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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 

Kamilah è la femmina di gorilla di pianura occidentale (Gorilla gorilla gorilla) che si è guadagnata le pagine di Nature. Il motivo? Il suo dna, interamente sequenziato da un gruppo di ricerca coordinato da Aylwyn Scally del Wellcome Trust Sanger Institute, in Gran Bretagna, sta rivelando nuovi aspetti dell’ evoluzione della famiglia degli ominidi, di cui fanno parte le scimmie antropomorfe e l'essere umano. Come per esempio il fatto che quasi un terzo del genoma umano è più simile a quello dei gorilla che non a quello dei parenti più stretti, gli scimpanzé.

Gli studi molecolari compiuti in passato dagli scienziati hanno dimostrato che, geneticamente parlando, esseri umani e scimpanzé sono più simili tra loro che non ai gorilla. Ma i risultati ottenuti dall’equipe di Scally provano che, almeno in parte, le cose stanno diversamente. Dall’analisi del genoma di Kamilah, infatti, è emerso che il 30 per cento del dna dei gorilla è più simile a quello umano o degli scimpanzé di quanto questi ultimi due non lo siano tra loro. La notizia sorprende: dato che esseri umani e scimpanzé hanno in comune un antenato più recente di quello condiviso con i gorilla, è lecito aspettarsi che il loro genoma sia più simile. In effetti, lo è per il 70 per cento, mentre per il resto bisogna chiamare in causa i processi evolutivi.

Quando due eventi di speciazione sono molto vicini (come quelli che portarono prima alla comparsa dei gorilla e poi a quella degli uomini e degli scimpanzé), può accadere che alcuni dei geni dell’ultimo antenato comune vadano a finire in tutte le linee evolutive discendenti per poi essere mantenuti solo in alcune. Così, è possibile che alcune sequenze di dna si siano conservate nei gorilla e negli uomini ma non negli scimpanzé. Ciò dimostra che l’evoluzione non è un processo che conduce alla comparsa di specie via via irrimediabilmente sempre più diverse.

L’analisi del dna di Kamilah, inoltre, ha permesso ai ricercatori di comparare in modo più approfondito i genomi delle due specie di gorilla, quello occidentale e quello orientale (per le parti già sequenziate, visto che in questo caso non tutto il genoma è stato ancora svelato). In generale, i dati hanno confermato ciò che già si sapeva: la diversità genetica all’interno del genere è molto alta e necessita di ulteriori studi. Sempre che i gorilla riescano a resistere all'essere umano, principale minaccia alla loro sopravvivenza.

Fonte: wired.it - Licenza Creative Commons

 

Anni '50: uomini dalle camicie bianche inamidate ronzano intorno a un grande calcolatore, attivando contatti e registrando ogni ronzio della macchina. I primi computer della storia, grandi come intere stanze, avevano bisogno del continuo intervento umano per funzionare. Niente di più stressante, visto che i cervelli elettronici impiegavano ore, se non giorni, a elaborare tutti i dati. Ma l' 8 marzo 1955 l'informatico Doug Ross rivoluzionò il mondo presentando il primo programma completamente automatico.

Il cervellone elettronico Forza valvolare Quel che resta del cervellone

È successo tutto nei laboratori del Massachusetts Institute of Technology, dove nel 1951 era stato inaugurato il calcolatore Whirlwind. Si trattava di una macchina che occupava un'area di 300 metri quadri. Un vero e proprio gigante formato da 5mila valvole che elaboravano i dati a una velocità di 20mila istruzioni al secondo (Kips). Un record per l'epoca, che però oggi impallidisce davanti alle prestazioni dei computer da scrivania che ne processano vari miliardi (Gips).

Ross, che era programmatore capo del progetto, aveva deciso di introdurre un sistema che permettesse ai tecnici di laboratorio di immettere le istruzioni direttamente all'interno di Whirlwind. Infatti, prima di allora c'era sempre bisogno di un tecnico specializzato che inserisse i dati manualmente nel calcolatore. Un lavoro assai lungo e complicato che non rendeva certo più fluide le lunghe sessioni di calcolo.

Così, quando il primo insieme di istruzioni automatiche – si chiamava Director, ed era stato scritto dagli informatici John Frankovich e Frank Helwig – entrò finalmente in funzione, ai tecnici del Mit bastò premere un tasto e lasciar fare tutto il resto al cervellone valvolare di Whirlwind. Un bel risparmio di tempo e risorse che non deve essere affatto dispiaciuto al principale investitore del progetto, la Us Air Force.

Le origini militari di questo primo grande calcolatore non devono sorprendere. In origine, Whirlwind era nato alla fine della Seconda Guerra Mondiale come un progetto accademico sotto il controllo e la tutela dell'Office of Naval Research. L'idea era quella di realizzare un simulatore di volo in grado di far risparmiare all'esercito le costosissime prove dal vivo.

Tutto sommato, il costo del progetto Whirlwind si rivelò talmente alto da far desistere la Marina dopo appena tre anni (e tre milioni di dollari) di esperimenti. Ma per fortuna le valvole del calcolatore non rimasero inattive a prendere polvere. L'Air Force capì subito che dentro la pancia di quel gigante c'era il futuro, e lo impiegò senza esitare per i suoi progetti di intercettazione radar.

