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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 

Logaritmi, seno, coseno e radici quadrate: mettersi a fare i calcoli con carta e penna non è affatto facile. Per fortuna, qualcuno ha trovato il modo di racchiudere una grande potenza di calcolo in un guscio compatto e dallo stile inconfondibile. Si tratta della Hp-35, la prima calcolatrice scientifica dotata di tutte le funzioni necessarie per passare un esame di analisi matematica. Nel giro di pochi anni, la prodigiosa macchinetta conquista il mercato, e sopravvive a una serie di crash-test incredibili.

Infuso di scienza Ma la pubblicità è più cool Soluzioni intelligenti

Con la semplice pressione di un tasto, la Hp-35 eseguiva funzioni trigonometriche e logaritmiche restituendo il risultato su un piccolo schermo a led rossi. Fino a allora, calcoli del genere potevano essere fatti solo con calcolatori da tavolo (o computer), e gli studi di mercato spergiuravano sul fatto che nessun nuovo prodotto tascabile avrebbe mai intaccato la loro supremazia.

Senza farsi scoraggiare, alla Hewlett-Packard pensarono che fosse arrivato il momento di cambiare le carte in tavola, e mettere in tasca alla gente una potenza di calcolo mai vista. La Hp-35 venne messa in commercio il primo febbraio 1972: nel giro di tre anni ne erano già stati venduti 300mila esemplari. Si trattava di un prodotto pensato soprattutto per i laboratori e gli uffici dei professionisti, visto che il prezzo di partenza era di 395 dollari (circa 1.500 euro di oggi).

Il display a led poteva visualizzare fino a 10 cifre decimali e esponenti a doppia cifra, mentre l'alimentazione era fornita da tre batterie ricaricabili AA. Sulla Hp-35 c'erano, per l'appunto, 35 tasti ma mancavano le parentesi. Infatti le operazioni più complesse venivano risolte grazie all'impiego della notazione polacca inversa (Rpn), una soluzione matematica che permette di svolgere i calcoli immettendo nella macchina gli operandi (i numeri) e gli operatori (+, -, *, /) in modo separato.

Insomma, una soluzione semplice e pratica che segnò l'inizio all'era delle calcolatrici tascabili. Di lì a poco, i successori della Hp-35 sarebbero entrati nelle tasche di tutti. Non a caso, Forbes ha definito la creatura della Hewlett uno dei 20 oggetti che hanno cambiato il mondo.

Infine, la prima compatta scientifica ha battuto anche molti record di prestazioni e resistenza: è stata in cima all'Everest, nello spazio e dentro la pancia di un ippopotamo. Nell'ultimo caso, sembra che sia stata digerita e espulsa in perfette condizioni. Altri assicurano che la loro Hp-35 è caduta dentro un cannone sparaneve e finita sotto le ruote di una Ford Gran-Torino del '73. Il risultato? Neppure un graffio.

Fonte: Wired.it

 

Riprendersi da uno shock come quello dell'11 marzo 2011 è difficile, così come lo è fidarsi delle centrali nucleari vecchie quanto quella di Fukushima. Infatti, dopo l'incidente che ha messo in ginocchio il Giappone, le autorità governative hanno ordinato lo spegnimento di tutti i 54 reattori presenti sul territorio nazionale eccetto 3.

Ma con il documento approvato ieri dalla International Atomic Energy Agency (Iaea) per il paese potrebbe essere molto più facile riavviare gli impianti. Tutto merito del fatto che gli stress test svolti dall' Agenzia per la sicurezza nucleare (Nisa) sono stati riconosciuti come validi da parte della comunità internazionale.

Ma, come riporta il Guardian, non mancano le critiche, tutte incentrate sulla possibilità che i controlli attuali non siano sufficienti. A dirlo sono Masashi Goto, un ex progettatore di centrali, e Hiromitsu Ino, professore della Tokyo University da sempre attivo nel campo della sicurezza nucleare.

Secondo i due esperti, le procedure di valutazione adottate dalla Nisa si limiterebbero a passare al setaccio le specifiche tecniche degli impianti giapponesi per controllare che questi rispettino le norme vigenti. Insomma, niente di differente da quanto non fosse già stato fatto prima dell'incidente di Fukushima.

