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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
By Admin (from 29/01/2011 @ 08:00:46, in it - Scienze e Societa, read 1757 times)

Le cure ai pazienti anziani sono sempre più spesso inadeguate: con l'aumentare dell'età, nonostante aumentino di pari passo le malattie, diminuiscono drasticamente le prescrizioni adeguate di farmaci e visite.

 

E così oltre la metà degli anziani che soffre di almeno una patologia cronica è a rischio per questa riduzione, tanto che dopo un infarto addirittura il 76% dei pazienti anziani non assume terapie sufficienti, e la loro mortalità è tripla rispetto a quella di chi viene invece curato correttamente. Sono i dati diffusi ieri a Milano dalla Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (Sigg), nel presentare il proprio Congresso nazionale che si svolgerà a Firenze dal 30 novembre al 4 dicembre.

Si tratta dei "primi risultati della più ampia indagine mai svolta in Italia sulla condizione degli anziani - dice la Sigg, che ha collaborato con la Fondazione Sanofi-Aventis - e sul livello delle cure offerte agli over 65".

 

Sono stati setacciati gli archivi delle Asl relativi a 440 mila assistiti, e dai dati è emerso che il 70% degli anziani (8,4 milioni sui circa 12 milioni totali) soffre di almeno una patologia cronica tra quelle più comuni. Metà di questi, 4,2 milioni, non riceve cure adeguate. Il 12% dei pazienti con meno di 70 anni non si vede prescritti gli antipertensivi, ma la percentuale sale al 30% negli over 85.

Le statine (i principali farmaci per abbassare il colesterolo) hanno un crollo deciso, passando dal 12% di pazienti non trattati con meno di 70 anni al 50% degli over 85. Gli antiaggreganti non vengono prescritti al 17% degli over 85, mentre a quelli con meno di 70 anni le mancate prescrizioni si fermano solo al 3 per cento.

"Questi dati - spiega Niccolò Marchionni, presidente Sigg - mostrano una mancata o insufficiente utilizzazione, nei pazienti anziani, di terapie e interventi che potrebbero mantenerli in salute, anche se talora é il paziente stesso che segue le terapie con maggior difficoltà o dimentica di assumerle".

Per garantire agli anziani un adeguato trattamento "é necessaria una maggiore convinzione dei medici a impegnarsi nella tutela della loro salute. La spesa sanitaria annua pro capite per terapie e accertamenti in pazienti con recente infarto miocardico, ad esempio, si riduce da 1.016 euro fra i 65 e i 69 anni a 453 euro negli ultra 85enni. Ciò, almeno in parte - aggiunge - deriva dall'errata convinzione che una persona molto anziana non tragga significativi benefici dalle terapie. Non è affatto così e le terapie farmacologiche si dimostrano altrettanto efficaci anche negli ultra85enni". "Lo scarso interesse nei confronti dei bisogni di salute degli anziani che emerge dall'indagine - commenta Marco Scatigna, direttore generale della Fondazione Sanofi-Aventis - é indicativo di un atteggiamento pericolosamente discriminatorio: un paziente anziano cui non vengono prescritti farmaci ed esami può sembrare un risparmio per la collettività ma, alla fine, è vero l'opposto".

 

"I pazienti curati male - prosegue Scatigna - si ricoverano e si ammalano molto più degli altri per cui, a lungo andare, spendiamo molto di più per rimediare a terapie e diagnosi inadeguate che per trattare come si deve chi ha bisogno delle cure, indipendentemente dalla sua età. E questo - conclude - senza considerare la violazione del principio di equità distributiva delle risorse e l'eccesso di sofferenze individuali conseguenti al sotto-trattamento".

Fonte: americaoggi.info

 
By Admin (from 08/02/2011 @ 08:00:54, in it - Scienze e Societa, read 2085 times)

Uno studio rivela come le aziende farmaceutiche riscrivano gli articoli scientifici per gonfiare le virtù di una medicina o nasconderne i danni collaterali. Ed è sulla base di questi "falsi" che spesso vengono fatte le ricette.

Gli articoli scientifici che riportano studi clinici controllati riguardanti nuovi farmaci rappresentano la base per redigere articoli più divulgativi che influenzano le prescrizioni da parte dei medici che raramente leggono gli articoli originali. Le industrie colgono questa opportunità per rendere gli articoli il più possibile favorevoli al nuovo farmaco, facendoli revisionare - o addirittura scrivere completamente - da esperti che rimangono anonimi, sono i cosiddetti "scrittori fantasma". Molto spesso non si tratta di modificare i risultati, ma di presentarli in modo attraente, enfatizzando piccoli risultati e minimizzando l'eventuale presenza di effetti tossici.

Particolare attenzione viene riservata al riassunto del lavoro, perché in generale questo non è oggetto di molto interesse da parte dei valutatori, mentre rappresenta la parte dell'articolo che più frequentemente è letta e determina l'impressione finale da parte del lettore.

Questo modo di operare è evidentemente non-etico e non riguarda solo le industrie interessate, ma anche i ricercatori clinici che accettano di firmare lavori scientifici scritti da altri. Uno studio pubblicato su "Plos Medicine" analizza i documenti messi a disposizione da parte della Giustizia Federale degli Stati Uniti che riguardano in particolare parecchi articoli scritti per commentare gli effetti favorevoli della terapia ormonale in menopausa da parte di una ditta specializzata nella stesura di articoli scientifici a pagamento. I ghost writer cercavano di mitigare il rischio di tumore della mammella dovuto all'uso della terapia ormonale magnificando benefici cardiovascolari e prevenzione della demenza, della malattia di Parkinson (e persino delle rughe, senza ovviamente alcuna base scientifica).

Tutto ciò non può che nuocere all'appropriatezza delle terapie, ma serve invece a gonfiare le prescrizioni e i profitti. È importante che i medici siano critici nella lettura della documentazione che ricevono, controllando i dati se possibile sui lavori originali. Occorre anche che il Servizio Sanitario Nazionale dissemini informazioni oggettive per ridurre la sproporzione oggi esistente fra messaggi dell'industria farmaceutica e informazione indipendente. 

Fonte: espresso.repubblica.it - Silvio Garattini, direttore Istituto Mario Negri di Milano

 
By Admin (from 10/02/2011 @ 08:00:50, in it - Scienze e Societa, read 2487 times)

Dopo il panico suscitato negli anni 90 dall’epidemia di BSE, l’Encefalopatia Spongiforme Bovina, del prione non si è più parlato. Ma i ricercatori hanno continuato il loro lavoro, uno di essi è il prof. Aguzzi.

 

Adriano Aguzzi, professore e direttore dell’Istituto di Neuropatologia all’università di Zurigo, non ha mai smesso di occuparsi di BSE scoprendo che il comportamento di questo agente infettivo non convenzionale è simile a quello riscontrato in malattie più comuni quali l’Alzheimer e il morbo di Parkinson.