Fonte: wired.it

 

Si torna a parlare del bosone di Higgs, la particella più ricercata nella storia della fisica. Vi ricordate quella traccia – lungi ancora dall'essere una prova – individuata da due team presso il Large Hadron Collider al Cern di Ginevra? Bene, lo stesso indizio è stato ora trovato anche nei dati usciti negli ultimi anni da un altro acceleratore di particelle, il Tevatron del Fermilab (Batavia, Usa), ormai spento.

La notizia è stata diffusa a La Thuile, in Val D'Aosta, dalle collaborazioni Cdf (Collider Detector at Fermilab) e Dzero del dipartimento di energia del Fermilab stesso, durante un incontro di cervelli conosciuto come Rencontres de Moriond.

In modo simile a quanto osservato al Cern, in seguito ai numerosi scontri di fasci di protoni e antiprotoni (dal 2002 al 2011), è stato evidenziato un eccesso di eventi intorno al valore di energia di 125 gigaelettronvolt: tra 115 e 135, per l'esattezza. Significa che, in quel punto, una particella non attesa potrebbe essersi formata per poi decadere velocemente. Se non si tratta di un abbaglio (una fluttuazione statistica, per dirla con i fisici), questa particella avrebbe una massa di circa 130 volte quella del protone (la misura dell’energia viene trasformata in valore di massa, secondo la relazione E = mc²): un valore compatibile con quelli previsti per il bosone di Higgs.

Proprio come al Cern, il range di valori emerge dall'analisi dei dati di due esperimenti indipendenti. Come sottolinea anche Nature, i risultati non sono statisticamente significativi (ovvero il margine di incertezza è ancora troppo alto), ma sono comunque in linea con quelli dell'Lhc, e tanto basta per scaldare gli animi.

Anche perché i sistemi di rilevamento dei due acceleratori sono diversi: quello del Fermilab è più sensibile a certi prodotti del decadimento, come particolari quark (chiamati bottom e antibottom), mentre quello del Cern rileva altre particelle, tra cui i fotoni. Le osservazioni, quindi, sono complementari, come sottolinea Dmitri Denisov, responsabile di D0, perché è come avere due fotografie della stessa scena, scattate da punti di osservazione diversi. “ Ma gli scienziati hanno ancora parecchio lavoro davanti, prima che si possa essere certi dell'esistenza del bosone di Higgs”, ha aggiunto il ricercatore.

La cautela è più che d'obbligo. Esattamente un anno fa, il Tevatron aveva già sperato di aver trovato l' Higgs. Le analisi successive alle prime indiscrezioni, però, avevano scartato questa possibilità, indirizzando comunque gli scienziati verso l'esistenza di un'altra particella sconosciuta, non predetta dal famoso Modello Standard (la teoria che riproduce e spiega tutte le misure condotte fino ad oggi).

Questi nuovi dati, oltre a sostenere quelli dell'Lhc, danno un'altra preziosa informazione: il bosone di Higgs, se esiste, non si trova tra i 147 e i 179 gigaelettronvolt.

“Senza qualcosa che assomigli al bosone di Higgs e che dia massa alle particelle fondamentali, l'intero mondo intorno a noi sarebbe molto diverso da quello che vediamo oggi”, ha commentato Giovanni Punzi, responsabile dell'esperimento Cdf e fisico presso l'Istituto nazionale di Fisica nucleare (Infn) di Pisa. È per questo che la caccia si sta facendo più serrata, e che all' Lhc hanno già pensato bene di aumentare l'energia degli scontri tra protoni.

Fonte: wired.it

 

Far sapere al mondo che lì, in quel momento, si stava compiendo un’impresa epocale, non era così semplice. Agli inizi del Novecento le comunicazioni in quella parte di mondo, nel profondo Sud del pianeta, erano piuttosto problematiche. Così, anche le scoperte degne di nota e traguardi importanti come la conquista del Polo Sud arrivavano in ritardo. Nel caso specifico, quasi tre mesi dopo che la spedizione al seguito di  Roald Amundsen(1872-1928)ebbe piantato la bandiera norvegese al centro dell’ Antartide.

Era infatti il 7 marzo 1912 quando lo storico telegramma con l’annuncio della conquista veniva spedito da Hobart, in Tasmania, ma il fatto risaliva al 14 dicembre dell’anno precedente. Anche se l’impresa era grande, Amundsen non fece molto rumore quando mise piede a terra dalla sua Fram, l’imbarcazione che lo aveva portato fin lì. Si racconta infatti che prima di diffondere la notizia, l’esploratore volesse assicurarsi che il re della Norvegia Haakon VII venisse a conoscenza della sua prodezza. E fu così che l’impresa restò in gran segreto, almeno all’inizio. Nello stesso modo in cui era cominciata, visto che Amundsen non rese note le sue mire fino all’ultimo (aveva sperimentato in prima persona cosa volesse dire essere battuto sul tempo nella conquista al Polo Nord, da parte di Frederik Cook e Robert Peary, e non voleva farsi superare di nuovo).

Quel telegramma fu la prova che ce l’aveva fatta, in pieno. Da una parte, infatti, con quelle poche righe Amundsen reclamava il primato di aver conquistato per il primo il Polo Sud; dall’altro questo significava che i suoi diretti concorrenti, quelli della spedizione inglese Terra Nova al seguito di Robert Falcon Scott, avevano mancato l’impresa. Questi infatti avrebbero tagliato il traguardo solo una trentina di giorni dopo il norvegese, e avrebbero avuto un destino decisamente più infausto, visto che i membri della missione esplorativa e il suo capitano sarebbero morti tutti sulla via del ritorno, sconfitti dalla fame, dalla stanchezza e dal freddo.