A peggiorare le cose, spiega Ino, concorrerebbe il fatto che le indagini sull'incidente dell'11 marzo scorso non sono ancora state in grado di fornire un quadro esatto di cosa sia accaduto all'interno della centrale di Fukushima. Poco importa se i criteri degli stress test pianificati in Giappone ricalcano fedelmente quelli delle prove condotte in Europa.

Nel frattempo, i primi controlli effettuati da Nisa hanno assegnato il bollino verde alla centrale di Oi gestita dalla Kansai Electric Power. Secondo i dati rilasciati dal gestore, sulla carta l'impianto è progettato per resistere a onde di tsunami alte 11,4 metri e a un terremoto 1,8 volte più forte di quanto previsto durante le fasi di costruzione. Di fatto, sono tutti dati che non dimostrano affatto la volontà di condurre test più approfonditi sulla possibilità che si possano verificare anche errori umani o incidenti inattesi.

A tutto questo si aggiunge la proposta varata dal governo giapponese il 25 gennaio scorso, che fissa il limite d'età delle centrali nucleari a 40 anni ma, allo stesso tempo, prevede delle deroghe speciali di ulteriori 20 anni. Sembra quindi che il Giappone non abbia serie intenzioni di dismettere i vecchi reattori con tanta facilità.

Probabilmente, l'esito positivo degli stress test giocherà un ruolo fondamentale nel facilitare il riavvio e il mantenimento in funzione dei reattori over 40. Forse, prima di prolungare la pensione dei reattori di vecchia generazione sarebbe il caso di domandarsi se i danni provocati da una nuova Fukushima potranno essere ancora accettabili.

Fonte: Wired.it

 

Non sarà certo questa la scoperta che ci permetterà di leggere i pensieri degli altri esseri umani, ma di sicuro è un grande passo in avanti verso la comprensione del linguaggio. Il merito va al team di ricerca guidato da Brian Pasley,neurologo dell' Helen Wills Neuroscience Institute di Berkeley, che ha decodificato alcuni stimoli cerebrali alla base dell'ascolto. In questo modo, un giorno forse sarà possibile riprodurre in modo artificiale le parole percepite nella testa delle persone.

Tuttavia, come spiega Scientific American, questo non significa che saremo in grado di leggere anche i pensieri elaborati dal cervello stesso. Per l'esattezza, lo studio pubblicato su PLoS Biology dall'equipe di Pasley riguarda un algoritmo capace di tradurre in suoni gli stimoli cerebrali innescati dalle parole percepite da 15 volontari. Il test prevedeva di sottoporli all'ascolto di brevi parole – a volte inventate – come “ jazz”, “ cause” e “ fook” e vedere quali parti del loro cervello si attivassero.

Per registrare l'attività cerebrale, Pasley ha sfruttato elettrodi connessi direttamente alla superficie della corteccia uditiva. Si tratta di una procedura molto sofisticata resa possibile dal fatto che tutti i partecipanti dovevano comunque sottoporsi a interventi neurochirurgici per il trattamento di epilessia o tumori. Ogni volta che un volontario percepiva una parola, il computer registrava i segnali percepiti dal cervello e li elaborava nel tentativo di convertirli in un suono simile.

Ebbene, dai ripetuti esperimenti è emerso che esistono zone cerebrali deputate all'ascolto esclusivo di alcune frequenze sonore. Una sorta di mosaico neurale sensibile a uno spettro sonoro che va da 200 a 7.000 Hertz. Inoltre, sembra che per adesso l'algoritmo del team di Pasley sia in grado di riprodurre con più facilità suoni vocalici molto semplici. Così, prima di arrivare a sviluppare uno strumento di ascolto più sofisticato, i ricercatori dovranno valutare quali sono i contributi di altre aree che entrano in gioco nel momento in cui il cervello percepisce le parole.

Infatti, nonostante i volontari fossero perfettamente in grado di comprendere i suoni uditi durante i test, i dati estrapolati dalla corteccia uditiva non sono stati sufficienti a crearne una copia perfetta. Dopo tutto, come hanno dimostrato diversi studi condotti durante il coma farmacologico indotto dall' anestesia, le zone del cervello che percepiscono e codificano il significato delle parole agiscono in modo indipendente tra loro. In una prospettiva futura, studi simili a quelli di Pasley potrebbero riuscire a completare il mosaico e stabilire qual è la soglia di coscienza nelle persone che hanno subito danni cerebrali.