 

Lei professor Adriano Aguzzi è considerato uno dei maggiori specialisti mondiali di BSE e per questa sua competenza qui in Svizzera è stato anche soprannominato mister Prione, dal nome appunto della particella responsabile della malattia. Potrebbe spiegarci cosa sono i prioni e come si comportano?

 

Si tratta di una malattia infettiva e chiaramente le malattie da prioni possono essere trasmesse da un uomo all’altro ma anche da un animale all’altro. Però il prione è strano perché, mentre in tutte le malattie infettive che conosciamo l’agente infettivo contiene degli acidi nucleici, cioè il DNA, l’RNA -ovvero il materiale genetico che contiene l’informazione che codifica, per le proteine, la struttura dell’agente infettivo stesso-, il prione sembra esserne privo.

Lo si sapeva già dagli anni 70 e questo era un paradosso che metteva in imbarazzo le nostre conoscenze della biologia molecolare, perché il dogma della biologia molecolare è che gli acidi nucleici devono necessariamente essere a monte delle proteine, sono in un certo senso il piano regolatore che permette la produzione delle proteine.

 

Negli anni passati la BSE ha prodotto una sorta di isteria mediatica ma da parecchi anni non si sente più parlare né del morbo della mucca pazza, e nemmeno del contagio e delle conseguenze di questa malattia tra gli umani. Un silenzio di cui sono responsabili i media oppure l’emergenza è davvero rientrata?

 

Non c’è dubbio che i casi di BSE tra le mucche sono diventati molto rari e ciò dipende anche dal fatto che gli scienziati hanno capito molto rapidamente che si trattava di una malattia da prioni e che il prione non poteva essere disinfettato attraverso metodi convenzionali, proprio perché i metodi di sterilizzazione convenzionali contro i virus e contro i batteri mirano a disintegrare gli acidi nucleici e il prione, non avendone, è impervio a questi metodi.

Inoltre in capo a pochissimi anni si è riusciti a individuare anche le vie di trasmissione della malattia che erano soprattutto le farine animali -cioè la produzione di mangimi a partire da scarti di macelleria- e una volta vietate, si è riusciti a eliminare la BSE. Quindi io rivendico che il controllo della BSE è stato un grande successo della biologia molecolare odierna e si può dire che la scienza del prione è stata un po’ una vittima di sé stessa, cioè ha avuto un tale successo che per fortuna ora non se ne parla più.

 

 A quanto risale l’ultimo caso di BSE qui in Svizzera?

Bisogna dire che la BSE esiste in due forme, una contagiosa - quella che ha provocato la crisi- e una sporadica. Cioè in ogni popolazione di bovini e anche in ogni popolazione umana, raramente compaiono degli episodi di malattie da prioni.

Nell’uomo questa si chiama malattia di Creutzefeldt-Jacob ed ha un’incidenza di circa un caso per un milione di abitanti per anno, per cui in Svizzera si vedono tra 7 e 10 - talvolta fino a 15 - casi all’anno. E dal momento che il mio istituto ospita il centro nazionale di riferimento per le malattie da prioni vediamo tutti i casi sospetti di malattia di Creutzefeldt-Jacob in Svizzera.

E nei bovini anche. Non lo si sapeva però adesso con l’esperienza e i test che sono stati fatti si vede che ancora oggi nonostante la BSE epidemica sia stata debellata, continuano a registrarsi casi, molto rari e sporadici, di mucche che si ammalano di BSE.

La spiegazione è che la proteina prionica può assemblarsi spontaneamente in un prione patologico, molto raramente, un caso su un milione ogni anno, però questo può succedere per motivi del tutto stocastici. E in questo senso si può dire che la BSE come la malattia di Creutzefeldt-Jacob non sarà mai possibile debellarla completamente, l’importante però è bloccare la catena di trasmissione in maniera che questa non si amplifichi nella popolazione bersaglio.

 

Quanto è pericolosa la malattia di Creutzefeldt-Jacob e quanto è grande il rischio della sua diffusione?

 

Si tratta di una malattia orribile in cui si perdono completamente le capacità cognitive in capo a pochi mesi e al momento continua a essere invariabilmente letale. Quindi è un morbo estremamente pericoloso che oltretutto è anche infettivo.

Anche qui a Zurigo negli anni 70 sono successi dei casi di trasmissione quando ancora non si capiva esattamente come questa malattia fosse trasmessa. Sono state fatte delle operazioni neurochirurgiche e i ferri sono stati poi sterilizzati in modo convenzionale e usati su altri pazienti che hanno contratto la malattia.

Per cui il rischio di trasmissione attraverso manipolazioni chirurgiche effettivamente c’è e di queste cose bisogna essere al corrente e bisogna prendere i provvedimenti appropriati come ad esempio la quarantennizzazione degli strumenti chirurgici.

 

Esistono oggi strumenti diagnostici in grado di individuare rapidamente la presenza della particella infetta?

 

Bisogna capire che la biologia molecolare degli ultimi 40 anni è stata prevalentemente una scienza degli acidi nucleici invece l’identificazione di proteine specifiche non è così avanzata come l’identificazione di sequenze.

Grazie all’invenzione della PCR, la Polymerase Chain Reaction -un metodo potentissimo per amplificare sequenze di DNA- oggi è possibile determinare l’intera sequenza del genoma umano in capo a pochi giorni e con costi relativamente contenuti, però determinare la struttura di una proteina continua ad essere un rompicapo notevole e spesso non è neppure possibile.

Nel caso del prione questo è complicato dal problema addizionale che il prione esiste in due forme, una perfettamente normale che tutti noi abbiamo, cioè la PrPc ovvero la proteina prionica cellulare, e una chiamata misfolding che è una forma aggregata del prione cellulare ed è quella patologica.

La dimostrazione di proteine all’interno del corpo la si può fare attraverso anticorpi, -creando anticorpi in cavie o conigli- e questi anticorpi sono dei reagenti molto specifici che possono essere utilizzati per dimostrare la presenza della proteina. Il problema però è che nel caso del prione la proteina normale e la proteina prionica patologica, che è l’unica veramente infettiva, hanno una struttura estremamente simili per cui è stato molto difficile identificare anticorpi che discriminano tra le due.

Per tutti questi motivi, la diagnostica si può fare e anche a tempi brevi però la sensitività lascia ancora a desiderare e non è certo ai livelli della sensitività di metodi basati sulla PCR degli acidi nucleici. E ancora oggi per esempio nel campo delle trasfusioni non è possibile identificare l’agente infettivo in un’unità di sangue con sensitività sufficiente per poter dire questa unità è sicuramente esente da prioni.

 

Lei professor Aguzzi si occupa solamente dei prioni oppure le sue ricerche spaziano anche in altri campi?

 

I prioni mi hanno affascinato ormai da tanti anni e sono dell’avviso che volendo fare qualcosa di veramente importante in ricerca non si può saltare di palo in frasca, bisogna occuparsi di un territorio e andare a studiare le cose veramente a fondo, per cui sono rimasto fedele ai prioni anche quando questi non erano più un’emergenza sanitaria e non erano più un argomento di attualità mediatica.