Amundsen avrebbe spiegato così il modo in cui era riuscito dove altri avevano fallito: “Posso dire che questo è il fattore più importante, il modo in cui la spedizione è stata equipaggiata, il modo in cui ogni difficoltà è stata prevista, e le precauzioni per affrontarla o evitarla. La vittoria aspetta colui che ha tutto in ordine, la fortuna, come la chiamano alcuni. La sconfitta è certa per colui che non ha tenuto conto di tutte le necessarie precauzioni per tempo; questa si chiama sfortuna”. 

Ed eccola la fortuna di Amundsen. In primo luogo era stata una questione di determinazione. Aveva in testa il ghiaccio e il freddo sin da bambino, sin da quando dormiva con la finestra aperta per temprare il corpo e lo spirito alle condizioni estreme. E amava le grandi imprese (nel 1906 diventava infatti il primo ad aver attraversato il Passaggio a Nordovest).

Così, nel 1910, dopo aver fatto credere di essere diretto verso lo Stretto di Bering, attraverso cui sarebbe entrato nel Mar Artico risalendo il Pacifico una volta passato Capo Horn, deviò e si mise in corsa per il Polo Sud. Obiettivo: la Baia delle Balene, nell’Antartide, da dove si sarebbe diretto verso l’interno. Stabilita la meta, il successo sarebbe stato una combinazione di tenacia e abilità tecniche, tra cui la dimestichezza con gli sci e con le slitte trainate dai cani. Anche grazie a loro, ai quattro compagni di viaggio, e forse anche alla fortuna vera e propria, il 14 dicembre 1911 Amundsen conquistava il Polo Sud.

Fonte: wired.it

 

Topolini, soprattutto. Ma anche ratti, porcellini d’india, criceti. E conigli, cani, gatti, maiali. Persino capre, asini, mucche, cavalli. Fino ai primati più simili a noi: gorilla, scimpanzé, bonobo, gibboni. Sono le cavie su cui vengono testati farmaci, vaccini o tecniche chirurgiche, prima di farlo sulle persone. Al loro tributo si devono cure salvavita e molti dei più grandi progressi in campo medico e scientifico. Ma è etico sacrificare gli animali in nome del progresso della ricerca? Tema spinoso, di quelli che infiammano gli animi. Com’è successo in questi giorni a Corezzana (in provincia di Monza), una delle sedi italiane della multinazionale Harlan, travolta dalle proteste per un carico di 900 macachi importati dalla Cina e destinati alla sperimentazione. Tutto regolare, secondo gli accertamenti dei Nas predisposti dal Ministero della Salute, ma le pressioni del fronte animalista, di cui l’ex ministro del Turismo Michela Brambilla s’è fatta portavoce, sono state così forti da spingere il numero uno di Harlan, David Broker, a fare marcia indietro. Alle prime 104 scimmie, arrivate nei giorni scorsi nel paese brianzolo, non faranno seguito altri esemplari.

Ma quanti sono gli animali utilizzati nei laboratori di ricerca? Per quali scopi? Con quali tutele? In Italia la normativa è piuttosto stringente. E negli ultimi anni, in virtù di una sempre maggiore sensibilizzazione al problema, si sta facendo molto anche a livello europeo per incentivare la regola delle 3 R, Replacement, Reduction, Refinement. Ovvero la sostituzione degli animali con metodi alternativi, ogni qualvolta sia possibile; la riduzione del numero di cavie impiegata; e il miglioramento delle condizioni degli animali. In questa direzione va la direttiva Ue approvata nel 2010 che, pur segnando notevoli passi avanti rispetto alla vecchia normativa del 1986 (specialmente nei paesi dell’est dove la regolamentazione era quasi assente), è stata oggetto di aspre critiche da parte delle associazioni animaliste.

In Italia, già dal 1992, le regole sono più severe di quelle previste a livello comunitario. È vietato l’uso di animali randagi nei laboratori. Dal 2008, non si possono impiegare animali nella didattica. Cani, gatti e scimmie possono essere utilizzati solo previa autorizzazione del Ministero della Salute. Si tratta delle cosiddette sperimentazioni in deroga di legge, concesse solo laddove si dimostri che sono indispensabili specie con un sistema neurologico superiore. Nell’80 per cento dei casi i centri svolgono test su animali più semplici, dal moscerino della frutta al topolino. Sono vietati anche gli esperimenti praticati senza anestesia ed è obbligatorio limitare al minimo le pratiche dolorose. E, contrariamente a quanto si pensi, la vivisezione vera e propria sull’animale vivo non viene più praticata.

Ogni anno, i centri autorizzati a eseguire sperimentazioni animali (ospedali, laboratori, aziende) devono presentare relazione al Ministero. In base agli ultimi dati, pubblicati in Gazzetta Ufficiale e relativi al triennio 2007-2009, sono circa 900mila all’anno (3mila al giorno) gli animali utilizzati in Italia a scopi sperimentali, la metà dei quali roditori. In Europa sono 12 milioni.