Fonte: Wired.it

 

Un’ossessione tutta americana. Ken Alder, autore di The Lie Detectors, chiama così l’invenzione made in Usa della macchina della verità. E anche se è innegabile che l’America sia la patria della discussa e controversa invenzione, spulciando nella storia si scovano anche protagonisti italiani, come il fisiologo Angelo Mosso e il criminologo Cesare Lombroso. Ma molto tempo prima ci avevano già pensato i cinesi a inventare una rudimentale macchina della verità.

Più che rudimentale era essenziale: appena un pugno di riso secco. Nell’antica Cina, per capire se una persona stesse mentendo si metteva in bocca del sospettato un pugno di riso, gli si facevano le domande necessarie a risolvere il caso, e quindi lo si invitava a sputare il rospo, anzi il riso, che veniva poi analizzato. L’idea infatti era che uno stato di ansia o di paura, determinato dal tentativo di mascherare un fattaccio con le bugie, determinasse una diminuzione della salivazione: così anche il riso restava secco.

Le prime macchine Come una visita dal dottore Elettrodi

La storia però non si ferma qui. In Africa, per esempio, si racconta di uova rivelatrici di menzogna: si facevano passare di mano in mano, e chi le rompeva (per il panico) era quello che aveva qualcosa da nascondere. Per scoprire le adultere, nel Medioevo bastava invece poggiare un dito sul polso, pronunciare il nome del presunto amante, e registrare le variazioni del battito.

Tornando alla storia italiana, si fa risalire alla fine del Diciannovesimo secolo il pletismografo di Angelo Mosso, che serviva in realtà a misurare le risposte fisiologiche dell’organismo (variazioni nella respirazione e nella circolazione) alle diverse emozioni, come la paura. Sarebbe stato Cesare Lombroso a trasformare la macchina in uno strumento di criminologia per stabilire se qualcuno stesse mentendo, usando l’ idrosfigmografo, capace di rivelare cambiamenti nel battito e nella pressione nei sospettati. Ma il contributo italiano alla storia vede anche altri protagonisti: Vittorio Benussi agli inizi del Ventesimo secolo metteva in relazione il tempo di inspirazione ed espirazione con il sospetto di menzogna (grazie allo pneumografo). Per il resto la macchina della verità è tutta americana.

Furono infatti gli statunitensi a prendere la cosa sul serio, forse anche troppo, usandola come strumento di indagini. Il primo esempio di una reale macchina della verità – ovvero che combinasse insieme tutti i diversi parametri per rivelare cambiamenti fisiologici potenzialmente legati a specifici stati d’animo – è quello dello studente di medicina arruolato nel dipartimento di polizia di Berkeley (California), John A. Larson, nel 1921, ispirato dai lavori dello psicologo William Moulton Marston. Proprio perché combinava insieme diverse letture venne ribattezzato un poligrafo, capace di monitorare continuamente pressione, battiti e respirazione.

La sua macchina, un insieme di fili e tubicini, permetteva anche di registrare (con un ago che lasciava una traccia su un foglio di carta affumicata) le risposte del sospettato, e di analizzarle anche in un secondo momento.

Appena un anno dopo, nel 1922, Larson avrebbe prodotto un erede della sua invenzione: il detective Leonarde Keeler. A differenza di Larson - che presto cominciò a mettere in discussione l’affidabilità del sistema - Keeler fu appassionato da quell’intrigo di fili, creando poi il suo poligrafo (cui aggiunse lo psicogalvanometro, per la misura delle variazioni della resistenza elettrica della pelle) e diventando il più prolifico esaminatore di macchine della verità, tanto da guadagnarsi il titolo di padre della moderna poligrafia. Avrebbe messo mano alla sua macchina migliaia di volte, la prima il 2 febbraio 1935. Quella volta, a essere condannati per aggressione, anche grazie alle prove della macchina della verità, furono due criminali del Wisconsin. Prove oggi lasciate per lo più fuori dai tribunali, considerata l’ inaffidabilità dell’ ossessione americana.

