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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 

Secondo la denuncia lanciata sul Guardian da Paul Paquet, ricercatore della Raincoast Conservation Foundation, il governo canadese vorrebbe adottare questa strategia per salvare una delle popolazioni di renne più minacciate dell’intero paese, e della quale il lupo e l’orso sono i principali predatori.

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Strategia che, allo stesso tempo, servirebbe a garantire la continuazione delle attività industriali della zona.
In realtà, il piano di recupero per il caribù proposto dall’Environment Canada è ancora in fase di discussione e si sofferma appena sul controllo dei predatori come possibile scappatoia. Tuttavia, stando alle parole del ministro Peter Kent, rimedi alternativi come la costruzione di aree protette delimitate da barriere sarebbero economicamente proibitivi per lo Stato di Alberta, e in ogni caso verrebbero ugualmente contestati perché inadeguati. Ecco quindi che, agli occhi del governo canadese, l’abbattimento intensivo dei lupi (le stime parlano addirittura di cento individui ogni quattro renne da salvare) rimarrebbe l’unica ipotesi attuabile: d’altra parte, come sottolinea lo stesso Kent, “il pubblico ha già accettato strategie simili altrove, come la caccia delle alci nel Newfoundland e Labrador”.

L’abbattimento programmato degli animali è, in effetti, uno strumento di controllo normalmente utilizzato nei parchi e nelle aree protette e, per quanto crudele, può essere necessario per tutelare gli ecosistemi. "Ma, sebbene in Canada il lupo non sia una specie protetta, il suo prelievo in natura non è mai previsto", spiega Luigi Boitani, ordinario di Biologia e conservazione della fauna selvatica presso La Sapienza di Roma, che da anni studia l’ecologia del lupo: "In ogni caso, per qualsiasi specie, non è mai uno strumento necessario. La natura non ne ha bisogno, è piuttosto l’essere umano che lo rende necessario per indirizzare l’ecosistema in una certa maniera. Inoltre, i numerosi esperimenti condotti in America sui lupi hanno mostrano come non sempre l'abbattimento funzioni: dipende, infatti, dalla densità di prede e predatori e dal contesto ecologico; in questo caso in particolare, manca uno studio che accerti la reale situazione”.

Insomma, si stratta di una scelta che oltre ad essere scientificamente inappropriata, potrebbe rivelarsi inutile in questo contesto. Infatti, come si legge sul piano del ministero dell’ambiente canadese e come denunciano i biologi della conservazione, nello Stato di Alberta la principale minaccia di estinzione per i caribù è rappresentata da diversi fattori - alcuni non del tutto chiari - il più importante dei quali è la distruzione delle foreste boreali, cominciata oltre un secolo fa e oggi dovuta soprattutto allo sfruttamento delle sabbie bituminose per la produzione del petrolio. “Dunque - spiega Paul Paquet - i caribù stanno scivolando da tempo verso l’estinzione; e non per quello che fanno i lupi o gli altri predatori, ma per ciò che l’essere umano ha già fatto”. Così, perseguitare i lupi per salvare le renne, anziché tutelare l’habitat, permetterebbe di “salvare” anche i profitti dell’industria petrolifera.

È propro la degradazione dell’ambiente, infatti, ad alterare il normale equilibrio tra preda e predatore: la scarsità di cibo e di spazio disponibili riduce le probabilità di sopravvivenza e di riproduzione delle renne, le costringe in aree circoscritte e le rende, infine, facili prede dei lupi. Ma abbattere questi ultimi, in ogni caso potrebbe non essere la soluzione. Come sottolinea Paquet, se anche si annientassero le popolazioni locali, altri individui arriverebbero dai territori vicini per sostituirle. In quest’ottica, quindi, anziché cercare un capro espiatorio per mettere in atto un rimedio che potrebbe rivelarsi solo temporaneo, sarebbe più sensato adottare una strategia che sia in grado di frenare la vera minaccia – per esempio limitare l’impatto delle attività umane sull’ecosistema e favorire l’integrazione tra essere umano e natura - provando a risolvere davvero il problema.

