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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 

Le fonti energetiche rinnovabili sono, per definizione, inesauribili. Anzi, lo erano fino a qualche settimana fa, quando un fisico tedesco si è messo a fare qualche calcolo e ha concluso che lo sfruttamento intensivo dell’energia eolica e delle correnti marine non solo potrebbe minare pericolosamente l’equilibrio energetico del pianeta, ma potrebbe causare all’ambiente più danni di quelli provocati dalle emissioni di CO2.

Eolico

La notizia è decisamente scioccante, al punto da essersi guadagnata la copertina di uno degli ultimi numeri di New Scientist. Possibile?

Nulla si crea, nulla si distrugge

Eppure Axel Kleidon del Max Plank Institute di Jena (Germania), è sicuro: gli sforzi profusi dagli scienziati per ottenere energia dal vento e dal mare finiranno per provocare irreversibili cambiamenti climatici.
La provocatoria tesi di Kleidon si fonda sulle leggi fondamentali della termodinamica: quando i raggi solari entrano nell’atmosfera, una parte di essi favorisce la formazione dei venti e delle correnti oceaniche ed è responsabile dell’evaporazione delle acque. La restante parte viene per lo più dissipata in calore (entropia) e noi non riusciamo a utilizzarla.
Oggi impieghiamo solo 1 parte su 10.000 dell’energia totale irradiata dal Sole, ma secondo Kleidon questo calcolo è fuorviante perchè andrebbe considerata solo l’energia utilizzabile, detta anche energia libera.
Gli esseri umani consumano circa 47 terawatt di energia, cioè 47.000 miliardi di watt: secondo Kleidon equivalgono al 5-10% dell’energia libera del sistema Terra. È una quantità enorme, maggiore di quella contenuta in tutti i processi geologici che avvengono sul pianeta (terremoti, eruzioni vulcaniche, movimenti delle placche tettoniche).

Inesauribile? Impossibile

Per diventare veramente verdi, occorrerebbe quindi sostituire con fonti rinnovabili la parte di energia ottenuta da combustibili fossili e pari a circa 17 TW. Ma per il secondo principio della termodinamica, dato che nessuna tecnologia potrà mai essere perfettamente efficiente, una parte dell'energia libera catturata dai generatori eolici o marini andrà sempre e comunque persa come calore.
Dal punto di vista termodinamico, ciò che fanno questi impianti è prelevare l’energia libera che deriva dal Sole e convertirne una parte in energia utile. Il resto va perso sotto forma di calore  diventando di fatto inutilizzabile.
Il risultato di questa operazione è insomma un impoverimento energetico del sistema Terra.

Si fa presto a dire "green"

Kleidon, utilizzando dei complessi modelli matematici, sostiene che sarebbe teoricamente possibile estrarre dai venti terrestri fino a 70 TW di energia, ma non senza conseguenze. L’impoverimento energetico del sistema Terra comporterebbe pesanti modifiche nella circolazione dei venti, nelle precipitazioni e nell’irraggiamento solare.
Gli effetti sarebbero paragonabili a quelle provocati da un improvviso raddoppio dei gas serra nell’atmosfera.
"Questo è un punto di vista interessante e potenzialmente molto importante», spiega Maarten Ambaum meteorologo dell'Università di Reading, UK. "Il consumo di energia è notevole rispetto alla produzione di energia libera del sistema Terra. Se non pensiamo in termini di energia libera, potremmo essere fuorviati dal potenziale energetico delle risorse naturali". Dobbiamo quindi rinunciare allo sfruttamento delle energie rinnovabili? "No", afferma Kelidon, "ma pensare che il vento sia una fonte inesauribile e a costo zero è un po’ come voler realizzare il moto perpetuo".

Solare

Solare? Sì, ma con giudizio

Il fotovoltaico, dal punto di vista termodinamico, non presenta particolari problemi: riesci infatti a generare energia libera senza grosse dispersioni in termini di entropia. Il vero problema è di natura tecnologica e industriale: i pannelli oggi più efficienti sono costruiti con materiali costosi, rari e in via di esaurimento come l’indio (In), il tellurio (Te) e il selenio (Se).
Gli scienziati e le industrie devono quindi riuscire a realizzare pannelli che utilizzino materiali comuni come lo zinco e il rame e in grado di riflettere, senza assorbirla, l’energia che non riescono a utilizzare, così da immetterla nuovamente nel sistema invece che dissiparla sotto forma di calore.