Quindi io e il mio gruppo continuiamo ad occuparci di prioni però nel frattempo ci siamo resi conto che malattie molto più comuni si basano su principi molto simili. Il morbo di Alzheimer ma anche il morbo di Parkinson e altre malattie ancora come ad esempio il diabete di tipo 2, si basano sull’aggregazione e sul folding sbagliato di proteine in strutture che assomigliano molto alla proteina prionica patologica.

E una delle cose che facciamo adesso è cercare di capire se è possibile estrarre i principi che abbiamo imparato studiando le malattie prioniche e applicarli a queste malattie. E questo è un po’ un allargamento dello scopo di lavoro del mio istituto.

Autore: Paola Beltrame - Fonte: swissinfo.ch - Zurigo

 
By Admin (from 11/02/2011 @ 12:00:18, in it - Scienze e Societa, read 1801 times)

Ogni cambiamento è stato immaginato, previsto, vagliato e analizzato così a fondo che quando finalmente si realizza ci sembra già vecchio. Ma lo sterminato elenco di scoperte scientifiche e tecnologiche redatto nel secolo scorso sta per esaurirsi. Il nuovo elenco è molto più breve. La scienza di ieri era piena di intuizioni di ciò che sarebbe accaduto, ma quella di oggi forse va più in fretta dei pronostici.

 

Quasi ogni giorno basta aprire il giornale o accendere la televisione per vivere un’esperienza sempre più comune: l’arrivo del futuro, ormai noiosamente familiare. Viviamo in un mondo iperanticipato, in cui quasi ogni cambiamento scientifico o tecnico, ogni tendenza sociale in evoluzione è stata già studiata, sermonizzata, romanzata e perfino parodiata in vignette e pubblicità prima ancora di manifestarsi.

 

In quest’ultimo batter d’occhio, abbiamo visto non solo la storia della clonazione di Dolly, ma anche le notizie sulle proposte di estendere e internazionalizzare le intercettazioni telefoniche e sulla diffusione della sorveglianza video nelle città. Tutte e tre vengono presentate mettendone bene in luce le sinistre implicazioni, discusse da molti anni. A quanto pare, i nostri futuri “io” replicanti non potranno parlare fra loro senza essere spiati e sorvegliati dagli altri replicanti, che certamente dovranno essere stati clonati più e più volte per tenere d’occhio, anche se con l’aiuto dei computer, tanti anni luce di registrazioni audio e video.

 

Quando ha scritto il saggio Scoperta del futuro, nel 1904, H.G. Wells ha compiuto un’impresa pionieristica. Nonostante ci fosse già un vasto patrimonio di speculazione e di narrativa futuristica, a quel tempo la maggior parte delle persone non aveva in mente un elenco di cose agghiaccianti e moralmente difficili che sarebbero successe o sarebbero state inventate e che bisognava soltanto aspettare. Alla fine dello stesso secolo, siamo talmente ben informati su ciò che sta per arrivare che a volte lo confondiamo con ciò che è già passato. La clonazione umana ha cominciato a essere descritta nei libri di divulgazione scientifica e nella fantascienza circa cinquant’anni fa.

 

C’è stato un particolare aumento dopo gli esperimenti sulla clonazione delle piante dei primi anni Sessanta. Ha costituito l’argomento di romanzi e racconti di fantascienza, compresi molti scritti da donne che esploravano la possibilità di società senza uomini, e un paio scritti da uomini che studiavano la possibilità di società senza donne. Uno dei primi commenti scherzosi su Dolly è stato quello della dottoressa Ursula Goodenough, una scienziata americana la quale ha detto che “tanto per cominciare, con la clonazione non ci sarà più alcun bisogno di uomini”.

 

Ciò illustra come il fenomeno della superanticipazione significhi che quando reagiamo a novità e scoperte, lo facciamo trascinandoci dietro un grosso bagaglio di idee, pregiudizi e paure. Spesso le paure hanno a che vedere con le idee dell’epoca in cui la scoperta o l’invenzione è stata pronosticata per la prima volta, più che con il nostro tempo. O forse rispecchiano un momento successivo, quando la scoperta ancora non scoperta è stata scaraventata al centro di un altro dibattito, come alcune scrittrici di fantascienza hanno fatto con la clonazione. In altre parole, c’è una grande familiarità con il futuro, ma si tratta di una familiarità curiosamente superata.

 

Gli Stati Uniti danno prova di un appetito particolarmente vorace per i dilemmi morali, nonché di una notevole inclinazione a dare per scontato che qualsiasi conquista scientifica interessante, ovunque abbia luogo, sia, per qualche aspetto essenziale, americana. L’Abc News ha fatto un sondaggio fra gli americani e ha scoperto che l’87 per cento è contrario alla clonazione di esseri umani. Non sono questi che ci danno da pensare, ma il 6 per cento di persone disposte a farsi clonare. Sia la maggioranza che la minoranza reagiscono ancora prevalentemente in termini di fantasie piuttosto che di realtà: nella loro mente proliferano soldati replicanti come denti di drago, oppure il pensiero di un paio di “io” di ricambio tenuti in una cella frigorifera.

 

Anche rispetto a conquiste che già risalgono a un po’ di tempo fa, come i trapianti d’organo, le fantasie tengono ancora banco. Quelle sugli esseri umani potenziati da pezzi di ricambio umani, animali o, in particolare, robotici continuano ad alimentare spettacoli cinematografici e televisivi. Poi c’è l’idea di un colossale commercio mondiale di organi umani, notizia che si è diffusa a velocità straordinaria in alcuni paesi poveri. È una sciocchezza, ma indubbiamente è una metafora potente del loro sfruttamento da parte del Primo mondo.

Le ombre di Frankenstein

Rientrano in questa antiquata tradizione le reazioni secondo cui ogni scoperta nel settore delle biotecnologie non è che un nuovo incubo propinatoci da scienziati pazzi, e ogni uso di nuove apparecchiature da parte delle autorità non è che l’ennesimo passo in direzione di una tirannide tecnicamente perfetta. Ciò non significa che le novità scientifiche non comportino pericoli, ma spesso non si tratta dei pericoli cui si pensava. Nel caso della clonazione, i timorosi forse trascurano il fatto che gli stessi progressi scientifici che la rendono possibile si sono verificati nel contesto della crescente consapevolezza che il sesso è il metodo più efficace per perpetuare la nostra specie e le altre specie animali da cui dipende la nostra vita.