Fonte: galileonet.it

 
By Admin (from 19/10/2011 @ 08:00:48, in it - Osservatorio Globale, read 2742 times)

Imparare come trasportare un singolo elettrone tra due punti distanti tra loro, senza che questo perda informazione lungo il tragitto, è il primo (difficile) passo per la realizzazione dei computer quantistici. Ci sono vicini alcuni ricercatori dell'Università di Cambridge, che in uno studio pubblicato sulle pagine di Nature spiegano come siano riusciti a far “rimbalzare” fino a sessanta volte una particella carica da una parte all'altra di un filo elettrico. Una tecnologia che potrebbe essere usata per controllare il trasferimento di qubit (l'unità minima di dati in questi elaboratori) tra i componenti dei computer del futuro.

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Se si pensa a un cavo percorso da corrente probabilmente si immagina all'interno di esso un flusso ordinato di elettroni che viaggiano in una direzione precisa, da un capo all'altro del filo. La realtà però è decisamente diversa: ognuno di essi nel suo tragitto segue un complicato percorso a zig zag, lungo il quale può incontrare o girare intorno ad altre particelle cariche. Nell'interagire con l'ambiente che lo circonda, l'elettrone può smarrire l'informazione che sta trasportando: in questo caso si dice che lo stato quantico che lo rappresenta ha perso coerenza, e la particella non può più essere usata come messaggero di dati. Per ovviare al problema, gli scienziati britannici hanno dunque pensato di costruire una sorta di tappeto volante per intrappolare il singolo elettrone. In pratica si tratta di sollevarlo a livelli di energia superiori a quelli delle altre particelle, e lo si fa così viaggiare indisturbato per tratti relativamente lunghi.

Secondo l'idea dei ricercatori, infatti, per poterlo trasportare, il corpo carico deve venire inizialmente intrappolato in una piccola buca chiamata punto quantico (in inglese quantum dot), dentro un pezzo di un semiconduttore di arseniuro di gallio (GaAs). All'interno di quest'ultimo, il potenziale elettrostatico (ovvero il valore dell'energia del campo elettrico percepito in un punto da una particella carica) viene poi plasmato grazie a una brevissima onda sonora, che passa proprio attraverso la buca. Il segnale, che dura appena qualche miliardesimo di secondo, crea un canale ad energia più alta di quella degli altri elettroni, che collega il punto quantico su cui si trova l'elettrone a un altro quantum dot lontano qualche milionesimo di metro. L'onda che accompagna il potenziale elettrostatico preleva dunque l'elettrone e lo fa scivolare nel canale di energia, permettendogli di raggiungere l'altra buca, dalla quale viene nuovamente risucchiato.

“Il movimento è simile a quello che si ha nell'esofago quando ingoiamo un boccone e la contrazione successiva dei nostri muscoli accompagna il cibo dalla bocca allo stomaco”, ha spiegato Rob McNeil, uno degli autori. Una volta che l'elettrone è stato spostato, un'altra onda sonora uguale alla precedente può farlo avanzare ulteriormente, mentre una inviata in direzione contraria può riportarlo alla posizione di partenza: con questo metodo i ricercatori sono riusciti a mandare un singolo elettrone avanti e indietro per più di sessanta volte lungo una distanza totale di quasi 0,25 millimetri (una distanza pressoché macroscopica, rispetto alle dimensioni delle particelle).

“Questo tipo di tecnologia permetterà ai computer quantistici di funzionare”, ha commentato Chris Ford, coordinatore della ricerca. “Molti team nel mondo stanno lavorando per costruire parti di questi nuovi elaboratori, che promettono prestazioni molto maggiori di quelli classici. Ma per ora pochi sforzi erano stati fatti per lo sviluppo di metodi che connettessero le diverse componenti, come la memoria e il processore. Se riusciremo a dimostrare che tramite questa tecnologia l'elettrone effettivamente non perde l'informazione che trasporta, il metodo potrà essere poi utilizzato proprio per spostare i qubit all'interno dei circuiti di un computer quantistico".