Fonte: Focus.it

 
By Admin (from 03/07/2011 @ 11:00:02, in it - Scienze e Societa, read 2265 times)

 

La missione STS-134 dello Space Shuttle, la penultima nella storia della gloriosa navetta spaziale americana, per l'Italia ha un significato particolare. Non solo perché con l'Endeavour parte il nostro Roberto Vittori, che a bordo della Stazione Spaziale Internazionale si unirà per un paio di settimane a Paolo Nespoli, in orbita dallo scorso dicembre; facendo sì che l'Italia diventi l'unico Paese, Usa e Russia a parte, che abbia avuto due propri rappresentanti contemporaneamente a bordo della Iss. Ma anche perché con Vittori partono molti esperimenti italiani di grande valore scientifico. Spicca su tutti AMS 2 (Alpha Magnetic Spectrometer 2), un vero "cacciatore di antimateria". "Di fatto non conosciamo la composizione del 95% dell'Universo", spiega Roberto Battiston, docente dell'Università di Perugia e presidente della commissione nazionale per la fisica astroparticellare dell'Istituto nazionale di fisica nucleare, uno dei padri di AMS 2. "Questo esperimento speriamo appunto che ci porti risposte sulla materia "altra", cioè quella che non si vede con i normali mezzi di rilevazione. Ma che si trova anche nella stanza in cui siamo, ed è sei volte più abbondante di quella che vediamo" aggiunge Battiston.

L'AMS 2 è un vero colosso, grande quanto una stanza di cinque metri per quattro. In sostanza si tratta di un complesso sistema di rivelatori per lo studio dei raggi cosmici, la radiazione che proviene dallo spazio composta da particelle (protoni ed elettroni), nuclei atomici e una piccola parte di antiparticelle elementari. "Le antiparticelle più semplici, positroni e antiprotoni, sono state osservate e sono perfino utilizzate, pensiamo alla Pet, la tomografia a emissione di positroni, che sono elettroni positivi" sottolinea Battiston. "Riuscire però a rivelare per la prima volta un antinucleo di elio o di carbonio sarebbe fondamentale per capire l'universo primordiale".

Scienza e tecnologia dell'AMS

AMS 2 registrerà il passaggio di decine di miliardi di raggi cosmici prima che si scompongano o si annichiliscano nell'interazione con l'atmosfera del nostro pianeta. L'esperimento è realizzato dall'Istituto nazionale di fisica nucleare in collaborazione con l'Asi (Agenzia spaziale italiana). Il nostro Paese è il primo "contributor", avendo coperto circa il 25% del costo del progetto, valutabile complessivamente in circa 1,5 miliardi di euro.

Fonte: Focus.it

 

Siete molto social? Vi piace condividere con gli amici via Facebook, Twitter e Buzz assortiti tutto ciò che state leggendo/guardando/ascoltando in Rete? La vostra privacy è rischio: lo sostiene una recente inchiesta pubblicata dal Wall Street Journal che mette in guardia dai pericoli dei social widget, cioè i pulsanti come "I like" o "Share" che permettono la condivisione dei contenuti.

social network

Pedinamenti digitali

Secondo quanto si legge nell’articolo, queste applicazioni permetterebbero a vari Facebook, Twitter e Google di tracciare i percorsi di navigazione degli utenti anche se non hanno cliccato o condiviso nulla in tempi recenti. In pratica i social network saprebbero tutto ciò che avete fatto in rete, che siti avete visitato, per quanto tempo e quando.
La questione è spinosa perché i social network, Facebook in particolare, hanno a disposizione molte informazioni sui loro iscritti: nome e cognome, amicizie, parentele, preferenze musicali ma anche politiche o religiose. E collegandole ai siti che avete visitato potrebbero scoprire molte altre cose: per esempio dove vi piace andare in vacanza, cosa vi piace mangiare, se soffrite di alitosi o se siete interessati a prodotti contro la sudorazione dei piedi.

Ti piace questo elemento?