Altro traguardo è stato il divieto di sperimentazione animale per i prodotti cosmetici. Pur con questi limiti, in certi casi la sperimentazione animale è purtroppo una pratica ineludibile. I metodi alternativi (colture in vitro, simulazioni al computer, tecniche di imaging, chip al Dna) sono “un aiuto prezioso nella fase di sperimentazione intermedia, – sostiene Silvio Garattini, direttore dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano – ma nonostante gli importanti passi in avanti delle tecnologie e delle conoscenze, la sperimentazione è ancora necessaria” .   

Fonte: wired.it

 

Una cuffia blu dotata di elettrodi, un dispositivo grande quanto un telecomando e un semplice tablet. Così è composta la macchina tutta italiana che legge, interpreta e traduce in azioni il pensiero umano. Si chiama Brindisys ed è frutto di un progetto di ricerca guidato Febo Cincotti, ricercatore della Fondazione Santa Lucia Irccs di Roma, finanziato da Fondazione AriSla per la ricerca sulla Sla, con il contributo di Aisla, Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica. Il prototipo permette ai pazienti in uno stato avanzato della disabilità in cui non si è in grado di muovere neppure gli occhi, di comunicare e agire usando gli  impulsi del cervello. In questo modo le persone affette da Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) in stadio avanzato possono rendersi più indipendenti. Possono per esempio accendere e spegnere la luce, aprire una porta e formulare parole e frasi semplici senza muovere muscoli.

Brindisys

Il nuovo prototipo può contare sull’aiuto di un elaboratore miniaturizzato simile a quelli usati all’interno dei riproduttori dvd, per riconoscere l’intenzione del paziente dall’esame del suo segnale elettroencefalografico, senza l’utilizzo di un computer potente.  “Il progetto è nato con l’obiettivo di realizzare un sistema di ausilio - spiega Cincotti - che includa un’interfaccia cervello-computer semplice, incorporata in un apparecchio indipendente senza bisogno di un personal computer. Altri dispositivi analoghi sono stati ideati nel corso degli anni, ma nessuno è stato pensato per rispondere alle esigenze dei malati di Sla, che variano col progredire della malattia”.

Brindisys

Gli elettrodi posizionati sulla cuffia rilevano i comandi immaginati dal paziente ed espressi sotto forma di segnali elettrici prodotti dal cervello. Il segnale viene letto da un dispositivo poco più grande del palmo di una mano che poi li traduce in comandi e li trasmette al tablet da cui parte l’esecuzione dell’azione. La traduzione del pensiero avviene in circa 10 secondi e si possono svolgere diverse azioni: dalla riproduzione vocale di una frase pre-impostata alla formulazione lettera per lettera di frasi nuove fino a comandare azioni vere e proprie quali accendere la televisione, cambiare canali, aprire la porta, spegnere la luce, ecc.

“Fin dall’inizio del progetto – sottolinea Cincotti - il nostro obiettivo è stato identificare i bisogni specifici dei pazienti, e coinvolgerli nella validazione del sistema per confermarci che stiamo procedendo nella direzione giusta”. Primo step per arrivare al prototipo, infatti, è stata l’indagine su un campione di pazienti, familiari ed esperti, che ha permesso di individuare le principali esigenze comunicative dei malati.

Dopo la fase di studio e gli esperimenti per realizzare il prototipo, a distanza di poco più di un anno ha preso il via la fase clinica e un gruppo pazienti lo sta ora sperimentando. 

In questa prima fase clinica, i pazienti, reclutati su base volontaria ma ciascuno a un diverso livello di avanzamento della malattia, sono condotti nella casa domotica della Fondazione Irccs Santa Lucia di Roma: un appartamento progettato per le persone con disabilità dove tutto è automatizzato e dove con Brindisys è possibile, per esempio, regolare lo schienale della poltrona o l’inclinazione del letto, ecc. 

In una fase successiva il prototipo sarà affidato ai pazienti che potranno facilmente utilizzarlo a casa propria. Dalle loro risposte partirà poi una nuova versione del dispositivo. Le possibili applicazioni di Brindisys non si limitano ai soli pazienti affetti da Sla, ma il suo uso può rendere più agevoli i rapporti tra malato e mondo circostante per tutte le patologie che limitano in maniera altrettanto grave le funzioni motorie. 

“Uno degli obiettivi istituzionali della Fondazione AriSla -  commenta Renato Pocaterra, segretario generale della Fondazione AriSla - è sostenere la ricerca volta a migliorare le condizioni di vita dei pazienti anche attraverso lo sviluppo di nuove tecnologie. Il progetto Brindisys è stato finanziato proprio con questo intento, perché, dopo essere stato sottoposto a un processo di selezione di peer review, è stato valutato dal comitato scientifico internazionale tra le proposte più innovative e interessanti sul fronte degli ausili per la comunicazione dei pazienti di Sla”.

Fonte: wired.it

 

Con tutto il tempo che aveva passato sott’acqua, ora a liberarsi di una camicia di forza, ora dalle catene che gli imprigionavano il corpo, era diventato un maestro delle fughe impossibili. Ma se lui, Harry Houdini (1874-1926) le usava per dar spettacolo e intrattenere la folla accorsa a vedere l’ultima maestria dell’illusionista ungherese, c’erano anche quelli per cui la fuga dall’acqua era una questione di vita e di morte più che di magia. Erano i soldati della marina militare e per loro Houdini avrebbe messo a disposizione le sue conoscenze di escapologo (così si chiama un mago delle fughe da costrizioni fisiche) sviluppando una speciale tuta da immersione, per la quale ricevette il brevetto il primo marzo 1921.