 

Per dirla con un’espressione un po’ fuori moda, clonare non è naturale. La moralità non è in sostanziale conflitto con la scienza. Il sapere sulla clonazione e il sapere sulla diversità vanno di pari passo. Il teologo che afferma che la clonazione rientra in un “tentativo di diventare i creatori di noi stessi” è fuori strada, se analizzando la natura della clonazione dimostra che non possiamo essere i nostri creatori, a differenza di come crede la maggior parte degli scienziati. Le ombre di Frankenstein ostacolano il dibattito etico, che è indubbiamente necessario. E tendono a concentrarsi sulle applicazioni più estreme – quegli incubi che ci sono ben noti da molti anni di anticipazione – anziché sugli aspetti pratici di quel che è immediatamente possibile, commercialmente interessante o criminalmente sfruttabile. Ciò facendo ignorano spesso la determinazione delle persone nell’ottenere ciò che sanno possibile. Tali esigenze possono a volte essere espressione di autocompiacimento e di indifferenza nei confronti della vita. Ma, come ha sostenuto lo scienziato tedesco Ulrich Beck, è l’intera società che deve fare le sue scelte in fatto di rischi, compresi i rischi scientifici. Queste scelte non devono più essere il risultato quasi accidentale di decisioni prese su basi ristrette ristrette da uomini politici, scienziati e industriali, e poi messe in discussione su basi altrettanto ristrette da cittadini ossessionati dal problema dei diritti. La proposta del Nobel James Rotblat, che vorrebbe una commissione etica internazionale sulle biotecnologie, andrebbe accolta, ma potrebbe funzionare efficacemente soltanto come superstruttura che vincola delle società informate. Si può sostenere che il progresso scientifico ci pone di fronte a un maggior numero di scelte, ma in un contesto che consente meno scelte. Sono possibili più cose, ma si sa anche di più su ciò che è saggio e ciò che è sciocco. Forse è questo che ignoriamo dopo il nostro lungo apprendistato di simili problemi.

 

Nel suo saggio Daedalus, scritto nel 1924, J.B.S. Haldane parlava del futuro, del giorno in cui finalmente bambini selezionati in base a criteri eugenetici sarebbero stati allevati in uteri artificiali. Nel Mondo nuovo, Aldous Huxley ha trasformato questo concetto in fiction, e in seguito molti altri scrittori hanno fatto altrettanto. Il guaio di questo processo di preparazione è che impone le idee scientifiche e le esplorazioni morali di un’epoca precedente, almeno per quanto riguarda il dibattito non specialistico. Ma forse quei giorni stanno per finire.

 

Uno degli aspetti più interessanti dell’attuale periodo, così fruttuoso sul piano scientifico, è che siamo quasi arrivati in fondo allo sterminato elenco di scoperte scientifiche previste alla fine del secolo scorso, e il nuovo elenco (quello delle cose che stiamo prevedendo ora) è molto più breve. La scienza di allora era piena di intuizioni di ciò che sarebbe accaduto, ma quella dei giorni nostri forse va talmente in fretta che deve ancora produrre una serie completa di pronostici. Questo potrebbe consentirci di arrivare al futuro senza tanti pregiudizi. Potremmo addirittura farlo, come ha immaginato lo scrittore di fantascienza James Blish, dopo essere stati “ristretti” per mezzo di manipolazioni genetiche e riprogettati per vivere in piccoli specchi d’acqua. Gran bella idea, no?

Autore: Martin Woollacott - Traduzione: A. M.

 
By Admin (from 12/02/2011 @ 12:00:31, in it - Scienze e Societa, read 3687 times)

La ricerca "Earth system science for global sustainability: grand challenges" dell'International council for science (Icsu) e dell'International social science council (Issc) pubblicata sull'ultimo numero di Science, descrive le 5 grandi sfide ambientali, economiche e sociali che l'umanità e il pianeta si trovano e si troveranno ad affrontare. Gli autori dello studio chiedono un'iniziativa senza precedenti a livello mondiale per dare alla società della conoscenza quello di cui ha bisogno per ridurre contemporaneamente i rischi ambientali globali e raggiungere gli obiettivi di sviluppo economico e sociale.

 

Ecco quali sono secondo gli scienziati di Icsu e Issc le 5 grand challenges che ha di fronte il pianeta se vuole davvero risolvere i suoi problemi ambientali e climatici che stanno sempre più diventando politici, sociali ed economici:

 

Migliorare l'utilità delle previsioni delle future condizioni ambientali e delle loro conseguenze sulle persone. Secondo i ricercatori abbiamo bisogno di sviluppare un "Earth system simulator" per migliorare le nostre previsioni sugli impatti che producono le attività umane sul clima e sui sistemi biologici, geochimici e idrogeologici su una scala di tempo decennale. Gli attuali sistemi atmosfera-oceano, anche se sofisticati, devono essere completati da strumenti altrettanto potenti a livello planetario.

 

«Per esempio - si legge su Science - non esiste un marine-biosphere model disponibile che corrisponda agli standard dei fluid-dynamics-based simulators dell'atmosfera entro i prossimi 5 anni, e la situazione sembra essere ancora peggiore quando si tratta di simulazione delle politiche economiche, sociali e dei processi culturali. Perciò, devono essere esplorati approcci alternativi, come i distributed simulators, in cui i modelli disponibili per tutti i vari Earth system compartments siano virtualmente assemblati da istituzioni di tutto il mondo».

 

Questo tipo di ricerca è necessaria anche per valutare «Il potenziale impatto dei cambiamenti ambientali sulle condizioni economiche regionali, la sicurezza alimentare, l'approvvigionamento idrico, la salute, la biodiversità e la sicurezza energetica. Inoltre, la ricerca è necessaria per capire come le persone tendono a rispondere ai cambiamenti in diversi contesti socio-geografici e culturali, in particolare nelle comunità povere e vulnerabili».

Sviluppare, migliorare e integrare i sistemi di osservazione per la gestione globale e regionale dei cambiamenti ambientali. Anche se sono già stati fatti investimenti per costruire e coordinare sistemi di controllo molto efficaci, come il Global earth observation system of systems, questo non basta ad affrontare e i meeting dei decision-makers richiedono altri prodotti della ricerca. «Per esempio, i dati economici e delle scienze sociali sono spesso raccolti e riportati a scale che non sono compatibili con l'analisi delle interconnessioni tra sistemi sociali e naturali.

 

La scarsità di dati empirici sui cambiamenti dei sistemi socio-ambientali mina la capacità dei decision-makers e dell'opinione pubblica di definire adeguate risposte alle minacce emergenti e di soddisfare le esigenze dei gruppi vulnerabili. Per progettare cost-effective systems in grado di soddisfare queste esigenze, dobbiamo affrontare importanti domande scientifiche: che cosa dobbiamo osservare, a quale scala, in quali "coupled social environmental systems", al fine di rispondere, adattarsi e influenzare il cambiamento globale?»

 

Determinare la modalità per anticipare, evitare e gestire un cambiamento ambientale globale distruttiovo. Secondo lo studio, «L'interferenza dell'uomo probabilmente ha innescato forti cambiamenti non lineari nel contesto globale che tendono a modificare la natura stessa del supporto del life-support system in questione e che possono essere in gran parte irreversibile su una scala temporale umana».

