di ricordare? C'è una relazione tra dimensioni corporee, e quindi del cervello, e facoltà mnemoniche? Etologi, ricercatori e addestratori, anche se per motivi diversi, se lo domandano da sempre.

Un recente studio condotto da Marusha Dekleva dell'Università di Utrecht ha recentemente dimostrato che gli scimpanzè sono in grado di ricordare "il chi", "il cosa" e "il dove", ma hanno qualche problema con "il quando".
Teste dure
La ricercatrice ha mostrato a nove scimmie quattro barattoli diversi per forma e colore: uno conteneva yogurt e succo di mele, di cui gli animali sono golosi, uno del pepe rosso, mentre gli altri due erano vuoti. Ha esposto i primati ai contenitori a intervalli di tempo sempre più lunghi: 15 minuti, un'ora e poi quattro ore, cambiandone di volta in volta la posizione e il contentuto. Gli scienziati si aspettavano che gli scimpanzè, solitamente molto veloci nell'apprendere, modificassero il loro comportamento in funzione dell'evolversi della situazione, ma così non è stato. Gli animali ricordavano molto bene la disposizione e il contenuto dei barattoli come era stato presentato loro all'inizio del test e hanno continuato a tentare di servirsi da quelli che, qualche ora prima, contenevano il loro cibo preferito. Non sono stati quindi in grado di seguire l'evoluzione temporale degli avvenimenti. Secondo la Dekleva agli scimpanzè manca la memoria episodica, una memoria a lungo termine che permette di tenere traccia degli eventi della vita. «La memoria episodica è collegata alla capacità di pinificare il futuro ed è probablimente uno degli elementi che ha dato all'uomo il suo vantaggio evolutivo» spiega la scienziata.
Memoria... da ghiandaia
Ma la capacità di collocare nel tempo un ricordo non è esclusivamente umana: ce l'hanno anche alcuni uccelli. Lo ha scoperto Nicola Clayton, un ricercatore di Cambridge, in alcuni test sulle ghiandaie di macchia. I volatili hanno dimostrato di saper stimare il trascorrere del tempo in relazione allo stato di conservazione del loro cibo preferito.
Alcuni ricercatori contestano però la validità di questi test: gli scimpanzè, a differenza delle ghiandaie, non sono soliti fare scorte di cibo e non hanno quindi interesse a tener traccia del passare delle ore in funzione dell'alimentazione. Sarebbe stato molto più interessante insegnare loro su quali piante trovare la frutta in diversi momenti della giornata.
Fonte: Focus.it
Si è sempre pensato che l’uomo avesse qualcosa in più rispetto agli altri animali: più geni, più evoluzione, più complessità. Ma un’analisi approfondita del genoma dell’uomo, messo a confronto con quello di altre specie a noi imparentate (scimpanzè e macaco) ha invece rivelato che la nostra evoluzione si basa sulla sottrazione, e non solo sull’addizione.
Cacciatori del Dna perduto
Alcuni ricercatori della Stanford University (USA) hanno (virtualmente) appaiato il patrimonio genetico delle tre specie e hanno così scoperto che, in alcune zone dei cromosomi, quello che ci distingue dalle altre specie sono le delezioni, cioè appunto le mancanze. Quello che manca, inoltre, non sono geni veri e propri (cioè lunghe stringhe di Dna che codificano per una proteina) ma regioni regolative. Sono tratti di Dna non codificanti, che cioè hanno il compito di modulare i geni veri e propri, a volte aumentandone l’azione, altre volte bloccandola. L’analisi di queste delezioni, in totale 510, ha portato anche a scoprire cosa accade quando queste regioni non sono presenti.

Così il pene perse le spine
Una delle più curiose ha avuto come conseguenza la perdita di spine sul pene, strutture presenti in molti mammiferi, con funzioni ancora non del tutto chiarite. Secondo i ricercatori, questa mancanza ha portato nell’uomo a un diverso rapporto di coppia, più volto alla monogamia di altre scimmie; questo a sua volta ha indotto anche a un aumento delle cure parentali.
Mancanze vantaggiose
Ma la delezione più importante potrebbe essere quella di un tratto di Dna accanto a un gene implicato nella soppressione del tumore. Poiché questo gene agisce soprattutto nel cervello, l’abolizione del controllo della crescita cellulare (perché questo in fondo è un tumore, una crescita cellulare eccessiva) potrebbe aver portato a un aumento delle dimensioni del cervello stesso, con ovvie conseguenze per l’evoluzione umana.
Causa-effetto o selezione naturale?
Non c’è però necessariamente un rapporto causa effetto tra queste perdite e l’evoluzione umana; la spinta scatenante avrebbe potuto essere “esterna”, dovuta cioè alla selezione naturale; modifiche del comportamento alla specie umana – per esempio cambiamenti ambientali o spostamenti – avrebbero potuto portare alla perdita di alcune regioni regolative dei geni perché non più necessarie alla nuova situazione, e non l’opposto. Capire la nostra evoluzione non significa quindi solamente studiare ciò che noi abbiamo in più rispetto agli altri primati, ma anche cercare quel che manca, non quel che c’è.
Fonte: Focus.it - Si ringrazia Mauro Mandrioli per la consulenza scientifica.
Preferite la destra o la sinistra? Non stiamo parlando di politca ma di... mani (e anche di piedi). Il mancinismo, cioè la tendenza a utilizzare in tutto o in parte il lato sinistro del corpo, riguarda più del 10% della popolazione mondiale. Eppure di questa particolare condizione, che riflette la struttura e il funzionamento del cervello, si sa ancora molto poco.