Riferimenti: Nature doi: 10.1038/nature10444

 

Succede anche per i dispositivi elettronici, che un giorno potrebbero funzionare grazie ai protoni invece che ai tradizionali flussi di elettroni. Il cambio di paradigma non è affatto casuale, perché permetterebbe ai nuovi circuiti di comunicare direttamente con gli organismi viventi, in cui le cellule si scambiano informazioni attraverso il passaggio di ioni e protoni, appunto. Lo spiega uno studio pubblicato su Nature Communications dai ricercatori dell’Università di Washington, coordinati dal nanotecnologo italiano Marco Rolandi.

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Uno dei componenti fondamentali dei circuiti biologici è lo ione idrogeno (H+), ovvero un nucleo atomico composto da un solo protone che spostandosi produce una vera e propria corrente. Questa serve ad alimentare alcune funzioni dell'organismo, tra le quali la produzione di Atp, la molecola che e' usata per trasferire energia nel nostro corpo. Perché, allora, non costruire un circuito artificiale in grado di interagire con i sistemi viventi? Il gruppo di Rolandi ci ha pensato su, e ha realizzato il primo prototipo di dispositivo a corrente protonica sfruttando un materiale adatto a condurre gli ioni H+. La scelta è caduta sul chitosano, un polimero ricavato dal gladio dei calamari, un organo primitivo rimasto dopo la scomparsa del guscio.

Il transistor a protoni realizzato nei laboratori della Uw misura cinque micrometri - appena un ventesimo dello spessore di un capello - e poggia su un supporto di silicio. Il circuito è in grado di veicolare una corrente di protoni il cui flusso può essere acceso e spento attraverso un interruttore. Il piccolo dispositivo non è ancora compatibile con gli organismi viventi e dovrà essere adattato prima di poter essere testato per questo scopo.

Di fatto, però, si è aperta la strada verso un nuovo campo della ricerca, quello della bionanoprotonica. In futuro, gli scienziati potranno costruire modelli di transistor biocompatibili da applicare a qualsiasi tessuto organico. Lo scopo? Magari quello di costruire un'interfaccia artificiale attraverso cui monitorare, o addirittura coadiuvare, le funzioni vitali degli esseri viventi.

Riferimento: doi:10.1038/ncomms1489
Foto credits: Marco Rolandi, University of Washington

 
By Admin (from 15/10/2011 @ 11:00:52, in it - Osservatorio Globale, read 1713 times)

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Immaginate di diventare invisibili, non agli occhi delle persone ma quantomeno ai controlli della polizia o degli addetti alla sicurezza negli aeroporti. In che modo? Semplicemente cancellando ciò che vi rende unici e riconoscibili: le impronte digitali. Un gruppo di ricerca coordinato da Eli Sprecher della Tel Aviv University, in Israele, ha infatti individuato il gene che controlla la formazione delle impronte digitali; una scoperta che permetterebbe, almeno in teoria, di diventare “invisibili” bloccando l’espressione di questo pezzetto di Dna. Lo studio è stato pubblicato sull’American Journal of Human Genetics.

La scoperta dei ricercatori risale al 2007, quando a una donna svizzera in procinto di attraversare il confine con gli Stati Uniti venne chiesto di rilasciare le impronte digitali. Gli agenti rimasero scioccati: la donna non ne aveva. Fu così che la comunità medica scoprì la adermatoglifia, un’anomalia in cui sono assenti sia le impronte digitali sia le creste e i solchi (dermatoglifi) sul palmo delle mani, sulla pianta e sulle dita dei piedi. Le persone colpite da adermatoglifia – pochi i casi conosciuti, sono solo quattro le famiglie note che ne soffrono - hanno anche meno ghiandole sudoripare (ma senza alcuni effetti sulla salute). 

Le impronte digitali si formano completamente entro le ventiquattro settimane successive alla fecondazione, ma i ricercatori non conoscono i fattori che ne controllano lo sviluppo. Per scoprirlo, Sprecher e la sua equipe hanno condotto un’analisi genetica sui membri di una famiglia svizzera, nove dei quali privi di impronte digitali. Comparando i diversi profili genetici, i ricercatori hanno così scoperto che chi soffriva di adermatoglifia aveva, nel Dna delle cellule della pelle, un minor numero di copie del gene SMARCAD1.