Da questo possono derivare cambiamenti devastanti nei sistemi sociali. Un graduale declino delle precipitazioni annuali o della fertilità del suolo potrebbe portare ad un esodo e ad un abbandono delle terre con una crescita enorme dei rifugiati ambientali, ma «Le politiche sociali ed economiche e le istituzioni raramente sono progettate per bruschi cambiamento sociale e ambientale non lineari - dicono i ricercatori - Comprendere la dinamica non lineare di base richiederà l'integrazione delle scienze ambientali e della complessità, due settori che si sono sviluppati in gran parte separatamente. Per limitare il cambiamento globale a livelli tollerabili, che abbiano soglie di pericolosità o "tipping points" a basso rischio, dovremo identificare e rintracciare le condizioni di sistema rispetto ai "key planetary boundaries" (ad esempio, i livelli critici di acidificazione degli oceani). Per limitare l'inevitabile impatto delle escursioni del sistema a livelli pericolosi, dovremo migliorare la resilienza al cambiamento. Tale ricerca può esplorare se ci siano annche "positive" social tipping points "positivi, cioè con un'azione pionieristica che punti ad una dinamica economica o sociale all'interno di regimi sostenibili».

 

Determinare cambiamenti economici, comportamentali e istituzionali per attivare misure efficaci a favore della sostenibilità globale. Il Global change presenta per le istituzioni sociali sfide inedite di gestione dei problemi emergenti. «I moderni sistemi di governo sono molto più efficaci per affrontare i problemi nazionali e locali su scale temporali di anni e decenni invece che per risolvere problemi globali che colpiranno con più forza le generazioni future delle generazioni attuali. Affrontare problemi del cambiamento globale richiederà un passo in avanti nella ricerca sulle questioni fondamentali della governance, dei sistemi economici e delle ipotesi, credenze e valori alla base del comportamento umano. Ciò deve comportare una stretta integrazione delle scienze sociali e biofisiche. Dobbiamo capire come possa essere realizzata una più efficace governance ambientale in un momento di indebolimento della fiducia nelle forme tradizionali di governance. Non è sufficiente individuare le necessarie riforme delle politiche e delle istituzioni; la ricerca deve esplorare le modalità per catalizzare l'adozione di tali riforme».

 

Incoraggiare l'innovazione (e i meccanismi di valutazione) nella tecnologia, nella politica e nelle risposte sociali per raggiungere una sostenibilità globale.

 

Secondo Icsu ed issc «Dobbiamo migliorare la nostra comprensione su come rafforzare gli incentivi per la tecnologia, la politica e l'innovazione istituzionale per rispondere a cambiamenti ambientali globali. Ad esempio, sono necessarie cambiamenti trasformativi nel sistema mondiale dell'energia, compresi gli sforzi a livello internazionale (ad esempio, l'istituzione di un cap-and-trade system o di una global carbon tax). Insegnamenti sui modi migliori per arrivare a tali politiche internazionali si possono trarre dalle innovazioni a livello locale e regionale, che sono importanti laboratori per valutare come le diverse politiche del carbonio influenzino su scale multiple lo sviluppo economico e sociale. Proprio mentre i Paesi cercano di armonizzare settore della ricerca pubblica, gli incentivi economici per le industrie emergenti e le politiche pubbliche per stimolare la crescita di nuove industrie competitive, sarà necessario un mix di incentivi per generare idee e tecnologie per affrontare il cambiamento globale nel contesto dello sviluppo sostenibile».

 

Per questo, nei prossimi 50 anni, occorrono azioni mirate ed un'attenta valutazione riguardo a problemi come le potenzialità e i rischi delle strategie della geo-ingegneria (comprese la realizzazione di istituzioni locali e globali e i necessari accordi istituzionali per controllarle) e per soddisfare le contrastanti esigenze prodotte dalla scarsità di terra fertile ed acqua potabile.

Fonte: greenreport.it

 
By Admin (from 13/02/2011 @ 12:00:46, in it - Scienze e Societa, read 2508 times)

Un alt alle sigarette elettroniche che secondo l'Oms non aiutano affatto a smettere di fumare e che non sono innocue come si tende a credere, e alle centinaia di additivi aggiunti al tabacco arriva della Conferenza sul controllo del tabacco (CCLAT), tenuta a Punta del Este, in Uruguay. Una netta presa di posizione che ufficializza quando denunciato da molti altri organismi, compresa l'Unione Europea che su entrambe le questioni della sigaretta elettronica e degli additivi ha già annunciato un giro di vite.

 

Pubblicizzata come infallibile sistema indolore per buttare il pacchetto una volta per tutte, la sigaretta elettronica "sabota in realtà le strategie messe in atto dall'Oms nella sua lotta contro il fumo", ha detto nel suo intervento Eduardo Bianco, direttore regionale dell'Alleanza per la Convenzione-quadro anti-tabacco dell'Oms. Venduta ormai in tutte le farmacie, non è altro che un mini aerosol metallico a forma di sigaretta che sprigiona vapori aromatizzati che danno l'illusione di fumare.

 

Inoltre, ha aggiunto, certi ingredienti "sono nocivi".  In alcuni casi possono essere infatti più pericolose del tabacco. (stessa OMS che ha transformato l'influenza in PANDEMIA per vendere vaccini - n.d.Red.TA) Sul fronte istituzionale l'Unione Europea è pronta è intervenire con una consultazione pubblica proprio sulle sigarette elettroniche, bonbon che contengono nicotina e gli additivi presenti nelle sigarette.

 

La norma attuale, che risale al 2001, fissa già limiti massimi di sostanze presenti nelle sigarette come la quantità di nicotina, catrame e ossido di carbonio, impone ai fabbricanti di stampare testi di avvertenza sanitaria, ha vietato i termini light o mild e propone una nuova regolamentazione delle sostanze nocive, tese a indurre dipendenza dai prodotti del tabacco.

In Italia è per ora fermo al Senato un disegno di legge bipartisan firmato dal senatore Pd Ignazio Marino e da Antonio Tomassini del Pdl. "Proponiamo l'inserimento in ciascun pacchetto di sigarette - spiega Marino - di un foglietto illustrativo con l'elenco e la concentrazione delle sostanze nocive e velenose che si assumono con le sigarette. Mercurio, ammoniaca, cianuro di vinile e altre 40 sostanze tossiche si aggiungono, infatti, alla nicotina, al monossido di carbonio e al catrame. Se il ddl non fosse bloccato in Commissione Bilancio al Senato, l'Italia avrebbe l'occasione di essere al passo con le delibere internazionali molto prima di altri Paesi". 

Fonte: americaoggi.info

 
By Admin (from 14/02/2011 @ 10:00:45, in it - Scienze e Societa, read 2921 times)

È una guerra psicologica, chimica, elettronica. La posta in gioco? Il cervello. Ma perché così tanto rumore? Semplicemente perché due scuole si affrontano. Da un lato quella della psicoanalisi, dall’altro quella delle neuroscienze.