Lo scenario è effettivamente agghiacciante. E, secondo l’autore dell’inchiesta, perché questo meccanismo si metta in moto è sufficiente che abbiate cliccato un "mi piace" o un "condividi" negli ultimi 30 giorni.
Non serve a niente chiudere il browser o spegnere il computer: per disinnescare i siti spioni occorre effettuare il log out da Facebook, Twitter o Google al termine di ogni sessione. Ma loro, i social network, come si difendono da queste pesanti accuse?

La parola alla difesa

Non negano, ma minimizzano: Facebook e Google sostengono di utilizzare i dati di navigazione raccolti tramite i widget solo per meglio calibrare le pubblicità che vengono mostrate agli utenti. Le aziende spiegano che tutti i dati vengono "anonimizzati", e non è possibile ricondurli a uno specifico utente. Facebook in particolare ha dichiarato al Wall Street Jorunal di cancellare tutte queste informazioni ogni 90 giorni.
Il problema della privacy è ancor più pressante per gli utenti degli smartphone, che temono di essere seguiti non solo online nei loro percorsi virtuali, ma anche nella realtà attraverso i GPS e i sistemi di geolocalizzazione dei loro dispositivi.

Facebook

Ecco il colpevole

Il Wall Street Journal ha fatto analizzare da esperti informatici i social widget presenti nei 1000 siti più visitati del web ed è emerso che 331 di loro inviano dati a Facebook e 250 a Google. Ma dov’è il trucco? In un programmino di pochi kb di peso chiamato cookie che i social network inviano al browser dell’utente ogni volta che questo si collega, condivide o fa altre operazioni che prevedono un log-in.
Da quel momento in poi il cookie riconoscerà tutti i siti ai quali l’utente si collega e nei quali è presente il social widget, raccoglierà i dati e li invierà al social network.

Non è vero, ma ci credo

Facebook però rassicura: Bret Taylor, responsabile tecnico dell’azienda di Mark Zuckberg, spiega al Wall Street Journal che i cookie servono solo a mostrare ad un utente quali contenuti di quella pagina sono stati visitati o condivisi dai propri amici. "Non sono stati progettati per tracciare nessuno" afferma.
Eppure Facebook continua a piazzare i propri cookie sui PC di chiunque abbia visitato la sua homepage anche se non è membro della sua community. Taylor sostiene che è una misura di sicurezza finalizzata a evitare attacchi informatici.
Sarà, ma nel dubbio il  consiglio è quello di effettuare il log-out dai social network ogni volta che si è finito di utilizzarli.

Fonte: Focus.it

 

Secondo il chirurgo italiano uno dei fattori scatenanti la sclerosi multipla sarebbe un’anomalia a livello venoso (CCSVI), risolvibile tramite un intervento di angioplastica. Nel commento di Roger Chafe del Memorial University of Newfoundland si parla del Canada, uno dei paesi, insieme all'Italia, dove il dibattito è più acceso.E dove i pazienti premono di più sulla comunità scientifica perché accolga l'ipotesi Zamboni.

In Canada, infatti, la teoria del medico ferrarese ha avuto un’ampia diffusione mediatica, ma è rimasta fuori dai consessi scientifici. Né la Multiple Sclerosis Society of Canada (MSSC), né gli enti di ricerca indipendenti sparsi sul territorio, infatti, hanno dato inizio a trial clinici per verificare l’efficacia del trattamento chirurgico. E, ovviamente, non hanno dato il loro benestare a eseguire le angioplastiche sui malati. La posizione dei medici e delle società scientifiche canadesi è chiara: in assenza di evidenze certe, lo sviluppo di trial interventistici potrebbe essere troppo rischioso per i pazienti. Per ora, la MSSC si limita a finanziare studi osservazionali per verificare l’associazione tra le due patologie, proprio come sta facendo in Italia l’Aism-Fism.

C’è un risvolto della medaglia: alcuni pazienti hanno fatto le valigie e sono partiti diretti verso cliniche private estere per sottoporsi a interventi di angioplastica. Non senza rischi. Nel frattempo i sostenitori del metodo Zamboni hanno continuato a crescere, grazie soprattutto a Facebook e Youtube, usati per diffondere le testimonianze positive di chi si è già sottoposto alla cosiddetta “terapia della liberazione”. E dai social media continuano le richieste di accesso pubblico agli interventi di angioplastica o di trial clinici, “senza -  come sottolinea Nature  - che se ne conoscano necessariamente le potenziali limitazioni”. Secondo la rivista, il fenomeno dei social media pone due diversi quesiti. Il primo di comunicazione medico-paziente: ovvero, se il pubblico usa i social network per organizzarsi e diffondere informazioni, forse gli scienziati dovrebbero fare lo stesso, cercando di spiegare tutti gli aspetti di una problematica.