Fonte: Wired.it

 

Uno dei suoi disegni più noti, quello dell' Uomo Vitruviano, Leonardo da Vinci potrebbe averlo copiato da un suo collega e amico, Giacomo Andrea da Ferrara. Copiato, in realtà, è una parola forte: sarebbe forse più corretto dire che i due stavano studiando insieme l'opera di Vitruvio, De Architectura, e che Giacomo Andrea ne stava realizzando una copia illustrata. In un incontro, tra il 1490 e il 1498, avrebbero discusso insieme di come tradurre in immagine il concetto dell' uomo ideale, il microcosmo, inscritto sia in un cerchio (simbolo del divino) sia in un quadrato (simbolo del terreno).

E Giacomo Andrea avrebbe mostrato all'amico i suoi schizzi, come riporta lo Smithsonian Magazine. Quel che è certo è che esiste un altro disegno dell'Uomo di Vitruvio molto, molto simile a quello di Leonardo. Il resto, invece, sono ipotesi, seppur convincenti e supportate da diversi dati raccolti dall'architetto  Claudio Sgarbi. Nel 1986 Sgarbi aveva ritrovato, nella Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara, quel manoscritto illustrato, anonimo, dimenticato per secoli, copia dell'opera di Vitruvio. La ciliegina sulla torta è stato scoprirvi, nel 78esimo foglio, un disegno che ricorda incredibilmente quello di Leonardo: un tesoro nel tesoro.

Dopo anni di studi, Sgarbi crede che l'opera sia da attribuire, per l'appunto, a Giacomo Andrea da Ferrara (la sua analisi, già presentata a Vicenza nel 2010, sarà ora pubblicata in un saggio accademico dal Centro Studio Andrea Palladio). “ Mi sono reso conto di alcune straordinarie coincidenze tra il disegno presente nel manoscritto e quello di Leonardo, a partire dalle dimensioni”, ha detto Sgarbi a Wired.it: “ per esempio, la lunghezza del lato del quadrato è quasi identica: 195 millimetri l'uno, 192 l'altro. Sulla base di queste coincidenze, non solo formali, ho rivisto un'ipotesi che avevo già preso in considerazione tempo prima: che il manoscritto fosse di Giacomo Andrea". Il motivo? “ Luca Pacioli, matematico, scienziato e artista contemporaneo dei due, in un suo scritto rivela che Leonardo e Giacomo Andrea erano gli unici architetti milanesi (Leonardo in quegli anni viveva nella città lombarda, nda) intervenuti alla presentazione del suo libro De Divina Proportione e che i due erano amici fraterni”, racconta ancora Sgarbi. Ci sono poi altre corrispondenze che avallano l'ipotesi: elementi presenti nelle opere di Leonardo che compaiono solo nel manoscritto, per esempio.

L'idea che sia Leonardo ad aver preso spunto dall'amico, e non viceversa, si deve invece al fatto che il disegno del manoscritto è pieno di ripensamenti, cancellazioni, tentativi, mentre quello vinciano è come se fosse già una bella copia: uno dei più accurati tra quelli che il maestro ci ha lasciato.

Che le cose siano andate così è dunque probabile: “ Io ne sono convintissimo, e anche molti altri studiosi, che si sono detti sorpresi ed entusiasti”, conclude Sgarbi.

La prova finale, però, può venire solo dal ritrovamento di un manoscritto autografo di Giacomo Andrea da Ferrara; nulla di suo, purtroppo, sembra essersi salvato. Quando, nel 1499 i francesi invasero Milano, infatti, Leonardo riuscì a mettersi in salvo, mentre Giacomo Andrea, per la sua fedeltà a Ludovico il Moro, Duca di Milano, fu trucidato. Così la sua memoria si è persa per lungo tempo, insieme alle sue opere.