 

La guerra comincia all’inizio del secolo con la nascita della psicoanalisi sotto l’egida di Freud. Una cinquantina d’anni più tardi, quando a Parigi apre i battenti il primo congresso mondiale di psichiatria (tra i temi affrontati, la lobotomia e l’elettroshock), e mentre i sovietici si muovono in pieno “dogma pavloviano”, vengono messi a punto i primi neurolettici. Ben presto fanno la loro comparsa anche gli antidepressivi, i sali di litio e gli ansiolitici. Alcuni di questi farmaci vengono accusati di non essere altro che dei potenti sedativi che agiscono come delle camicie di forza chimiche.

 

Ma come osserva Michel Marie-Cardine: “La spettacolare diffusione dell’uso degli psicotropi ha riguardato inizialmente le psicosi. I neurolettici hanno portato all’abbandono progressivo dell’insulinoterapia e, più rapidamente, a quello della lobotomia. E soprattutto hanno permesso a numerosi pazienti di uscire dopo molti anni dagli ospedali”.

 

Ma quali sono le conseguenze per la psicoanalisi? Negli Stati Uniti, a partire dai primi anni Settanta, il suo successo comincia rapidamente a declinare. Oggi si calcola che farebbero ricorso a essa solo il 2 per cento delle persone affette da disturbi mentali. In Francia, nello stesso periodo, la situazione è molto diversa. Tra l’antipsichiatria di Laing e Cooper e le posizioni di Jacques Lacan, la psicoanalisi appare come una vera e propria moda intellettuale. Da allora le cose sono cambiate: le dispute interne hanno incrinato la credibilità della disciplina, e la crisi economica ha fatto il resto. Il consumo di Prozac è aumentato a mano a mano che si sono svuotati gli studi degli psicoanalisti. Nel frattempo le tecniche della biologia hanno conosciuto uno sviluppo senza precedenti.

Molti anni dopo la messa a punto del microscopio elettronico (1955), seguito dall’uso dei microelettrodi, si assiste alla nascita degli strumenti per la visualizzazione del cervello, come gli scanner a risonanza magnetica nucleare. Oltre all’“esplorazione” del cervello, queste tecniche permetteranno anche di individuare meglio il percorso seguito dalle sostanze psicotrope attraverso il cervello, consentendo così di scoprire nuovi neurotrasmettitori e recettori specifici finora sconosciuti. Come procede oggi la coesistenza tra psicoanalisi e neuroscienze? Dice lo psicoanalista Daniel Widlöcher: “Freud era un materialista convinto. Anch’io lo sono e credo che ogni pensiero sia il prodotto del cervello. Ma ciò non significa che la conoscenza del cervello ci faccia capire la natura del pensiero. Bisogna lavorare su entrambi. Si deve determinare a quale livello la spiegazione neurofisiologica, quella cerebrale, può aiutare a capire i fenomeni studiati dalla psicoanalisi”.

 

Il neurobiologo Marc Jeannerod cita i lavori di Utta e Christopher Frith che, con un apparecchio a emissione di positroni, sono riusciti a registrare le immagini del cervello di un soggetto schizofrenico in fase di allucinazione verbale. Ma a cosa servono queste immagini? “Il nostro ruolo consiste anzitutto nell’osservare e nel cercare di capire perché gli schizofrenici presentano un deficit di segnali endogeni, cioè un deficit nel sistema cognitivo. Questo ci porta a una considerazione diversa della malattia e, a volte, a una modifica del trattamento psicoterapeutico”. Ma la comunicazione tra psicoanalisi e neuroscienze rimane ancora difficile.

Autore: Bernard Géniès, Le Nouvel Observateur

 
By Admin (from 22/02/2011 @ 12:00:56, in it - Scienze e Societa, read 1812 times)

Per chi guarda alla crisi in corso dal punto di vista di un mondo diverso alcune questioni già ampiamente dibattute in altre sedi possono essere date per scontate. Innanzitutto, se c'è o ci sarà una "ripresa" dalla crisi - il che è ancora da vedere - non sarà granché; dei tre principali indicatori con cui si misura l'andamento economico (Pil, profitti e occupazione), la ripresa potrà riguardare il Pil di alcuni paesi, i profitti di una parte, e una parte soltanto, delle imprese; ma sicuramente non riguarderà l'occupazione e i redditi da lavoro. Meno che mai possiamo pensare di andare incontro a una nuova fase di espansione economica, come quella dei cosiddetti "Trenta gloriosi" (1945-1975); per lo meno nella parte del mondo che ci riguarda. Investimenti e profitti sono ormai irreversibilmente disgiunti da occupazione e migliori condizioni di lavoro.

Il pianeta Terra è sull'orlo di un baratro dovuto all'eccessivo consumo di ambiente, sia dal lato del prelievo delle risorse che da quello dell'emissione di scarti, residui e rifiuti. Crisi economica e crisi ambientale sono indissolubilmente legate. Per questo, per garantire reddito e condizioni di vita e di lavoro dignitose a tutti è necessario un profondo cambiamento sia dei nostri modelli di consumo che dell'apparato produttivo che li sostiene. Consumi e struttura produttiva sono indissolubilmente legati: fonti energetiche rinnovabili, efficienza energetica, risparmio e riciclo di suolo e di risorse, mobilità sostenibile e agricoltura biologica, multiculturale, multifunzionale e a km0 sono i capisaldi del cambiamento necessario. Questo cambiamento impone una radicale inversione di paradigma nei processi economici, per sostituire alle economie di scala fondate su grandi impianti e grandi reti di controllo economico e finanziario (come il ciclo degli idrocarburi, dalla culla alla tomba) i principi del decentramento, della diffusione, della differenziazione territoriale, dell'integrazione attraverso un rapporto diretto, anche personale, tra produzione di beni o erogazione di servizi e consumo. L'esigenza di rilocalizzare e "territorializzare" produzioni e consumi riguarda ovviamente le risorse e i beni fisici (gli atomi) e non l'informazione e i saperi (i bit); ma questo corrisponde perfettamente al criterio guida di pensare globalmente e agire localmente.

Le attuali classi dirigenti, sia politiche (di maggioranza e di opposizione) che manageriali o imprenditoriali non sono attrezzate né sostanzialmente interessate a un cambiamento del genere. La crisi potrebbe sviluppare processi sia di compattazione autoritaria che di disgregazione del tessuto connettivo dell'economia e della società. In entrambi i casi, pericolosi per tutti. C'è pertanto bisogno di una diversa forza trainante, non solo per essere realizzare, ma anche solo per concepire e progettare nelle loro articolazioni qualsiasi trasformazione sostanziale.