Il gene in questione può esistere in forme leggermente differenti, ognuna delle quali è espressa in una parte diversa dell’organismo. Ebbene, secondo i risultati dello studio quella attiva nella pelle (leggermente più corta delle altre) regola appunto la formazione delle impronte digitali durante lo sviluppo del feto. Capire come questo avvenga sarà il prossimo obiettivo di Sprecher e il suo gruppo di ricerca.

Riferimenti: The American Journal of Human Genetics doi:10.1016/j.ajhg.2011.07.004 - via Galileonet.it

 

Ma dando uno sguardo allo studio pubblicato su The Lancet, non si impiega molto a capire che siamo indietro. Infatti, secondo l’analisi condotta da Rafael Lozano e Christopher Murray dell’Institute for Health Metrics and Evaluation (IHME) dell’Università di Washington, solo nove dei 137 paesi in via di sviluppo riusciranno a raggiungere entro il 2015 gli obiettivi 4 e 5, ovvero la riduzione della mortalità materna e di quella dei bambini sotto i cinque anni di vita.

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Non tutto appare negativo. Secondo lo studio - che ha preso in esame anche fonti di dati fino ad oggi escluse dalle altre rilevazioni e che ha utilizzato nuovi modelli statistici - i progressi sul fronte della salute materno-infantile non sono mancati in questi ultimi anni. In 125 nazioni la mortalità materna è scesa di molto dal 2000, anno in cui è stata firmata la Dichiarazione del Millennio, e negli ultimi cinque anni i miglioramenti sono stati particolarmente importanti. Nello stesso lasso di tempo, in 106 paesi, i tassi di mortalità infantile si sono abbassati dal 2000 al 2011 più velocemente di quanto abbiano fatto nei precedenti dieci anni. I decessi legati alla gravidanza e al parto sono passati da circa 409mila nel 1990 a poco più di 270mila nel 2011. E dal 2005 al 2011 la mortalità materna è scesa di oltre 73mila unità, sebbene con differenze tra le varie nazioni: il 28,6 per cento di questo declino è avvenuto in India, mentre Etiopia, Pakistan, Nigeria, Indonesia, Cina e Afghanistan contribuiscono per il 32 per cento.

Buoni segnali anche per il tasso di mortalità infantile, passato dagli 11 milioni del 1990 ai poco più di 7 milioni del 2011. Ma anche in questo caso, il progresso non è stato uniforme. In Cambogia, Ruanda, Ecuador, Malesia e Vietnam, per esempio, la mortalità tra i bambini con meno di cinque anni di vita è scesa del 5 ogni anno e anche di più, mentre a livello globale il declino è del 2,6%. L’Africa Sub-sahariana fa storia a sé, visto che qui la mortalità infantile è addirittura aumentata: dal 33% del 1990 al 49% del 2011.

Considerati nel loro insieme, questi dati - dicono gli autori dell’analisi - sono il segno che gli sforzi messi in campo per l’istruzione delle donne, la prevenzione delle malattie infettive e l’implementazione dei programmi sanitari stanno funzionando. Tuttavia, pochi paesi riusciranno a raggiungere i traguardi stabiliti per il miglioramento della salute materno-infantile. Secondo i calcoli, in 31 raggiungeranno l’obiettivo numero 4, la riduzione di due terzi della mortalità infantile tra il 1990 e il 2015, mentre l’obiettivo 5, cioè la riduzione del tasso di mortalità materna di tre quarti, sarà alla portata di appena 13 nazioni. Solo 9 dei 137 paesi in via di sviluppo (Cina, Egitto, Iran, Libia, Maldive, Mongoli, Perù, Siria e Tunisia), invece, raggiungeranno entrambi gli obiettivi.

Parte del declino nella mortalità materno-infantile è legata al miglioramento della prevenzione del trattamento dell’Hiv/Aids, alla diffusione di zanzariere trattate con insetticida nelle aree dove è diffusa la malaria e agli investimenti nei programmi sanitari e nelle cliniche rurali. Esistono poi altre importanti cause, come le emorragie post-partum, responsabili del 35% dei decessi, e la pre-eclamsia o ipertensione gestazionale, responsabile di un altro 18%. Per abbassare queste percentuali, è stata lanciata oggi, in sede di Assemblea Generale Onu, l’iniziativa “MSD per le madri” della farmaceutica Merck. Il progetto prevede un investimento di 500 milioni di dollari in dieci anni per abbattere i tassi di mortalità.