Fonte: Wired.it

 

In tempo di crisi economica, capita che le biblioteche delle università si vedano costrette a disdire gli abbonamenti con le riviste scientifiche. Succede così, per esempio, che i ricercatori non possano più avere libero accesso agli studi pubblicati dei colleghi. E succede anche che qualcuno decida di ribellarsi contro le stesse riviste e gli editori, e chieda loro, se non di votarsi all' open access, quanto meno di cambiare le politiche di distribuzione e di abbassare i prezzi. Timothy Gowers, matematico all' Università di Cambridge e medaglia Fields 1998, per esempio, ha attaccato direttamente l'olandese Elsevier, uno degli editori più importanti in ambito scientifico (Advances in Mathematics, Journal of Algebra, Journal of Geometry and Physics, Journal of Mathematical Analysis and Applications, per citare qualche rivista). Lo ha fatto in un recente post sul suo blog, dal titolo decisamente esplicativo: “ Elsevier - my part in its downfall”.

Da qui è presto nato un vero e proprio movimento degli scienziati per boicottare l'editore, con una petizione online, The Cost of Knowledge: “ Se vuoi dichiarare pubblicamente che non supporterai più alcuna rivista Elsevier a meno di un cambio radicale del modo in cui operano, allora lo puoi fare compilando il form qui sotto”. Questa mattina, i firmatari erano già oltre 3.350 (con vari commenti) e tra i nomi spiccano quelli di altre medaglie Fields e di ricercatori di atenei del calibro di Cambridge, Oxford, Harvard e Yale. Il primo nome della lista è quello di un altro matematico:  Tyler Neylon.

Il movimento si scaglia contro i prezzi – che definisce esorbitanti – e critica la pratica di vendere le riviste a pacchetti; in questo modo, si legge, le biblioteche sono costrette a comprare anche quelle che non vorrebbe. Gowers e colleghi criticano apertamente anche il sostegno di Elsevier a Sopa (Stop Online Piracy Act), a Pipa (Protect IP Act) e allo US Research Works Act.

Elsevier, dal canto suo, ha già fatto sentire la sua voce: “ Un articolo costa 10 dollari (ovvero 6,5 sterline), un prezzo che rientra nella media, e gli sconti applicati se si compra più di un articolo portano il prezzo reale di un singolo articolo a 2 dollari, molto al di sotto della media”, riporta The Guardian.

Quanto alla vendita a pacchetti, l'accusa non starebbe in piedi per la casa editrice: “ Elsevier ti permette di comprare sia un singolo articolo, sia un’intera rivista, oppure una qualsiasi combinazione di articoli da riviste diverse”, ha risposto Nick Fowler, Director of global academic relations: “ Se se ne comprano di più si ottengono dei benefit, come è prassi comune che si faccia, ma questo non significa che non si sia liberi [di non farlo]- ma allora non ci si può aspettare uno sconto”.

Insomma, Elsevier non ci sta ad essere dipinto come un nemico della scienza e ora vorrebbe parlare direttamente con i promotori del movimento. Č indubbio - ha sottolineato Fowler - che si deve fare un maggior lavoro di comunicazione.

“ All'inizio firmavano circa 200 persone al giorno, ora siamo a 600. L'unica cosa che loro hanno da perdere è la reputazione, ed è esattamente quello che stiamo erodendo”, ha detto Neylon, che sottolinea anche come gli accademici forniscano pubblicamente ricerche finanziate a riviste open access e il loro lavoro di revisione tra pari. Dopo di che, però, devono pagare Elsevier e company per avere accesso alle stesse ricerche pubblicate.

“Quello che in molti vorrebbero, me incluso, è sbarazzarsi di tutte le riviste e al loro posto avere board editoriali liberi di muoversi che forniscono un marchio di approvazione ai paper che vorrebbero apparire in siti come ArXiv, un deposito open access di articoli scientifici. Ma non è necessario avere idee così radicali per trovare la situazione attuale insoddisfacente e chiedere un cambiamento”, ha ribadito Gowers.

Difficile credere che Elsevier cambierà politica. Secondo i promotori della petizione è più probabile che lentamente avverranno una serie di piccoli cambiamenti, come il diffondersi di alternative open access con board editoriali in grado di garantire uno standard di qualità elevato.