Una forza del genere oggi non c'è, ma nel tessuto sociale di un pianeta globalizzato si sono andate sviluppando nel corso degli ultimi due decenni pratiche, esperienze, saperi e consapevolezze nuove, anche se prive di una "voce" commisurata alla loro consistenza o di collegamenti adeguati; sia per mancanza di risorse e di accesso ai media, sia, soprattutto, per le loro caratteristiche ancora in gran parte locali o settoriali. Ma per una riconversione di vasta portata non bastano la difesa, la rivendicazione e il conflitto; servono anche progettualità, valorizzazione dei saperi e delle competenze mobilitabili, aggregazione non solo dell'associazionismo, ma anche di imprenditorialità e di presenze istituzionali. Una aggregazione del genere delinea un perimetro variabile, ma essenziale, di una democrazia partecipativa - compatibile e per molto tempo destinata a convivere con le rappresentanze istituzionali tradizionali - le cui forme non potranno necessariamente essere simili dappertutto.

Ho evitato finora di nominare termini come decrescita, democrazia a Km0, conversione ecologica, socialismo, lotta di classe, partito e simili: parole che possono dividere. Cercando di porre l'accento su quello che unisce o può unire uno schieramento di idee, di pratiche e di organizzazioni più ampio possibile. Qui di seguito, invece, prendo posizione su questioni che possono non trovare più tutti d'accordo.

Innanzitutto ritengo che lo Stato e gli Stati siano la controparte e non gli agenti di una trasformazione come quella delineata, che non può essere governata o gestita, ma nemmeno progettata, dall'alto e in forma centralizzata. Tanto meno possono svolgere un ruolo del genere la finanza internazionale o gli organismi che la rappresentano a livello planetario o quelli in cui si articola il loro potere.

In secondo luogo, ritengo sacrosanta e irrinunciabile la difesa dell'occupazione e del reddito sui luoghi di lavoro, ma se si svolge senza mettere in discussione logica e tipologia dei beni e dei servizi prodotti, al di fuori di una prospettiva di riconversione della struttura produttiva e dei modelli di consumo vigenti, è una lotta perdente. Per esempio non porta a nulla chiedere che la Fiat produca più auto, che ne produca di più in Italia, che produca modelli a più alto valore aggiunto, cioè di lusso, che produca "auto ecologiche" (peraltro un ossimoro). Per questo ritengo fulcro della riconversione il passaggio dall'accesso individuale ai beni e ai servizi a forme sempre più spinte di consumo condiviso. Non si tratta di "collettivizzare" i consumi, ma di associarsi per migliorarne l'efficacia e ridurne i costi. Gli esempi a portata di mano sono i Gas (gruppi di acquisto solidale) che nel corso degli ultimi due anni si sono diffusi in modo esponenziale; quelli più promettenti sono l'associazionismo per gestire il risparmio energetico, installare impianti di energia rinnovabile o promuovere la mobilità flessibile. È un modello che può investire tutti i servizi pubblici locali: trasporti, energia, rifiuti, acque, manutenzione del territorio, welfare municipale. E poi cultura, spettacolo, istruzione, formazione professionale e permanente; ma anche riuso di beni dismessi o da dismettere, attraverso la promozione di una cultura e di una pratica della manutenzione.

Certamente c'è bisogno di un quadro programmatico generale, non solo di livello nazionale, ma anche internazionale. Ma in mancanza di soggetti e agenti in grado o disponibili a farsene carico - e comunque impossibilitati a realizzarlo nelle sue articolazioni territoriali - è a livello locale che si gioca la partita; oggi un disegno programmatico generale può nascere solo dal concorso di iniziative a carattere locale, ancorché concepite con un approccio e un pensiero globali. Per questo la salvaguardia o la riconquista di un ruolo fondamentale per i poteri locali - municipalità e i loro bracci operativi - assume una valenza strategica generale: cosa che la campagna contro la privatizzazione dell'acqua ha messo in evidenza.

Niente a che fare con il "federalismo" sbandierato dalla Lega. Non c'è mai stato tanto accentramento e tanta espropriazione dei poteri locali - dall'Ici alle decisioni sulla localizzazione degli impianti nucleari; dal sequestro dei fondi Fas al taglio dei trasferimenti e all'accentramento degli interventi straordinari nelle mani della Protezione civile, cioè della Presidenza del consiglio, cioè della "cricca" - come da quando la Lega è al governo. Ma la minaccia e l'ostacolo maggiori per qualsiasi prospettiva di cambiamento radicale dello stato di cose presente sono rappresentati dalla privatizzazione dei servizi pubblici locali, promossa e portata avanti sotto le false sembianze della loro "liberalizzazione". Non solo perché essa sostituisce il profitto alla valenza e alle finalità sociali dei "beni comuni". Ma soprattutto perché il divieto o la limitazione dell' in house providing, lungi dal promuovere l'efficienza dei servizi, innescano processi di aggregazione e finanziarizzazione delle gestioni; e con esse un progressivo e violento allontanamento dei poteri decisionali dal territorio di riferimento in attività che sono essenzialmente "servizi di prossimità", la cui efficacia dipende dal grado di controllo e di condizionamento - ma anche di partecipazione e di coinvolgimento - che l'utenza riesce a esercitare su di essi. La vicenda dei rifiuti urbani della Campania, la cui gestione era stata affidata nella sua interezza a una multinazionale estranea al territorio, dopo essere stata sottratta, con l'istituto del Commissario straordinario e con la militarizzazione del territorio, al già debole controllo delle rappresentanze istituzionali e della contestazione dal basso, è un caso da manuale. Come lo è la vicenda del sequestro del servizio idrico privatizzato in provincia di Latina.

Per questo la promozione di forme nuove di consumo condiviso - che vuol dire controllo o condizionamento sulle condizioni in cui il bene o il servizio vengono prodotti, distribuiti o erogati - è al tempo stesso via e risultato di una democrazia partecipata che coinvolga la cittadinanza attiva e la faccia crescere in numero e capacità di autogoverno: protagonisti ne dovrebbero diventare, secondo le modalità specifiche proprie di ciascun attore, i lavoratori e le loro organizzazioni, il volontariato e l'associazionismo di base, le amministrazioni locali o qualche loro segmento, le imprese sociali e quelle, anche private, soprattutto se a base locale, disponibili al cambiamento. La progettazione e la realizzazione di questo passaggio richiede comunque un confronto aperto tra tutti gli interlocutori potenziali; un confronto che nella maggior parte dei casi andrà imposto con la lotta; ma che in altri potrà essere favorito dal precipitare della crisi.

Le proposte maturate e già sperimentate in anni di riflessione e di pratiche in seno ai movimenti sono vincenti. In un confronto aperto e trasparente non possono che prevalere. Il che non significa che si impongano anche le soluzioni proposte: tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare.
Autore: Guido Viale - Fonte: ariannaeditrice.it

 
By Admin (from 24/02/2011 @ 10:00:20, in it - Scienze e Societa, read 1779 times)

Stili di vita non salutari ancora diffusi fra i bambini italiani. Secondo i dati dell'indagine OKkio alla Salute, che ha analizzato oltre 42.000 alunni delle terze classi delle scuole primarie, è ancora alta la prevalenza del sovrappeso (23%) e dell'obesità (11%). I piccoli del belpaese nel 9% dei casi non fanno colazione e nel 30% non la fanno adeguatamente, mentre 1 bambino su 4 non mangia quotidianamente frutta e verdura e circa il 50% consuma bevande zuccherate o gassate nell'arco della giornata.