Riferimento: The Lancet doi:10.1016/S0140-6736(11)61337-8

 

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Nel periodo che segue la nascita di un figlio, infatti, gli uomini sembrano andare incontro a un notevole abbassamento dei livelli di testosterone. Lo si apprende da uno studio della Northwestern University, appena pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas), che si basa sui dati di oltre 600 giovani filippini, seguiti per un periodo di cinque anni (dai 21 ai 26 anni di età).

I volontari, tutti in buona salute, avevano preso parte a uno studio di popolazione sulla nutrizione. Nel lasso di tempo considerato, circa un terzo di loro era diventato padre per la prima volta. Analizzando i valori di testosterone (attraverso campioni salivari) nel 2005 e poi, di nuovo, nel 2009, i ricercatori hanno osservato un abbassamento medio di questo ormone compreso tra il 26 e il 34 per cento (a seconda delle misurazioni mattutine o serali) rispetto agli altri partecipanti. Questi valori sembrano variare anche in base al tempo dedicato al neonato: l’abbassamento era maggiore in quei papà che spendevano almeno tre ore della giornata nelle cure parentali.

È la prima volta che viene misurata la produzione di testosterone di un campione così ampio prima e dopo la nascita di un figlio. E i dati sembrano avallare un’ipotesi interessante: l’interazione con i neonati interferirebbe con la produzione ormonale, modificando quindi la fisiologia dei neo papà. Precedenti studi avevano già mostrato che i livelli di testosterone nei padri sono mediamente più bassi di quelli degli altri uomini della stessa età e senza figli. Nessuno, però, aveva chiarito finora se la paternità fosse la causa di quanto osservato, o se gli uomini in questione avessero già in partenza dei valori più bassi.

I risultati sembrano chiarire la questione, considerando anche che gli uomini con i più alti livelli dell’ormone nel 2005 sono risultati quelli con la più alta probabilità di diventare padri. La spiegazione ipotizzata dai ricercatori chiama in causa l’etologia: se elevati livelli di testosterone appaiono correlati a una maggiore probabilità degli uomini di trovare una partner, i tratti comportamentali associati all’ormone – l’aggressività e la competitività – sembrano meno utili quando c’è da prendersi cura della prole.

Tra tutti i mammiferi, l’essere umano è quello che accompagna più a lungo la crescita dei figli: il nuovo studio afferma che anche il maschio si sarebbe biologicamente evoluto per questo compito. “Le esigenze di un bambino appena nato richiedono molte energie psicologiche e fisiche - hanno sottolineato gli autori - il nostro studio indica che la biologia di un uomo può cambiare in maniera sostanziale per contribuire a soddisfarle”.

Fonte: galileonet.it - Riferimento: doi: 10.1073/pnas.1105403108

 

Una stella cadente fotografata dalla ISS il 13 agosto scorso.

Una stella cadente fotografata dalla ISS il 13 agosto scorso.

Scenario apocalittico: un meteorite colpisce la Terra, solleva un'onda alta centinaia di metri, oscura il cielo per centinaia di anni... paura eh? No, nessuna paura. Ma un momento da vivere, con molta più tranquillità, insieme a Focus all'Osservatorio Astronomico di Cà del Monte a Cecima (PV).
Perché l'8 ottobre 2011 sarà un giorno speciale: e non un pericoloso e gigantesco meteorite (come quelli immaginati nei film Deep Impact e Armageddon) ma uno sciame meteorico anomalo, quello delle Draconidi, colpirà la Terra tra le 19 e le 21.

Nessun pericolo per noi, qualche timore, come ha spiegato la Nasa, per i nostri satelliti artificiali. Le meteore sono affascinanti: e potremo vederle insieme.

Basterà tornare su questa pagina e potrete vedere, in diretta, la porzione di cielo interessata dallo sciame. Il tutto, grazie alla tecnologia della nostra All Sky Cam.