The Grim Game, 1919 Movie poster

A onor del vero, e a dispetto delle buone intenzioni, la tuta non fu un successo, pare per alcuni difetti di funzionamento. Era stata pensata per rendere più semplice ai soldati, in caso di pericolo, liberarsi dalla tuta stessa in acqua, senza bisogno di assistenza. Bastava staccare una giunzione in prossimità della vita che univa la parte superiore della divisa a quella inferiore, e via, in superficie in cerca di aria.

Non era la prima volta che Houdini metteva a disposizione le sue capacità di illusionista per gli altri. Si racconta infatti che a fine carriera fosse solito rivelare alcuni dei suoi trucchi di escapologo ai militari impegnati in guerra, come per esempio i consigli necessari a liberarsi dalle manette dei tedeschi o fuggire dalle prigioni. D’altronde lui era stato davvero un mago in questo, per sua stessa ammissione: “Non c’è prigione che può tenere; nessuna mano o gamba di ferro o serrature di acciaio che mi possono ammanettare. Non ci sono funi o catene che possono tenermi lontano dalla mia libertà”.

La passione per la magia era nata in lui da piccolo, come accade a molti bambini, solo che lui a differenza di molti altri, un mago, come quello che aveva visto quella volta con suo padre, lo sarebbe diventato davvero. Massima ispirazione un libro sulla vita di Jean Eugène Robert-Houdin, l’illusionista francese cui rubò professione e nome. Quello reale infatti era Ehrich Weiss, che prima il trasferimento dall’Ungheria, dove era nato, all’America, patria di adozione, e poi la passione per la magia avrebbero infine storpiato in Harry (americanizzazione di Ehrich) Houdini (la “ i” per differenziarsi dal collega francese).

Cominciò facendo l’ acrobata nei circhi ed esibendosi in occasione delle fiere e nei parchi, spesso giocando con le carte. A dare ancora più forza alla scelta della carriera di mago fu poi l'incontro con Beatrice  Bess Rahner, anche lei nel mondo dell’illusionismo, e sarebbe stata per Houdini non solo una moglie ma anche una compagna sulle scene. Ma l'abilità che lo rese famoso, la passione per la fuga da catene e costrizioni invece nacque, pare, dopo la vista di una camicia di forza.

Pensò che se avesse trovato il modo di liberarsene il pubblico sarebbe stato colpito dallo spettacolo. D’altronde poteva anche contare sul fatto che era sempre stato un valido atleta.

E così cominciò a guadagnarsi gli occhi delle stupite folle americane, davanti a cui riappariva dopo essersi liberato ora da una scatola chiusa in acqua ora da una camicia di forza appeso a testa in giù sopra le rotaie della metro. Anche se la fama l’avrebbe guadagnata soprattutto durante la tournée   europea di cinque anni, durante la quale lui e la moglie divennero delle vere e proprie star. Anche del cinema, grazie al quale potè mostrare a tutti, e ovunque, le sue fughe impossibili.

A fine carriera invece avrebbe virato i suoi interessi verso spettacoli meno impegnativi, ma non per questo meno plateali. Fu infatti un fervido attivista nello smascherare i trucchi usati dai medium per dar vita a fenomeni paranormali. Da mago infatti immaginava bene quello che potesse accadere durante una seduta spiritica. Eppure, malgrado questo, fu sempre intrigato dal paranormale e la moglie provò a lungo a contattarlo nell’aldilà una volta morto. Ma anche lui, il grande Houdini, nell’impresa di mettersi in contatto con i viventi, fallì.

Fonte: wired.it

 

La domanda non è fine a se stessa, anzi: ribalta completamente il punto di vista di chi da anni è alla ricerca di esopianeti simili alla Terra. È come dire: se vogliamo trovare un pianeta che assomigli al nostro, dobbiamo sapere esattamente come questo appare. A porre la questione in questi termini è stato Michael Sterzik dello European Southern Observatory (Eso). Che dalle pagine di Nature ha anche fornito diverse informazioni per mettere insieme una prima risposta.

Da qualche tempo si è scatenata una vera e propria caccia a pianeti extrasolari potenzialmente abitabili. Si scruta lo Spazio remoto, alla ricerca di segnali (spettri di emissione di radiazioni) e poi si tenta di interpretare i dati per capire se si è in presenza di un corpo celeste con dimensioni paragonabili a quelle terrestri e per indovinarne le caratteristiche. Ma le cose sarebbero più semplici se si avesse già un punto di riferimento, qualcosa che indichi cosa cercare. Ed eccoci quindi alla domanda: che tipo di segnali visibili dallo Spazio emettono le forme di vita vegetale e l'atmosfera terrestri?

Per ottenere la firma spettrale del nostro pianeta, i ricercatori hanno usato un trucco: l'osservazione del cosiddetto raggio di Terra. “ La luce del Sole colpisce la Terra che la riflette verso la Luna: la superficie lunare, però, funziona come un enorme specchio che ci riflette a sua volta la nostra luce. E questo è quello che abbiamo osservato con il Very Large Telescope (in Cile, nda)”, ha spiegato Sterzik.