Il secondo è questo: può la mobilitazione sociale influenzare il funzionamento della ricerca? Normalmente infatti, i trial interventistici hanno luogo solo dopo studi osservazionali incoraggianti. C’è però la possibilità che la voce dei social network possa esercitare una forte pressione nei confronti delle istituzioni politiche e scientifiche per favorire l’inizio di trial clinici, prima ancora che sia raggiunto un consenso scientifico. Una posizione giustificabile in determinati casi, secondo Nature, quando viene adottata per esempio per evitare che i malati scelgano di farsi operare chissà dove, esponendosi a ulteriori rischi. Una situazione, questa, non lontana da quella che si è verificata in Italia, dove, come dichiarato dal professor Massimo Del Sette, per motivi di “salute pubblica” si è deciso di dare il via a un “studio scientifico rigoroso” di intervento, come BRAVE DREAMS in cui includere i pazienti.

Fonte: Galileonet.it - Riferimenti: Nature, Volume: 472, 410–411, doi:10.1038/472410°

 

Una ricerca, condotta da Cnr, Università Statale di Milano, Universita degli studi Milano - Bicocca, Politecnico di Milano e Università dell’Insubria si guadagna la copertina di Biological Psychiatric. Lo studio dimostra che dei topi privi del recettore per l’ossitocina mostrano alterazioni della memoria sociale e una ridotta flessibilità cognitiva. Non solo: presentano anche alcuni sintomi del disturbo autistico. Lo studio ha evidenziato che la somministrazione di ossitocina e vasopressina è in grado di trattare i disordini riscontrati anche in giovani animali adulti, confermando il ruolo fondamentale che questi ormoni hanno nel comportamento sociale (Mariaelvina Sala, Daniela Braida, Daniela Lentini, Marta Busnelli, Elisabetta Bulgheroni, Valeria Capurro, Annamaria Finardi, Andrea Donzelli, Linda Pattini, Tiziana Rubino, Daniela Parolaro, Katsuhiko Nishimori, Marco Parenti, Bice Chini - Pharmacologic Rescue of Impaired Cognitive Flexibility, Social Deficits, Increased Aggression, and Seizure Susceptibility in Oxytocin Receptor Null Mice: A Neurobehavioral Model of Autism; doi:10.1016/j.biopsych.2010.12.022).

I ricercatori del Sanford Burnham Medical Institute e dell’INSPE-San Raffaele di Milano hanno individuato in Sox2 il gene responsabile della trasformazione delle cellule staminali della cresta neuronale in neuroni completamente differenziati. Nello studio, pubblicato su Cell Stem Cell, il team, guidato da Terskikh del Sanford-Burnham Medical Research Institute (Sanford-Burnham) in collaborazione con Stefano Pluchino dell’INSPE- San Raffaele di Milano, ha mostrato che solo le cellule staminali della cresta neurale che esprimono Sox2 diventano poi neuroni. Le staminali della cresta neurale che rimangono prive di Sox2 si differenziano in altri tipi di cellule (Cimadamore F, Fishwick K, Giusto E, Gnedeva K, Cattarossi G, Miller A, Pluchino S, Brill LM, Bronner-Fraser M, Terskikh AV.  Human ESC-Derived Neural Crest Model Reveals A Key Role For SOX2 In Sensory Neurogenesis; doi: 10.1016/j.stem.2011.03.011).

Sul Journal of Neuroscience i ricercatori del laboratorio di Psicofisiologia del sonno della Sapienza e dell’Associazione Fatebenefratelli per la Ricerca (AFaR), insieme a ricercatori delle università dell’Aquila e di Bologna, fanno luce sui meccanismi elettrici e sulle aree cerebrali che permettono di ricordare (e a volte dimenticare) quello che abbiamo sognato durante la notte. In particolare gli studiosi hanno mostrato che solo se la corteccia cerebrale presenta oscillazioni elettriche lente (con una frequenza da 5 a 7 Hz, chiamate onde theta) durante la fase REM del sonno, le persone ricorderanno il sogno appena prima del risveglio (Cristina Marzano, Michele Ferrara, Federica Mauro, Fabio Moroni, Maurizio Gorgoni, Daniela Tempesta, Carlo Cipolli, Luigi De Gennaro - Recalling and Forgetting Dreams: Theta and Alpha Oscillations during Sleep Predict Subsequent Dream Recall; doi:10.1523/JNEUROSCI.0412-11.2011).