Fonte: Wired.it

 

"Segui lo spirito del tuo maestro, mai le sue orme". Sono le parole scritte con eleganza dal pennello di Kiyoshi Shiga, un medico giapponese che da giovane ebbe la fortuna di studiare con Shibasaburo Kitasato, uno degli allievi di Robert Koch, il padre della microbiologia moderna. Sotto il peso di nomi così importanti, Shiga avrebbe rischiato facilmente di vivere nell'anonimato, ma la sua grande dedizione alla ricerca lo premiò. Nel 1897 Shiga identificò il bacillo della dissenteria, una malattia che uccide ancora centinaia di migliaia di persone ogni anno.

Figlio di un samurai L'attacco di Shigella Sembra quasi innocuo La scoperta

E pensare che il giovane Shiga era cresciuto in uno dei periodi più turbolenti della storia del Giappone. Il giorno della sua nascita, il 7 febbraio 1871, il paese era nel bel mezzo del Rinnovamento Meiji che aveva consegnato di nuovo il potere nelle mani dell'imperatore. Suo padre, che era un amministratore della sconfitta classe dei samurai, aveva perso tutta la sua influenza. Un brutto colpo per la famiglia. Eppure, nonostante tutto, nel 1892 Shiga era riuscito a iscriversi alla scuola di medicina della Università Imperiale di Tokyo.

Fu il suo trampolino di lancio verso il successo. Appena laureato, Shiga approdò come assistente di ricerca presso l' Istituto di malattie infettive fondato dal mentore Kitasato. Nei laboratori di Tokyo, il medico intraprese i suoi primi studi sulle epidemie di dissenteria – chiamata comunemente seikiri – che flagellavano il Giappone. Molti studiosi del tempo ipotizzavano si trattasse di una malattia batterica, ma nessuno era mai riuscito a individuare con precisione l'agente patogeno. Fu proprio l' attività di ricerca condotta da Shiga a identificare una volta per tutte il Bacillus dysenterie (poi rinominato Shigella dysentheriae in suo onore nel 1930). Ispirandosi ai postulati di Koch – ovvero i principi alla base della microbiologia moderna – il giovane medico riuscì a isolare il batterio da 36 pazienti ricoverati a Tokyo e a tracciare un profilo biologico molto accurato del patogeno.

La profonda conoscenza della malattia, che all'epoca colpiva più di 90mila persone in Giappone, permise a Shiga di sviluppare anche il primo vaccino contro la dissenteria. Fu lui stesso il primo a iniettarsi un preparato ottenuto dalle cellule morte di B. dysenterie nel tentativo di scoprire quale fosse la strategia migliore per immunizzare l'organismo. Negli anni successivi, Shiga si confermò come uno dei più grandi esperti di malattie infettive al mondo. Dopo aver lavorato all'estero per molti anni, tornò in Giappone per continuare le ricerche presso l'Istituto di Kitasato e vivere insieme ai suoi cari. Infatti, dal suo matrimonio con Ichiko erano nati ben otto figli; ma la sorte non fu molto benevola con la sua famiglia.

Il medico perse la moglie e due figli durante la Seconda guerra mondiale e vide la sua casa distrutta completamente dai bombardamenti. Nonostante le gravi sciagure, Shiga non si arrese e dedicò il resto della propria vita alla lotta contro le malattie infettive come la dissenteria e la tubercolosi. Era diventata la sua missione, da sempre condotta con impeccabile professionalità. Morì il 25 gennaio 1957, all'età di 85 anni.

Fonte: Wired.it

 

Di solito, nel mondo delle stampanti tridimensionali si fa a gara per vedere chi realizza gli strumenti laser più piccoli e compatti. Ma in questo caso, sul banco dei creativi c'era in gioco qualcosa di più: costruire una protesi mandibolare per una paziente di 83 anni. Una bella impresa per i laboratori tecnici di LayerWise, uno spin-off universitario che si occupa di stampa 3D dal 2008.

L'idea di costruire una protesi su misura è stata proposta dai ricercatori del Biomed Research Institute, un dipartimento dell' Università di Hasselt che da anni esplora le possibili alternative alle complicate operazioni chirurgiche di ricostruzione ossea. Come spiega New Scientist, i medici dovevano rimuovere la mandibola originale perché compromessa da una grave infezione, ma non potevano sottoporre la paziente a troppi interventi.