Gli astronomi hanno osservato sia il colore sia il grado di polarizzazione della luce riflessa (con una tecnica nota con il nome di spettropolarimetria) e hanno trattato queste informazioni come se riguardassero un esopianeta, cercando i segni della presenza di forme di vita organica. Si è tenuto conto soprattutto di alcuni indicatori, come la particolare combinazione di gas nell'atmosfera (che in generale è composta per il 78% azoto, per il 21% di ossigeno, e per l'1% di anidride carbonica e altri gas), che porta con sé le informazioni sulla biosfera. In pratica può essere considerata come l'impronta della vita.

Con un percorso a ritroso, da questa biofirma Sterzik e colleghi sono riusciti a dedurre che nell'atmosfera terrestre sono presenti nubi di vapore acqueo, che parte della superficie è costituita da oceani e che un'altra percentuale è coperta da vegetazione. Non è tutto: sono anche riusciti a rilevare i cambiamenti nella copertura nuvolosa e della presenza di piante in base alle diverse parti del pianeta che riflettono verso la Luna.

“La luce che ci arriva da un pianeta distante è sopraffatta da quella della sua stella, quindi è molto difficile analizzarla.

È come cercare di studiare un granello di polvere che si trova oltre una lampadina accesa ”, esemplifica Stefano Bagnulo dell' Armagh Observatory (nell'Irlanda del Nord), co-autore dello studio. “ Ma, a differenza della luce emessa da una stella, quella riflessa da un pianeta è polarizzata. In questo modo si riesce a isolare il segnale”, continua Bagnulo.

Invece che cercare omini verdi, qualcuno d'ora in poi guarderà alle impronte verdi (o a qualcosa del genere). Magari con uno dei telescopi di prossima generazione, come lo European Extremely Large Telescope – 23 volte più potente nel captare la luce polarizzata rispetto al Very Large Telescope – che ha tra gli obiettivi proprio quello di cercare esopianeti abitabili.

Fonte: wired.it

 

Un genio visionario, un corridore fulmineo, uno strumento fondamentale per l’ intelligence britannica, un precursore dei computer e delle intelligenze artificiali, un omosessuale dichiarato e per questo perseguitato fino alla morte. Alan Mathison Turing era tutto questo e, come spesso accade per le persone di raro acume e bellezza interiore, molto più di questo. Basta dare uno sguardo agli scritti teorici che Turing aveva prodotto sulla morfogenesi, sulle intelligenze artificiali o sulla teoria computazionale per capire quanto avrebbe potuto ancora dare alla scienza se solo la sua vita non si fosse spenta a 42 anni.

A quasi  100 anni dalla sua nascita, avvenuta il 23 giugno 1912 e celebrata da Nature questa settimana, Alan Turing rimane un’equazione irrisolta, che tutte le commemorazioni e le scuse tardive di questo mondo non aiuteranno a chiarire. Vale la pena tuttavia ricordarlo nella sua interezza, per il suo lavoro, per le sue intuizioni, per la sua vita e il ruolo di vittima di un razzismo omofobo che sparava le sue ultime cartucce, che suo malgrado si è ritrovato a ricoprire.

1) Macchina di Turing:
Il lascito più noto e importante di Turing è anche il più complesso e difficile da comunicare. Sostanzialmente, per Macchina di Turing si intende una macchina teorica costituita da un nastro di dati infinito riscrivibile e un meccanismo che può: leggere il nastro, scrivere/cancellare il nastro e muoversi avanti e indietro sul nastro. Si tratta in pratica di un modello teorico di macchina in grado di risolvere algoritmi e che è stato fondamentale per lo sviluppo dell’algoritmica come la conosciamo oggi. Turing sviluppò questo concetto quando aveva solo 24 anni, come risposta all’allora noto Entscheidungsproblem (in italiano: problema della decidibilità). Oggi, la Macchina di Turing è un concetto fondamentale per chiunque si occupi di Teoria della Computazione.

2)  Il calcolatore Colossus:
A partire dai concetti alla base della macchina universale di Turing è stato progettato e realizzato il primo calcolatore elettronico programmabile della storia, il suo nome era Colossus. Progettato da Max Newman e realizzato poi da Tommy Flowers, Colossus venne utilizzato a partire dal 1944 per decrittare i messaggi cifrati tedeschi codificati dalla Cifratrice Lorenz. Sfruttando l’algebra Booleana, Colossus confrontava due flussi di dati: il messaggio criptato e un tentativo di decodifica, e valutava l’attendibilità del messaggio trascritto.

3) Il metodo di Turing e la crittoanalisi:
Quando nel ’39 l’inghilterra entrò in Guerra, Turing stesso era entrato a far parte di un gruppo di crittoanalisti, nella cosiddetta Stazione X, a Bletchey park, con i quali lavorò alacremente alla decrittazione dei messaggi codificati con la macchina nazista Enigma. Il metodo di Turing (o Turingery) permise agli inglesi di decifrare i messaggi dei nazisti a partire da errori crittografici. Quando, ad esempio, due messaggi venivano prodotti per sbaglio usando la stessa chiave di codifica, il metodo di Turing permetteva di risalire al codice di codifica, all’impostazione delle camme sulla macchina per cifrare, e in definitiva, al contenuto del messaggio. Tra i vari meriti ( poco riconosciuti, poiché in gran parte coperti da segreto militare all’epoca) ricordiamo i successi ottenuti nella decodifica dei messaggi navali, la creazione di un sistema ( Delilah) per codificare messaggi vocali l’invenzione della procedura del bunburismo.

