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La diffusione delle informazioni elettroniche sui pazienti spalanca le porte a una nuova branca della ricerca medica. Anche se le potenzialità sono enormi, è necessario eliminare il problema dei dati sensibili
By Admin (from 11/01/2012 @ 11:05:42, in it - Scienze e Societa, read 2281 times)

Svezia, 1945: i 660 pazienti della clinica psichiatrica Vipeholm, a Lund, vengono sottoposti a una particolare dieta a base di zucchero e carboidrati per valutare le tipologia e la modalità di insorgenza delle carie. In 10 anni di studio clinico le arcate dentarie di ogni singolo paziente vengono praticamente polverizzate. Stati Uniti, 2004: l’equipe di ricerca della Food and Drug Administration analizza i dati clinici di 1,98 milioni di pazienti americani per valutare la possibilità che l’antidolorifico Vioxx, assunto da 20 milioni di americani, stia causando infarti letali. In pochi mesi lo studio di Grahm evidenzia un’incidenza di cardiopatie triplicata tra chi assume il farmaco, senza sottoporre un solo paziente a uno studio clinico controllato.

Questi due esempi, per quanto appartenenti a campi diversi, danno una chiara idea di come la ricerca medica sia cambiata (e stia cambiando) grazie alla digitalizzazione dei dati clinici dei singoli pazienti, sempre più spesso raccolti e rigorosamente archiviati dagli istituti medici, dagli enti di ricerca e dai singoli ambulatori dei medici di base.

C’è chi la chiama e-medicine, chi preferisce cloud medicine, il termine corretto sarebbe data mining based research. Ma il nome in realtà non ha tutta questa importanza, quello che conta sono le potenzialità insite in questo nuovo ambito di ricerca.

Il data mining utilizzato in ricerca medica si basa sull’utilizzo di algoritmi di apprendimento automatico, la cui utilità è quella di sfrondare significative quantità di dati in cerca di pattern che possano suggerire relazioni causali altrimenti impossibili da individuare. Facciamo un esempio: il farmaco A, se preso da solo, funziona efficacemente come antidepressivo, il farmaco B invece aiuta a ridurre il colesterolo. C’è la possibilità che, se presi in contemporanea, questi farmaci diano luogo a un pericoloso effetto collaterale che porta all’aumento del tasso glicemico sanguigno. Se abbiamo a disposizione un numero sufficientemente vasto di dati clinici, possiamo utilizzare degli algoritmi per ottenere una valutazione statistica dell’incidenza di questo effetto collaterale.

L’esempio che abbiamo fatto non è inventato, è il noto caso dell’aumento della glicemia dovuto alla somministrazione combinata di Paxil e Pravachol. Per valutare un simile pericolo (piuttosto serio se il paziente ha il diabete) non ci si sarebbe potuti affidare a un normale studio clinico, a meno di voler coinvolgere migliaia di pazienti, ottenerne il consenso informato, rimborsarli adeguatamente e aspettare mesi, se non anni, per ottenere dati rilevanti.

Insomma, l’obiettivo principale della cloud medicine è quello di velocizzare significativamente la ricerca in campo medico.

L’entusiasmo intorno a questo strumento cresce a vista d’occhio, non passa mese senza che spunti un nuovo algoritmo che consenta un’analisi più rapida ed efficace delle cartelle cliniche elettroniche, oltre che confronti incrociati con i dati genetici del paziente, i trattamenti farmacologici a cui è sottoposto e, in alcuni casi, il suo stile di vita. Lo sviluppo di questi nuovi algoritmi va di pari passo con quello di nuove tecnologie di indagine che stanno rendendo sempre più facile ottenere dati relativi al genoma e al proteoma dell’individuo.

Si potrebbe credere di essere a un passo da una radicale rivoluzione in campo medico. Purtroppo, invece, lo scenario in cui i dati clinici di milioni di persone verranno sfruttati per velocizzare lo sviluppo di terapie per malattie incurabili è ancora piuttosto lontano.

Gli ostacoli che a oggi rallentano la diffusione della cloud medicine sono diversi. In primo luogo c’è un problema di quantità. Per quanto la digitalizzazione delle cartelle cliniche sia alla portata di gran parte dei paesi occidentali, gli istituti che si dedicano ad una rigorosa archiviazione dei dati clinici dei propri pazienti sono ancora troppo pochi. Basti pensare che in Italia solo 4 ambulatori su 10 sono informatizzati (e solo 3 hanno una connessione adsl). E negli Stati Uniti, dove ci si aspetterebbe un terreno più fertile, la situazione non è poi così migliore: due ricerche condotte nel 2009 e nel 2010 rivelano infatti che, nonostante almeno la metà dei medici americani facciano uso di un sistema di archiviazione elettronico delle cartelle cliniche, solo il 10% si serve di un’archiviazione semantica degli Electronic Health Records (Ehr), funzionale a ricerche di data mining.

Il secondo ostacolo ha a che fare con la privacy e, naturalmente, con i giganteschi interessi economici che gravitano attorno alla ricerca medica e farmacologica. Se la cloud medicine può aiutare a determinare in poche settimane se l’assunzione combinata di due farmaci crei pericolosi effetti collaterali, può anche essere sfruttata per velocizzare il processo di approvazione di un nuovo farmaco. Se i dati sensibili che condividete in rete sono considerati oro per alcune compagnie della Sylicon Valley, provate a immaginare quanto può valere la vostra cartella clinica per una casa farmaceutica. Insomma gli interrogativi, in termini di privacy si sprecano: quali e quanti dati clinici possono essere resi pubblici? Le cloud mediche dovrebbero essere pubbliche o private? In che modo verrà assicurata l’anonimità delle diagnosi e dei trattamenti?

Mentre i fautori più entusiasti della cloud medicine si scervellano per trovare un sistema per eliminare il problema privacy, una valida alternativa potrebbe arrivare dal self-tracking.

I dati che migliaia di pazienti annotano di propria sponte su piattaforme come CureTogether, rappresentano una risorsa enorme per la ricerca medica, e se il numero di self-tracker aumentasse in modo significativo, la cloud medicine assumerebbe la forma di uno sconfinato laboratorio di ricerca sparso per la rete.

Ma anche in questo caso, un interrogativo rimane: nel caso in cui i dati condivisi spontaneamente dai pazienti portassero allo sviluppo di un nuovo rivoluzionario farmaco, chi sarebbe il detentore morale del brevetto? I pazienti che hanno condiviso la propria condizione, oppure la casa farmaceutica che ci macinerà sopra cifre milionarie?

Fonte: daily.wired.it