Fonte: Focus.it

 

L’idea è di un programma non profit chiamato MyMicrobes, che ha lanciato il suo social network sulla flora intestinale lo scorso 8 settembre. La stravagante iniziativa è dello stesso gruppo di ricercatori che a inizio anno è riuscito a identificare le tre classi (enterotipi) in cui si suddivide la totalità dei batteri presenti nell’intestino umano. Quello studio, apparso su Nature il 20 aprile scorso, mirava a individuare una possibile relazione tra una classe specifica di batteri e una particolare predisposizione a sviluppare malattie infiammatorie e obesità.

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Il social network nasce proprio con lo scopo di raccogliere il maggior numero di dati possibili e continuare le ricerche sulle tre tipologie di batteri e la loro diffusione nel mondo. La community on line è aperta a tutti e dedicata in particolare a chi soffre di disturbi gastro-intestinali. Sulle pagine del sito gli iscritti possono condividere le loro storie, scambiarsi suggerimenti e, forse, trovare le risposte ai loro problemi. “L’idea - spiega Peer Bork, biochimico presso l'European Molecular Biology Laboratory di Heidelberg - è venuta in seguito alle numerose e-mail che abbiamo ricevuto”.

Dopo la registrazione sul sito, ai partecipanti allo studio verrà recapitato un libretto di informazioni e un kit per il prelievo di campioni biologici, che saranno inviati prima a Parigi, per l’estrazione del Dna, e poi a Heidelberg per il sequenziamento. Il costo di questa procedura è di circa 2.000 euro, cui va aggiunta la quota di iscrizione (minimo 1.451 euro), più le spese di spedizione. A questo punto i dati entreranno a far parte, in maniera del tutto riservata, del database di MyMicrobes. Finora circa 100 persone hanno dichiarato il proprio interesse verso l’iniziativa, ma nessuno si è ancora iscritto. Affinché lo studio sia significativo, i ricercatori avranno bisogno di circa 5.000 partecipanti.

Il gruppo non fa promesse a chi partecipa al progetto, ricordando che la ricerca è ancora agli inizi e, sebbene si siano trovati dei legami tra alcuni marcatori genetici degli enterotipi e l'obesità, non vi è ancora nulla che possa suggerire specifici trattamenti.

Riferimenti: Nature doi:10.1038/news.2011.523; - doi:10.1038/nature09944 (2011)

 

Se il virus colpisce il bruco, infatti, quest’ultimo si arrampica in cima agli alberi in cerca di cibo, dove muore sciogliendosi, liberando così milioni di particelle virali che, cadendo sulle foglie sottostanti, infetteranno altri individui.

Ora, per la prima volta, alcuni entomologi della Pennsylvania State University (Stati Uniti) sono riusciti a identificare nel Dna del virus il gene che manovra il comportamento del bruco. Lo studio, guidato da Kelli Hoover, è stato pubblicato su Science.
La larva della limantria trascorre di norma le sue giornate nascosta nella parte bassa della vegetazione per evitare i predatori, arrampicandosi sui rami alti solo di notte. I bruchi infettati dal baculovirus, al contrario, sfidano il pericolo, scalando i tronchi in pieno giorno. In natura sono noti altri casi di parassiti che sfruttano l’ospite in modo simile a questo per trarne vantaggio (vedi anche Galileo: Formiche zombie per colpa di un fungo), tuttavia i meccanismi genetici alla base di questi fenomeni, probabilmente diversi da specie a specie, restano ancora da scoprire.

Nel caso della limantria, Kelli Hoover e colleghi hanno focalizzato l’attenzione sul gene egt dei baculovirus, capace di inibire la muta del bruco ospite e di prolungarne il periodo di nutrimento. Per verificare la responsabilità del gene nell’inusuale arrampicata, i ricercatori hanno infettato delle larve di L. dispar con sei forme diverse di baculovirus: due varianti selvatiche isolate in natura, due ricombinanti create in laboratorio (nelle quali il gene egt era stato "spento" con l’intromissione di altri geni) e due nelle quali egt era stato reinserito dopo essere stato inattivato. Una volta chiuse in lunghe bottiglie di plastica, solo le larve infettate con il baculovirus selvatico o con il gene egt reinserito mostravano il comportamento anomalo e morivano. Quelle con il gene disattivato, al contrario, si arrampicavano ma poi tornavano a morire sul fondo; mentre alcuni bruchi di controllo non infettati si comportavano in modo normale.