4) ACE:
Tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e il marzo del 1946, Alan Turing lavorò presso il Laboratorio Nazionale di Fisica (Npl) di Londra, dove sviluppò un progetto chiamato Automatic Computing Engine (Ace). Oltre a essere il primo esempio di computer con programma caricabile esternamente (ovvero in cui i programmi non erano cablati nell’hardware) era anche il primo esempio di computer elettronico digitale non ideato per scopi militari. L’Ace sfruttava una memoria a linee di ritardo e quasi 7000 valvole termoioniche. Nonostante l’effettiva qualità del progetto (l’Ace si basava anche su un rudimentale linguaggio di programmazione), i lavori per la realizzazione di questo calcolatore vennero rallentati dai costi eccessivi. Il primo modello funzionante di Ace entrò in attività solo nel 1950, quando Turing ormai aveva abbandonato il Npl.

5) Intelligenza artificiale:
Ma oltre a correre, Turing in questo periodo aveva iniziato a occuparsi di neurologia e fisiologia, e aveva cominciato a studiare come riprodurre un’intelligenza artificiale o, come la chiamava lui, un Macchina Intelligente. Ispirandosi alle complicate interconnessioni neuronali, Turing ipotizzò di creare un sistema logico che partisse da un sistema inizialmente disorganizzato che poi si sarebbe fatto evolvere fornendo istruzioni da un computer. Nel 1948 i computer erano ancora un’ipotesi, e le teorie di Turing dovettero aspettare decenni prima che Craig Webster provasse a implementarle su un moderno computer.

6) Il primo giocatore di scacchi elettronico:
Ma effettivamente, un programma di intelligenza artificiale Turing lo realizzò. Era il 1948, e dovendo scegliere una funzione tipicamente umana da riprodurre, il 36enne optò per l’amato gioco degli scacchi. Realizzò un semplice algoritmo, che avrebbe potuto essere utilizzato per istruire un calcolatore ad affrontare una partita con un uomo. Peccato che non esistessero ancora calcolatori sufficientemente potenti. Turing allora giocò alcune partite di scacchi seguendo lui stesso le istruzioni dell’algoritmo, faceva una mossa ogni 30 minuti: perse.

7) Test di Turing:
L’eredità più nota che Turing ha lasciato nel campo delle intelligenze artificiali è sicuramente il Test di Turing. In un articolo pubblicato sulla rivista Mind nel 1950, Turing stabilì un particolare criterio per determinare se un calcolatore o una qualsiasi macchina potesse essere considerata “pensante”. Turing immaginò una situazione in cui un uomo A e una donna B fornissero risposte dattiloscritte a una persona C che si trovava poi a dover stabilire chi dei due fosse uomo o donna. Nell’eventualità in cui una macchina si sostituisse ad A o B, se i verdetti forniti da C fossero statisticamente identici alla situazione precedente, allora la macchina poteva essere considerata pensante. Il test di Turing è stato più volte criticato e rielaborato, e ancora oggi nessuna macchina ha dimostrato di poterlo superare. Chi fosse interessato ad approfondire l’argomento, può trovare uno sviluppo narrativo interessante in Galatea 2.2 di Richard Powers.

8) Pattern biologici:
Secondo Turing, insomma, la morfogenesi biologica poteva essere codificata attraverso equazioni di reazione-diffusione. L’ipotesi di Turing era che i pattern più diffusi in natura (le spirali delle chiocciole, le macchie di leopardo, o i pigmenti della pelle) si formassero con leggi riconducibili alla successione numerica di Fibonacci. Si trattava di speculazioni teoriche, ma in seguito, anni dopo la morte del matematico inglese, si scoprirono corrispondere in gran parte dei casi a realtà.

9) Un genio corridore:
Solitamente l’immagine del genio va a braccetto con lo stereotipo dell’inviduo trasandato, allampanato e tutt’altro che aitante. Ecco, Turing questo stereotipo lo mandava in frantumi. Non solo curava la propria forma fisica, ma si dedicava abitualmente alla corsa sportiva. Nel 1945 venne invitato a far parte del Walton Athletic Club e si distinse in particolare nella maratona. Quando ancora lavorava a Benchley Park, Turing a volte colmava la distanza che separava la Stazione X da Londra correndo (oltre 40 km). Il ragazzo, infatti, era un corridore eccellente, e tra il 1947 e il 1948 le sue performance raggiunsero livelli quasi olimpici. “ Quando correva si profondeva in grugniti terrificanti, ma prima che potessimo dire nulla ci sfrecciava a fianco come un proiettile” ha dichiarato Peter Harding del Wac “ Una notte gli chiesi per chi corresse, e quando rispose ‘nessuno’ lo invitammo a entrare a Walton. Lui accettò, e immediatamente diventò il nostro miglior corridore."

10)  La vergognosa persecuzione del governo britannico:
Si dice che tutto cominciò con un furto. Era il 1952, Turing si rivolse alla polizia per denunciare un amico che aveva ospitato in casa e che l’aveva in seguito derubato. Da questa denuncia, le autorità britanniche arrivarono a concludere che Turing intrattenesse abitualmente rapporti omosessuali, lo arrestarono e lo trascinarono in tribunale. Davanti al giudice, Turing non fece mistero dei propri gusti sessuali e dichiarò semplicemente che non ci trovava nulla di male. All’epoca l’omosessualità era ancora reato in Gran Bretagna e il matematico fu costretto a scegliere tra due opzioni irricevibili: la galera o la castrazione chimica. Per un anno intero, Turing si sottopose a iniezioni di estrogeni, vide la sua libido calare e sviluppò ginecomastia (crescita dei seni). Nonostante l’umiliazione e la tortura di Stato, Turing continuò a lavorare nei vari campi in cui si era precedentemente distinto. Ma durò poco: l’8 giugno del 1954 fu ritrovato morto suicida nella sua stanza, avvelenato da una mela intrisa di cianuro.