L'unica soluzione consisteva nel costruire da zero una protesi mandibolare che sostituisse l'osso originale. Non è affatto uno scherzo, perché operazioni del genere non sono state mai tentate prima. Ma con un computer è una stampante 3D si possono fare delle cose al limite dell'incredibile. Č bastato fare una scansione a risonanza magnetica della mandibola della paziente e immettere tutti i dati nelle macchine di LayerWise. Così, dentro la pancia della stampante un laser ha fuso e inciso sottili strati di titanio con precisione assoluta per restituire una copia esatta della mandibola originale.

Il fatto più sorprendente è che la protesi è stata realizzata in poco più di 4 ore di lavoro, durante cui la stampante 3D ha riprodotto alla perfezione tutti i dettagli dell'osso originale. Dopo aver ricoperto il titanio con una ceramica biocompatibile, i medici si sono affrettati a impiantare la nuova mandibola sul cranio della paziente. Neppure un giorno dopo l'operazione, la donna è tornata a parlare senza problemi.

Fonte: Wired.it

 

A volta basta davvero poco a far capitolare il partner. Niente complessi corteggiamenti o danze sensuali: per alcuni bachi da seta è sufficiente lasciare nell’aria qualche goccia del loro profumo (molecole di feromone) per attrarre i maschi, anche a chilometri di distanza. Una questione di chimica insomma, cui probabilmente neanche la specie umana sarebbe immune.

In realtà, stabilire il ruolo che i segnali chimici hanno nell’essere umano non è affatto facile, anche se esistono indizi a sostegno di una comunicazione “sotto il livello della consapevolezza”, come spiega Bettina Pause della Heinrich Heine University di Düsseldorf, che ha dimostrato la capacità della specie umana di sentire un segnale d’allarme nell’odore delle persone impaurite o ansiose. Una sorta di feromoni umani in altre parole, non tutti volti al corteggiamento del partner, spiegano gli scienziati; così come avviene in natura, con feromoni emessi durante i combattimenti (dai lemuri) o solo per indirizzare i propri simili verso le fonti di cibo, come fanno le formiche.

D’altronde, come riporta Scientific American, basta pensare agli effetti di una convivenza stretta, quale può essere la condivisione di una stanza. In questi casi infatti a volte si osserva che la forte vicinanza porta a sincronizzare il ciclo mestruale delle ragazze. Mentre è sufficiente far annusare gli odori prodotti dalle ascelle (maschi e femmine) ad alcune donne per variare il loro ciclo; ma la molecola (o le molecole) responsabili di questo cambiamento non sono state ancora identificate.

Ma senza ricorrere a esperimenti, c’è un comportamento innato guidato dalla chimica, come spiega Charles Wysocki, della Monell Chemical Senses Center di Philadelphia. Quello che porta un neonato a trovare il seno della madre in cerca di cibo, seguendo dei segnali chimici provenienti dal suo capezzolo. D’altra parte, come spiegano gli scienziati, alcuni odori emessi dal seno di donne che allattano avrebbero effetti anche sugli adulti, aumentando per esempio il desiderio sessuale nelle donne senza figli. Per ora però la ricerca dei feromoni umani resta senza veri e propri protagonisti, eccezion fatta per l’ androstadienone (derivante dal testosterone), la molecola in grado di rendere le donne più rilassate.

Ma oltre a cercare chi comunica cosa, l’altra parte del problema sull’esistenza o meno di feromoni umani riguarda l’identificazione della struttura responsabile a percepire l’odore e il segnale che esso veicola. Negli animali a farlo è l’ organo vomeronasale, una struttura collocata nel naso, non sempre presente nell’essere umano o comunque presente con funzioni ridotte (ovvero i geni che codificano per i recettori non sono attivi). Ragion per cui spiegare come la specie umana percepisca i feromoni sembrerebbe un’impresa alquanto ardua. Se non fosse che uno studio lo scorso anno ha mostrato come l’ androstadienone sia in grado di indurre una risposta a livello cerebrale in alcune persone, anche in assenza dell’organo vomeronasale (o comunque presente, ma bloccato). A dimostrazione quindi che l’essere umano riesce a captare tali segnali chimici, feromoni, attraverso il sistema olfattorio (o forse anche attraverso il misterioso nervo terminale o nervo cranico 0).