Secondo gli scienziati, il risultato ottenuto fornisce una spiegazione genetica e molecolare del meccanismo impiegato da alcuni virus per controllare gli ospiti e trarne vantaggio, come spiega Kelli Hoover: “Negli individui infettati con il virus selvatico, i livelli dell’ormone della muta risultavano essere notevolmente bassi, ed è dunque ragionevole concludere che, in questo sistema, il gene egt sia responsabile della manipolazione del comportamento del bruco”.

Riferimenti: Science, vol. 333 (6048): 1401 - Credits imagine: Michael Grove

 
By Admin (from 02/10/2011 @ 08:00:39, in it - Osservatorio Globale, read 1932 times)

“Torna in libertà dopo solamente 15 anni”. Sappiamo poco della sua vicenda giudiziaria ma i titoli di quotidiani e telegiornali sembrano invitarci a commentare la notizia con la scontata laconica riflessione: “non esiste la certezza della pena”. La reazione sarebbe diversa se ci venisse spiegato che il protagonista dei fatti non è affatto libero, ma sconta la sua pena fuori dal carcere, lavorando all’esterno come previsto dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. La leggerezza con cui i media si occupano di carcere e di pene è diventata inaccettabile.

Lo hanno fatto notare, per prime, proprio due giornaliste, Ornella Favero direttrice di Ristretti Orizzonti e Susanna Ripamonti direttrice di Carte Bollate, che da anni si impegnano a diffondere informazioni puntuali sul carcere e sulle persone detenute, selezionando accuratamente i termini più appropriati, evitando con la stessa attenzione i toni pietistici e quelli allarmistici. Proprio all’interno delle redazioni carcerarie, quella padovana di Ristretti e quella milanese di Carte Bollate, è nata la proposta di un codice etico deontologico per i giornalisti che “trattano notizie concernenti cittadini privati della libertà o ex-detenuti tornati in libertà”: la “Carta di Milano del carcere e della pena”, approvata già dagli ordini di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto.

Detail-giornalismo

Nelle due pagine del testo, che verrà presentato sabato 10 settembre a Palazzo Marino, non troviamo solo regole di buon senso o suggerimenti per una condotta politicamente corretta, ma esplicite informazioni, solitamente trascurate, che un giornalista dovrebbe impegnarsi a dare per far emergere anche l’aspetto rieducativo della pena, e non solamente quello punitivo: “dati statistici che confermano la validità delle misure alternative” (perché in pochi sanno che il tasso di recidiva tra le persone che hanno usufruito di misure alternative è dello 0,1% mentre per chi rimane in carcere è del 70%), “dati attendibili e aggiornati che permettano una corretta lettura del contesto carcerario” (67.000 detenuti per una capienza regolamentare di 45.000, circa la metà dei quali senza condanna definitiva), per fare degli esempi. Inoltre, è necessario "garantire al cittadino privato della libertà, di cui si sono occupate le cronache, la stessa completezza di informazione, qualora sia prosciolto".

“Troppo spesso i media parlano di carcere e di persone private della libertà in modo disinformato e le conseguenze ricadono pesantemente sui soggetti coinvolti. La Carta stabilisce due princìpi fondamentali che il giornalista è chiamato a rispettare: non è ammessa l’ignoranza delle leggi e deve essere rispettato il diritto all’oblio. Un giornalista non può confondere una misura alternativa decisa dal giudice per espiare la pena con la libertà di un detenuto, così come non può ripetutamente tornare a parlare del reato commesso da una persona che sta affrontando la delicatissima fase del reinserimento sociale”,  spiega Ripamonti. Resta ovviamente salvo il diritto di cronaca “per quei fatti talmente gravi per i quali l’interesse pubblico alla loro riproposizione non viene mai meno”, recita la Carta.

Fonte: Galileonet.it - Credit immagine: Genesio (Flickr)

 
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By Napasechnik
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