Accusati in passato di essere in rapporto con il diavolo e predisposti ai peggiori crimini, i mancini sono sempre stato guardati con un certo sospetto dalla maggioranza destra. E fino a non molti anni fa la scuola imponeva a bambini mancini una sorta di riabilitazione forzata, obbligandoli a scrivere e mangiare con la loro mano più debole. Ora la situazione sociale dei mancini è molto migliorata (http://web.tiscalinet.it/thelefthand/Atleti.htm) ma le origini di questa condizione restano avvolte nel mistero.
MANCINI CELEBRI Charlie Chaplin (attore) Tom Cruise (attore) Robert DeNiro (attore) Bob Dylan (musicista) Kurt Cobain (musicista) Paul McCartney (musicista) Paul Simon (musicista) Phil Collins (musicista) Michelle Platini (calciatore) Ruud Gullit (calciatore) Valentino Rossi (pilota MotoGP) Jack lo Squartatore (serial killer) Billy the Kid (fuorilegge) Albert Einstein (scienziato) Ayrton Senna (pilota F1) Diego A. Maradona (calciatore)
Tutta questione di cervello
Il mancinismo è legato all’asimmetria del cervello: la distribuzione delle funzioni tra emisfero destro e sinistro è fondamentale per lo sviluppo del linguaggio, della memoria a lungo termine e della creatività. Nei destri tutto ciò che è legato al linguaggio ha sede nell’emisfero sinistro mentre nella maggioranza dei mancini queste funzioni sono distribuite in entrambi gli emisferi, prevalentemente nella parte destra. Si sa inoltre che il mancinismo è ereditario: nel 2007 un gruppo di ricercatori di Oxoford, nel corso di uno studio sulla dislessia, ha scoperto che il gene LRRTM1 ha un ruolo nello sviluppo del mancinismo. Clyde Francks del Max Planck Institute for Psycholinguistic ha evidenziato come questo gene sia correlato anche con lo sviluppo della schizofrenia. Ma ciò non significa che i mancini sono malati psichiatrici: "I geni influiscono sulle modalità di comunicazione tra neuroni" spiega Francks, "ma la correlazione tra queste due condizioni è ancora tutta da approfondire".
Simmetrie asimmetriche
Il mancinismo è insomma una questione complessa: "Ha una base genetica ma come molti altri aspetti, per esempio il peso e l’altezza, è influenzato anche da fattori esterni" afferma Daniel Geschwind, genetista e neuropsichiatra all’Università della California. In realtà tra i due estremi dei completamente destri e dei completamente sinistri esiste un ampio spettro di vie di mezzo: c’è per esempio chi mangia con la destra e scrive con la sinistra e vice versa: "In generale" afferma Geschwind "i mancini hanno un cervello meno asimmetrico, con una maggior distribuzione delle funzioni tra i due emisferi. Il modo corretto di pensare a loro è come dei 'non destri'" spiega il professore. Il mancinismo sembra dunque essere un’ interessante porta d’accesso allo studio della complessa anatomia del cervello: ecco perchè gli scienziati da anni cercano di metterlo in relazione con le patologie più diverse: dalla schizofrenia alle difficoltà di apprendimento, dalla dislessia alle deficienze immunitarie.
Ominidi mancini
Il mancinismo risale alla notte dei tempi: secondo Geshwind l’analisi delle pitture rupestri e dei manifatti preistorici permette di stabilire che migliaia di anni fa, anche tra i nostri progenitori c’era una percentuale consisente di mancini. "Probabilmente l’uso della sinistra offriva qualche vantaggio evolutivo e per questo motivo si è mantenuto fino a noi. Ma quale fosse, non ci è ancora dato saperlo".
Fonte: Focus.it
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