Sempre sul Journal of Neuroscience compare un studio realizzato dal Dipartimento di Neuroscienze e Neurotecnologie dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) e dall’Università di Genova. Secondo la ricerca, modulando l’intensità dei segnali elettrici nel cervello potrebbe essere possibile attivare i neuroni in modo parziale. Nello studio, dal titolo “Influence of GABA A R Monoliganded States on GABAergic Responses”, i ricercatori hanno analizzato l’intensità degli stimoli indotti dal neurotrasmettitore a funzione inibitoria GABA (γ-amino butyric acid), scoprendo che è possibile attivare i recettori dedicati anche in modo parziale, cioè attraverso una sola molecola di GABA, invece che due (doi:10.1523/JNEUROSCI.1453-10.2011).

Sull’edizione on line di Pnas (Proceedings of the National Academy of  Sciences) è stata invece pubblicata la ricerca condotta dalla Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli sul meccanismo di percezione della luce dei ricci marini. Secondo lo studio, in questi animali, che non possiedono un sistema nervoso centrale, ad assolvere la funzione di un “occhio composito” sono decine di migliaia di cellule fotorecettrici (Sp-Opsin4) solo ora identificate. Lo studio è stato condotto in collaborazione con l’Università di Bonn (Esther M Ullrich-Lüter, Sam Dupont, Enrique Arboleda, Harald Hausen, Maria Ina Arnone - Unique system of photoreceptors in sea urchin tube fee; doi:10.1073/pnas.1018495108).

Segnaliamo, infine, che il fisico Erio Tosatti, docente della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste, è stato appena eletto membro della National Academy of Sciences degli Stati Uniti d'America, di cui hanno fatto parte Albert Einstein, Robert Oppenheimer, Thomas Edison, Orville Wright e Alexander Graham Bell. Altri italiani membri dell’Accademia sono Rita Levi Montalcini e Giorgio Parisi.

Fonte: galileonet.it

 
By Admin (from 11/07/2011 @ 08:00:20, in it - Scienze e Societa, read 1810 times)

Otterreste così una nano antenna capace di catturare la radiazione infrarossa, molto simile ai nuovi dispositivi presentati su Science. Un team coordinato da Mark Knight della Rice University di Houston ha infatti costruito, su un substrato di silicio, delle innovative nano antenne in oro capaci di catturare la luce e convertirla in corrente elettrica. I ricercatori hanno sottolineato che questi dispositivi potrebbero aprire la strada a nuove interessanti applicazioni nel campo dei sensori di luce e dei pannelli solari.

Detail-nano antenne

La conversione di luce in corrente elettrica viene attualmente realizzata soprattutto grazie a fotodiodi al silicio, nei quali la luce incidente cede energia agli elettroni nel silicio, che possono così creare un flusso di corrente. Ma i fotodiodi non funzionano con la radiazione infrarossa, perché questa non trasporta abbastanza energia per eccitare gli elettroni. Le nano antenne, spesse una decina di nanometri e lunghe un centinaio, possono invece catturare la radiazione infrarossa, che induce, nelle antenne stesse, dei moti oscillatori degli elettroni detti plasmoni di superficie. Gli elettroni dell’oro, eccitati dai plasmoni, possono quindi “saltare” la barriera energetica che separa l’oro dal silicio, creando così un flusso di corrente nel silicio. Alcuni elettroni sono così energetici da “saltare” direttamente, mentre altri possono attraversare la barriera grazie all’effetto tunnel, uno dei più curiosi fenomeni descritti dalla meccanica quantistica.

I frutti di questo connubio fra nano antenne e dispositivi al silicio sono quindi dei nuovi congegni che potrebbero diventare di enorme importanza per il settore dei pannelli solari, visto che circa un terzo dell’energia solare che arriva sul nostro pianeta è proprio sotto forma di radiazione infrarossa.