Fonte: wired.it

 

Sotto la superficie di Facebook si muove un esercito di moderatori incaricato di rimuovere i contenuti proibiti dal social network. Troppo numerosi per essere gestiti da Menlo Park, i censori sono spesso reclutati in outsourcing da grandi imprese come oDesk. E come per tutte le task force c'è bisogno di un manuale di censura che detti ciò che è giusto cancellare. Tutte queste informazioni sono contenute in un documento riservato diffuso da una freelance marocchina di 21 anni, costretta a lavorare come censore per 1 dollaro all'ora.

Nelle 13 pagine pubblicate si può davvero trovare di tutto: violenza, bullismo, odio razziale e pornografia. Tutte categorie di immagini e contenuti per cui scatta immediatamente la censura o la segnalazione diretta al team interno a Facebook. Ma esistono casi in cui anche foto del tutto innocue possono essere bollate come proibite. Per esempio, l'allattamento al seno è considerato alla stregua di un contenuto osé.

Una volta filtrato il documento, la risposta di Facebook non si è fatta attendere: " Per  processare in modo rapido ed efficiente milioni di segnalazioni che riceviamo ogni giorno, abbiamo deciso di appoggiarci a società esterne per effettuare una classificazione iniziale di una piccola parte dei contenuti segnalati. Queste società sono soggette a rigorosi controlli di qualità e abbiamo implementato diversi livelli di tutela per proteggere i dati degli utenti che usano il nostro servizio. Inoltre nessun altra informazione viene condivisa con terzi oltre ai contenuti in questione e alla fonte della segnalazione. Abbiamo sempre gestito internamente le segnalazioni  più critiche e tutte le decisioni prese dalle terze parti sono soggette a verifiche approfondite. I nostri processi vengono migliorati costantemente e i fornitori sono monitorati su base continuativa. Questo documento fornisce una fotografia dei nostri standard applicati a uno dei nostri fornitori". (Grassetto nostro, ndr)

Ecco i punti principali del manuale di censura.

Nudità e sesso
In questa categoria ricadono tutte quelle immagini considerate esplicite: no a giocattoli erotici, violenze sessuali, persone che utilizzano il bagno, immagini di corpi nudi (eccetto quelle a carattere artistico) e capezzoli (tranne quelli maschili). Deve essere per questo motivo che le immagini di allattamento sono inserite nella black list. Ci sono poi dei casi in cui i moderatori freelance sono obbligati a lasciare la decisioni nelle mani del team di Facebook. Si tratta di casi estremi come pedofilia, necrofilia e animalismo.

Droga e violenza
I contenuti che hanno a che fare con la marijuana vengono censurati solo se chi li posta è intenzionato a venderla. Per tutte le altre sostanze stupefacenti scatta il blocco a meno che non siano citate in contesti, medici, scientifici o accademici. Anche le immagini di violenza sono trattate con il pugno di ferro: proibiti i video di bullismo così come le scene di rissa. La censura scatta subito sui simboli d'odio, a meno che non vengano mostrati per essere condannati.

Privacy
In questa categoria ricadono tutti quei contenuti su cui i moderatori devono svolgere ricerche sull'autore prima di far scattare la censura. Sono proibiti infatti tutti i contenuti che rivelano dati personali di persone terze o immagini che li ritraggono in situazioni imbarazzanti. Di contro, se un utente posta una propria immagine in stato di ebbrezza, i censori non procedono.

Linguaggio proibito
Ci sono numerosi casi in cui moderatori devono agire sul confine di una invisibile linea di confine tra cosa accettabile e cosa non lo è. Accade soprattutto nel caso dei commenti scritti, dove le sfumature di linguaggio possono far pendere la bilancia della censura da una parte o dall'altra. In questo senso, gli inviti sessuali, le minacce e l'istigazione al suicidio vengono censurati solo se ritenuti intenzionali.

Movimenti politici
Il documento diffuso dalla freelance marocchina contiene numerosi riferimenti al Pkk, il partito in cui si riconosce parte del popolo curdo. Questa organizzazione ha intrapreso varie azioni di lotta armata contro la Turchia nel tentativo di rivendicare l'autonomia del Kurdistan, e non è tollerata dal governo di Istanbul. Di conseguenza è proibito mostrare immagini inneggianti al Pkk o al suo fondatore Abdullah Öcalan. Di contro è data piena libertà di attaccarli pubblicamente su qualsiasi bacheca.

L'escalation
Il manuale di censura indica inoltre tutti quei casi particolari in cui i censori devono passare la patata bollente al team di Facebook. Oltre ai casi citati in precedenza, spiccano i contenuti che ritraggono il rogo di bandiere turche, l'attacco al padre della patria Ataturk e la negazione dell'Olocausto. Nella lista rientrano anche e i contenuti che riguardano l'autolesionismo, le minacce a pubblici ufficiali o a capi di stato e i casi di bracconaggio su specie protette.

Fonte: wired.it

 
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