Feromoni a parte, ci sono altre molecole che contribuiscono all’odore di una persona e che ci aiutano a stabilire incoscientemente se ci piace o meno. Sono le proteine del complesso maggiore di istocompatibilità (MCH), che svolgono ruoli importanti a livello immunitario. E che, secondo alcuni studi, sarebbero alla base delle nostre scelte sessuali. In particolare ci piacerebbero di più quelli con MHC particolarmente diversi dai nostri: un espediente trovato dall’evoluzione. Il motivo? Perché scegliendo MHC diversi dai nostri, quelli dei nostri figli lo saranno ancora di più. A beneficio del loro sistema immunitario.

Fonte: Wired.it

 

Oggi grazie alla biologia molecolare gli scienziati hanno sviluppato strumenti di analisi così potenti e veloci da realizzare test genetici a soli mille dollari. Ma tutto ciò non sarebbe mai stato possibile senza lo sforzo dello Human Genome Project (Hgp), il consorzio internazionale che ha permesso di sequenziare il genoma umano. E pensare che i fondi stanziati nel 1990 ammontavano a ben 3 miliardi di dollari. Soldi spesi davvero bene, visto che i primi risultati sono stati pubblicati su Nature il 15 febbraio 2001 in un numero open access.

Il nostro genoma Tutto dipende ta tre

Una conquista senza precedenti nella storia della genetica dopo la scoperta del dna, la molecola alla base della vita. In origine, gli scienziati si aspettavano di concludere lo Hgp nell'arco di 15 anni, ma la prima bozza pubblicata nel 2001 dimostrò a tutti che il lavoro sarebbe stato completato in anticipo sulla tabella di marcia. Infatti, dopo la pubblicazione della bozza su Nature – che copriva l' 83% del genoma – i risultati definitivi furono annunciati già nel 2003. Merito del lavoro di una équipe instancabile di ricercatori provenienti da tutto il mondo, che in una decina di anni ha analizzato quasi tutte le 3 miliardi di molecole ripetute (A, C, G, T) che compongono il nostro codice genetico. In tutto, gli scienziati hanno identificato circa 23mila geni che codificano proteine, ma questi non rappresentano che l'1,5% di tutto il genoma. Insomma, il nostro dna è molto di più che un semplice libretto di istruzioni. Sta di fatto che le ricerche sono andate avanti per altri anni, e oggi online è disponibile una sequenza aggiornata al 2009.

La cosa più interessante è che il materiale genetico su cui hanno lavorato gli scienziati dello Hgp  proveniva per il 70% da un unico donatore anonimo originario della cittadina americana di Buffalo. Una scelta del tutto casuale dovuta al fatto che il campione di dna prelevato dal misterioso individuo era il meglio conservato tra tutti quelli delle altre migliaia di volontari che si erano offerti.

Ma esiste anche un'altra persona che ha avuto molto a che fare con il sequenziamento del genoma umano, e il suo nome è tutt'altro che sconosciuto. Si tratta di Craig Venter, lo scienziato-businessman che nel 1998 ha fondato Celera, una company di biotecnologie specializzata nel sequenziamento della molecola a doppia elica. Venter, che fino a qualche anno prima aveva partecipato a Hgp, si era messo in proprio con lo scopo di battere sul tempo il consorzio internazionale e trarne lauti profitti. La sua idea iniziale era quella di investire 300 milioni di dollari nell'impresa per poi brevettare parte dei geni sequenziati.

Così, in una corsa contro il tempo, gli scienziati dell'Hgp si affrettarono a rendere pubbliche parte delle sequenze genomiche codificate fino a quel momento. Il team di bioniformatici dell'università californiana di Santa Cruz mise online una prima bozza il 7 luglio 2000. Da quel giorno, il genoma umano era diventato di pubblico dominio.

Fonte: Wired.it - Licenza Creative Commons

 
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Now Colorado is one love, I'm already packing suitcases;)
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By Napasechnik
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21/11/2016 @ 09:41:39
By Anonimo
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21/11/2016 @ 09:40:41
By Anonimo


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18/04/2024 @ 23:35:40
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