Fonte: galileonet.it - Riferimento: DOI: 10.1126/science.1203056

 

Negli animali questo comportamento è innato, affinato dai processi evolutivi nel corso di milioni di anni. Alle macchine, invece, potrebbe bastare un solo algoritmo condiviso. Come quello individuato dai ricercatori dell'École Polytechnique Fédérale (Epfl) e dall'Università di Losanna (Svizzera). I risultati, descritti su PloS Biology potrebbero portare a generazioni di intelligenze artificiali (Ai) in grado di cooperare e agire con la precisione geometrica di uno sciame d'api.

Detail-robot altruismo

Negli anni '60, il biologo evoluzionista William Hamilton aveva ipotizzato che un singolo individuo tende a sacrificare il proprio benessere personale a favore di quello della sua famiglia o comunità, anche perché in questo modo garantisce la sopravvivenza del patrimonio genetico condiviso. Obiettivo dei ricercatori svizzeri era allora capire se si potesse indurre lo stesso comportamento anche nei robot.

Il team di ricerca coordinato da Dario Floreano, a capo del laboratorio di Sistemi intelligenti presso la Epfl, ha analizzato la diffusione dell'altruismo all'interno di 20 popolazioni di piccoli robot impegnati a cercare del 'cibo' in uno spazio chiuso. Compito delle macchine era quello di trovarlo e trasportarlo verso una base comune, per poi decidere se condividerlo o meno. In ogni popolazione era presente un differente numero di robot “imparentati” tra loro: come i membri della stessa famiglia condividono parte del patrimonio genetico, alcune macchine condividevano nelle rispettive memorie determinate serie di algoritmi. Tra le informazioni presenti nelle memorie c'era la formula usata da Hamilton per spiegare la sua teoria.

Durante le simulazioni, gli studiosi valutavano le performance in base al fatto che i robot riuscissero o meno a ottenere il cibo. Dopodiché copiavano, mutavano e ricombinavano gli algoritmi appartenenti alle macchine che erano riuscite a nutrirsi, e li trasferivano in una nuova unità robotica, simulando così, in qualche modo, il processo di selezione naturale. La strategia veniva ripetuta per alcune "generazioni" successive di robot. Alla fine della sperimentazione, Floreano e i suoi colleghi hanno scoperto che anche nei robot le popolazioni di “parenti” tendevano a rispettare la teoria di Hamilton: le macchine che appartenevano alla stessa famiglia di algoritmi tendevano a collaborare nella ricerca e nella distribuzione del cibo, così che tutti gli individui del gruppo risultavano nutriti. In questo modo gli algoritmi tipici della famiglia sarebbero stati preservati e trasmessi alle nuove unità.

“Grazie a questo esperimento siamo riusciti a selezionare un algoritmo che ci permette di ottenere la cooperazione attiva in qualsiasi altro tipo di robot”, ha spiegato Floreano su PLos. “Utilizzeremo questo codice altruista per migliorare i sistemi di controllo degli sciami di robot volanti. In questo modo potremo valutare se riusciranno a collaborare insieme per raggrupparsi in formazioni di volo più adatte alle diverse situazioni”.

Fonte: galileonet.it - Riferimenti: PLoS Biology doi:10.1371/journal.pbio.1000615

 

Detail-computer_network

Nelle sembianze, nell’intelligenza, nell’emotività. Volendo, anche nella suscettibilità ad alcune malattie. Sulla rivista scientifica Biological Psychiatry, è apparso un articolo che racconta dell’ultimo successo delle neuroscienze e dell’ informatica: un gruppo di ricercatori americani ha dato vita a un computer  schizofrenico, che presenta gli stessi sintomi di un cervello umano affetto dallo stesso disturbo, cioè ha problemi di personalità e inventa storie irreali.

Secondo una delle teorie più accreditate per spiegare l’origine della schizofrenia, un cervello colpito da questa disfunzione è un cervello che apprende troppo. La causa di ciò è un rilascio esagerato del neurotrasmettitore dopamina, che non gli permetterebbe di discernere tra le numerose informazioni provenienti dall’esterno. Il risultato è che ogni cosa diventa estremamente importante e quindi degna di essere memorizzata. Ma se ci sono troppe informazioni, è difficile stabilire tra loro connessioni coerenti. Da qui, la tendenza a inventare storie senza alcun senso logico.