 

I dati sono stati resi noti in occasione di un incontro organizzato oggi a Roma per discutere il bilancio dell'iniziativa 'Scuola e Salutè, avviata nel 2007 dal ministero della Salute e da quello dell'Istruzione per e che mira a inculcare la cultura della prevenzione e della salute fin dalle scuole elementari.

 

Secondo i dati diffusi 1 bambino su 2 oggi ha la televisione in camera, uno su 5 pratica sport per non più di un'ora a settimana. Inoltre, i genitori non sempre hanno un quadro corretto dello stato ponderale del proprio figlio: tra le madri di bambini in sovrappeso o obesi, il 36% non ritiene che il proprio figlio abbia chili di troppo.  Lo studio Zoom8 condotto dall'Inran su un campione di 2.100 bambini di 8-9 anni ha approfondito alcuni aspetti indagati da OKkio alla Salute, rilevando che circa il 70% dei bambini non ha l'abitudine di andare a scuola a piedi e che solo il 26,8% gioca più di due ore al giorno all'aria aperta, nei giorni feriali. La scarsità di tempo trascorso dai piccoli all'aperto è correlata alla sicurezza dell'ambiente circostante l'abitazione e alla mancanza di strutture adeguate, specie al Sud.

 

Il ribaltamento di queste tendenze è l'obiettivo principale del progetto 'Scuola e Salutè, che insegna a 'guadagnare vità sin dai banchi di scuola. È stato presentato oggi il bilancio di tre anni dell'iniziativa che, grazie a una sinergia tra scuole, ministero della Salute e ministero dell'Istruzione, vuole contribuire alla riduzione del numero delle malattie e delle morti causate da stili di vita scorretti e cattive abitudini, come l'obesità, il fumo e l'alcol. L'Health Behaviour in School-aged Children, studio multicentrico promosso dall'Organizzazione mondiale della sanità finalizzato a raccogliere dati sui comportamenti relativi alla salute in età pre-adolescenziale (11-15 anni), realizzato in collaborazione tra l'Istituto superiore di sanità, le Università di Torino, Padova e Siena, indica fra i teenager italiani una diminuzione dell'eccesso ponderale al crescere dell'età.

La frequenza dei ragazzi in sovrappeso e obesi va dal 29,3% nei maschi e dal 19,5% nelle femmine undicenni, al 25,6% nei maschi e al 12,3% nelle femmine di 15 anni. Emerge un minor consumo quotidiano di verdura nel Sud e tra i maschi. L'indagine evidenzia inoltre lo svolgimento di minore attività fisica tra i ragazzi di 15 anni (47,5% dei maschi e 26,6% delle femmine) rispetto ai tredicenni (50,9% dei maschi e 33,7% delle femmine); una percentuale del 40% dei maschi e del 24% delle femmine di 15 anni che dichiara di consumare alcol almeno una volta a settimana e un 19% dei quindicenni (maschi e femmine) che dichiara di fumare almeno una volta a settimana.

 

Proprio sul fumo, i dati più recenti a disposizione (Doxa-Iss-Osfad 2010) indicano che tra i 15 e i 24 anni d'età i fumatori rappresentano il 21,9%. I maschi sono il 25,3% e le femmine il 18, 4%. In questa fascia d'età, l'indagine ha rilevato che il 34,5% dei baby-tabagisti inizia a fumare prima dei 15 anni e il 50,8% tra i 15 e i 17 anni: quindi l'85,3% dei ragazzi si accende la prima sigaretta prima dei 18 anni, quando frequenta ancora la scuola. Secondo i dati, il 73,4% dei giovani fumatori prende il vizio sotto l'influenza degli amici: si fuma perchè 'lo fanno tuttì. 

Fonte: leggo.it

 

ERASMO DA ROTTERDAM (1466-1536)


...A me definire animalesco o bestiale  un conflitto armato, sembra ancora inadeguato. In effetti gli animali vivono per lo più concordemente e socievolmente all'interno della propria specie, si muovono in gruppo, si difendono e si aiutano reciprocamente....

 

Ma per l'uomo non c'è bestia più pericolosa dell'uomo. Gli animali, quando combattono, combattono con le armi che gli ha dato la natura. Noi uomini ci armiamo a rovina degli altri uomini di armi innaturali , escogitate  da un'arte diabolica. Gli animali non si scatenano per qualsiasi ragione, ma solo perché sono inferociti dalla fame, perché si sentono braccati, perché temono per i cuccioli. Noi uomini -chiamo Dio a testimone-  scateniamo le più tragiche guerre per i motivi più futili...

 Chi ha mai sentito dire che centomila animali si sono sterminati a vicenda?

 

Eppure così fanno dappertutto gli uomini . Ma il confronto non è ancora finito . Ci sono specie animali divise fra loro da un'ostilità congenita, ci sono però anche specie unite da una genuina e salda amicizia . Invece fra uomo e uomo, fra tutti gli uomini presi uno a uno, c'è guerra perpetua ; non esiste nel genere umano un'alleanza veramente salda. Così è : ogni creatura che tradisce la propria natura, degenera e diviene peggiore che se fosse stata originariamente maligna....

...non esiste pratica, per quanto infame, per quanto atroce, che non si imponga, se ha la consuetudine dalla sua parte . Quale fu dunque questo misfatto ? Ebbene, non ebbero scrupolo di divorare i cadaveri degli animali, di lacerarne a morsi la carne esanime, di berne il sangue, di suggerne gli umori, e di seppellirsi viscere nelle viscere, come dice Ovidio. ...Che cadaverici piaceri ! ...Dagli animali feroci si passò alle bestie innocue. Si cominciò dappertutto a infierire sulle pecore,  animali senza frode né inganno, sulla lepre colpevole soltanto di essere saporita . Non risparmiò il bue domestico, che aveva lungamente nutrito col suo lavoro l'ingrata famiglia ; non ci si astenne da nessuna razza di uccello né di pesce ; e la tirannide della gola arrivò al punto che nessun animale fu più in grado di sottrarsi alla caccia spietata dell'uomo...

 

Il tirocinio che abbiamo descritto, fu un addestramento all'omicidio...

E a forza di sterminare animali, s'era capito che anche sopprimere l'uomo non richiedeva un grande sforzo.

 

...E' senz'altro da preferirsi la vita delle mosche e degli uccelli, che possono vivere tranquillamente secondo natura, per quanto almeno lo permettono le insidie dell'uomo . E' incredibile quanto perda del suo fascino un uccello che, chiuso in gabbia, abbia imparato a balbettare qualche parola umana . Giacché la creazione della Natura è senz'altro più lieta e attraente di quella dell'uomo.

 
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By Napasechnik
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