Per ricreare questo cortocircuito cerebrale in un computer, ricercatori dell’ Università del Texas ad Austin e della Yale University, negli Stati Uniti, hanno costruito Discern, una rete neurale artificiale capace di apprendere il linguaggio naturale. Gli hanno quindi raccontato delle semplici storie, dandogli la possibilità di memorizzarle così come fa un cervello umano: creando connessioni statistiche tra parole e frasi. A questo punto, i ricercatori hanno modificato uno dei parametri che controllavano l’elaborazione dell’informazioni in modo da simulare un iper-apprendimento. In altre parole, hanno impedito al computer di dimenticare, così come accade in un cervello stimolato da troppa dopamina.

Cosa è successo? Che il computer ha cominciato a inventare storie improbabili, mostrando segni di megalomania. In un caso, per esempio, ha rivendicato la paternità di un attentato terroristico. In un altro, ha risposto a una domanda relativa a uno specifico ricordo del passato in modo sconnesso, facendo improvvise digressioni e passando di continuo dalla prima alla terza persona. Come una persona schizofrenica, quindi. Se l’esperimento sembra provare che l’ipotesi dell’iper-apprendimento è corretta, i ricercatori non si sbilanciano e chiedono altro tempo per continuare le indagini. Ma sono consapevoli della potenzialità delle reti neurali artificiali per lo studio del cervello umano.

“Il processamento delle informazioni nelle reti neurali artificiali è simile a quello che avviene nel cervello umano”, ha detto Uli Grasemann, uno degli autori. “ Quindi, è probabile che entrambi si rompano nello stesso modo. E dal momento che possiamo controllare meglio una rete artificiale di un uomo, speriamo che questo tipo di studi possa aiutare anche la ricerca clinica”.

Fonte: galileonet.it - Via Wired.it

 

Ognuno di noi si lascia alle spalle migliaia e migliaia di dati, sparsi nella Rete, a testimoniare il nostro andirivieni sul Web. Alcuni ricercatori stanno ora studiando il modo di cancellare le tracce digitali delle persone, ad esempio creando file “a tempo” che si autodistruggono dopo un certo periodo. Proprio recentemente qualcuno ha fatto dei notevoli passi in avanti in questa direzione. Michael Backes, programmatore e a capo della Information Security and Cryptography alla Universität des Saarlandes, in Germania, ha creato un software di auto-cancellazione delle immagini e delle fotografie pubblicate on line. Per ora il programma (che costa 10 dollari) funziona solo con i formati Jpeg e soltanto se si usa il browser Firefox (altrimenti non è visibile), ma Backes, che ha messo in piedi il progetto X-pire!, assicura che presto sarà disponibile per altre estensioni e altri browser.

Detail-delete

La data di scadenza è incorporata nel codice della foto; una volta superata, il file sarà ancora sul Web, ma non sarà accessibile. Ma c'è un problema: la foto può essere copiata a piacimento da altri utenti direttamente dallo schermo. Per evitare questo, occorrono altri accorgimenti. Tra i grandi esperti di queste tecnologie vi è Viktor Mayer-Schönberger, docente di Internet Governance and Regulation a Oxford, e autore del libro "Delete: The Virtue of Forgetting in the Digital Age". In attesa che Mayer-Schönberger e colleghi realizzino i software che ci permettano finalmente di decidere il destino, se non delle informazioni che ci riguardano, almeno dei nostri files, esistono modi più semplici per non far apparire on line il proprio passato digitale, come ricorda un articolo pubblicato su New Scientist.

Eccone uno. Nel 1980 nasceva Usenet, una rete mondiale di server interconnessi dove archiviare i dati (articoli, messaggi, post) generati e scambiati dagli utenti nei forum. Una sorta di archivio pubblico consultabile da tutti gli abbonati. Uno dei più grandi di questi forum era gestito da una società chiamata Deja News, che consentiva ai suoi utenti di applicare uno speciale tag - “X-No-Archive” - ai files che non dovevano essere archiviati. In questo modo, chi voleva poteva cancellare il proprio passaggio sul Web. Quando Deja News fallì e il suo database passò a Google, gli utenti chiesero al nuovo proprietario di rispettare le vecchie regole. Cosa che continua a fare tutt’oggi.

Ovviamente ci sono anche rimedi più “casalinghi” e di buon senso: per esempio, cancellare tutto ciò che si pubblica sul Web, il cosiddetto “nuking”. Secondo uno studio condotto da Danah Boyd, sociologa del Microsoft Research di Cambridge, Massachusetts, si tratta di una buona abitudine già adottata da molti teenagers statunitensi, che hanno imparato a cancellare velocemente i post lasciati su Facebook.

Fonte: galileonet.it

 
By Admin (from 17/07/2011 @ 14:00:37, in it - Scienze e Societa, read 1756 times)

In Antartide i pinguini imperatore (Aptenodytes forsteri) si tuffano alla ricerca del cibo e nuotano a lungo sotto la superficie del mare, senza mai emergere per respirare. Nemmeno quando le scorte di ossigeno nei muscoli sono terminate. Come fanno? Alla Scripps Institution of Oceanography (University of California, San Diego) alcuni ricercatori hanno scoperto l’esistenza di due meccanismi fisiologici alternativi e una grande efficienza nel consumo dell’ossigeno.

I pinguini, prima di immergersi, fanno scorta di ossigeno che il loro organismo immagazzina in polmoni, sangue e muscoli. Quest’ultima riserva contribuirà alla produzione dell’energia muscolare necessaria al nuoto subacqueo, che può durare oltre venti minuti. L’energia viene infatti prodotta a partire dall’ossigeno, con un processo metabolico detto “respirazione aerobica”: quando l’ossigeno finisce, l’organismo è in grado di produrre ancora energia, anche se in modo meno efficiente, utilizzando la “respirazione anaerobica”: una sorta di strategia di riserva, la cui messa in atto è segnalata dalla presenza di lattato nel circolo sanguigno.

Detail-pinguini

Nel caso del pinguino imperatore, il lattato compare 5-6 minuti dopo l’inizio dell’immersione (cioè ben prima che l’animale riemerga), mentre però l’ossigeno è ancora presente sia nel sangue che nei polmoni. Cosa innesca dunque il cambiamento di metabolismo? Nello studio presentato sul Journal of Experimental Biology, gli scienziati hanno dimostrato che è l’assenza di ossigeno nei muscoli ad attivare la respirazione anaerobica: il che vuol dire che questi uccelli nuotano, per la maggior parte del tempo, senza avere la fonte principale di energia proprio lì dove servirebbe.

Per arrivare a questa conclusione, i ricercatori hanno misurato i livelli di ossigeno nei muscoli pettorali (quelli deputati al nuoto) di un pinguino imperatore, utilizzando uno spettrometro con lunghezza d’onda nel vicino infrarosso, impiantato nei muscoli stessi. Inoltre, per poter controllare le tipologie di immersione, hanno inserito sul dorso dell’animale un misuratore di tempo e profondità.

I dati registrati hanno mostrato che in 31 delle 50 immersioni, nel metabolismo dell’animale si era innescata la respirazione anaerobica. Si è visto inoltre che la diminuzione dell’ossigeno nei muscoli del nuoto segue due andamenti diversi: in alcuni casi è costantemente decrescente, e il gas è completamente esaurito nel momento in cui si innesca la respirazione anaerobica; nel secondo caso invece, a metà dell’immersione, la diminuzione di ossigeno si arresta per un breve periodo di tempo, prima di ricominciare a scendere. In questo secondo modello, quindi, nella fase intermedia dell’immersione il muscolo viene rifornito di ossigeno proveniente dalle altre scorte, e ritarda l’inizio della respirazione anaerobica.

Nello studio gli scienziati hanno misurato anche l’efficienza metabolica di questo animale, rilevando un tasso di consumo di ossigeno nel tessuto muscolare estremamente basso, pari a un decimo di quello riscontrato in ambiente artificiale, e solo due volte il valore misurato a riposo.

Fonte: galileonet.it

 
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Now Colorado is one love, I'm already packing suitcases;)
14/01/2018 @ 16:07:36
By Napasechnik
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21/11/2016 @ 09:41:39
By Anonimo
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21/11/2016 @ 09:40:41
By Anonimo


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18/04/2024 @ 03:50:39
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