Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.

Sembra sia questo il meccanismo che permette alla tarantola (famiglia Theraphosidae), ragno dalle grosse dimensioni, di arrampicarsi sulle superfici lisce. A svelarlo, uno studio effettuato su tre specie diverse da alcuni scienziati della Newcastle University (UK), che hanno pubblicato le loro osservazioni sul The Journal of Experimental Biology.
La filiera usata dai ragni per tessere la loro tela si trova di norma sull'addome. Prima di tutto quindi, gli autori della ricerca, guidati da Claire Rind, hanno cercato di capire se l'ipotesi di una possibile filiera nascosta nelle zampe fosse verosimile. Per farlo hanno messo alcuni individui di tarantola rosa cilena (Grammostola rosea) in un terrario, il cui fondo era stato ricoperto di vetrini da microscopio. Capovolgendo e agitando lentamente la teca, gli scienziati hanno potuto constatare che i ragni, come veri scalatori, scivolavano per un attimo ritornando subito al loro posto. L'osservazione dei vetrini utilizzati come base ha poi rivelato la presenza di tracce di seta sulla superficie, e filmando l'operazione da vicino gli scienziati si sono accorti che non appena l'animale perde l'equilibrio, dei filamenti di seta vengono emessi non dall'addome quanto invece dai tarsi (l'ultimo segmento delle zampe).
In un secondo momento, per capire quali strutture delle zampe producessero questi “cavi di sicurezza”, i ricercatori hanno osservato, al microscopio elettronico a scansione (strumento che riesce a visualizzare strutture estremamente piccole), le mute abbandonate di individui appartenenti a tre specie diverse di tarantola (G. rosea, Poecilotheria regalis, Brachypelma auratum). In tutte gli studiosi hanno scoperto l'esistenza di sottili tubicini, rinforzati da cuticola e nascosti tra le setole dei cuscinetti adesivi delle zampe: sarebbero proprio queste strutture a produrre i filamenti di seta.
Dal momento che i gruppi studiati sono distanti tra loro geograficamente - provengono rispettivamente da Cile, India e Messico - e filogeneticamente (sono solo lontanamente imparentate), secondo gli scienziati, è probabile che tutte le specie di tarantola producano simili fili di seta salva-vita dalle zampe. Per questi ragni, infatti, sarebbe altrimenti impossibile e rischioso, a causa del loro peso, arrampicarsi usando semplicemente i cuscinetti adesivi, come avviene comunemente negli altri aracnidi.
Fonte: galileonet.it - Riferimenti: The Journal of Experimental Biology doi: 10.1242/jeb.055657
Una piccola piantina sul balcone di casa, qualche zolla ricavata nel giardino oppure un appezzamento preso in prestito nel parco comunale, sono molti i modi con cui si può cercare un rinnovato contatto con la natura. C’è anche chi preferisce la realtà virtuale, e gioca a fare il contadino con Farmville. A metà strada c’è il progetto “Le verdure del mio orto”, che in partnership con l’azienda biologica “Le Spinose”, in Sabina, permette anche a chi vive a Roma e d'intorni di avere un orto biologico a distanza e di coltivarlo virtualmente. In questo caso però, a differenza di quanto avviene nel famoso giochino di Zynga, i frutti della terra sono reali.

Ecco di cosa si tratta: è possibile prendere in affitto un appezzamento di terreno e farlo coltivare da un contadino esperto secondo le nostre preferenze e indicazioni, espresse tramite internet. Il contadino si prenderà cura dell’orto e una volta maturati i frutti li recapiterà direttamente a casa del proprietario virtuale. Insomma, un modo nuovo di vivere l’agricoltura e di alimentarsi in modo sano. Quello nato in Sabina non è il primo orto a distanza. Il progetto ha preso il via nel 2009 nell’azienda agricola Giacomo Ferraris di Vercelli, destinata alla piantumazione di orti per rifornire (entro ventiquattro ore e senza costi aggiuntivi) di verdure, erbe, piccoli frutti e fiori, le aree metropolitane di Milano, Torino, Vercelli, Biella, Novara e Casale. La novità degli orti della Sabina rispetto agli appezzamenti del nord è che sono coltivati a biologico certificato Aiab (Associazione italiana per l’agricoltura biologica). “Questa iniziativa di filiera corta non solo crea un rapporto diretto tra produttore e consumatore e rappresenta l’ennesimo canale per fruire dei prodotti biologici in garanzia Aiab, ma si inserisce nell’ambito di una tendenza sempre più diffusa: la ‘rivincita’ della campagna sulla città”, commenta Andrea Ferrante, presidente nazionale Aiab.
Creare il proprio orto è semplice. Basta collegarsi al portale www.leverduredelmioorto.it e scegliere tra gli appezzamenti di terreno disponibili: si parte da 16 euro per un orto di 30 mq e una fornitura settimanale di 3-4 kg di orto-frutta per arrivare a 34 euro per 11-12 kg di verdure. Per quantitativi superiori (destinati a ristoranti, gruppi di acquisto, ecc.) il prezzo varia in base alla richiesta. “Con pochi click è possibile costruirsi un orto a misura delle proprie esigenze e dei propri gusti, scegliendo le verdure da piantarci, e anche alcuni optional, come fiori, erbe e piccoli frutti”, spiega Antonella Deledda, titolare dell’azienda Le Spinose. Sarà poi il team di agricoltori a occuparsi della crescita delle colture secondo i metodi di coltivazione tradizionali e le conoscenze locali. Anche se non serve lavorare, seminare e irrigare il terreno, è possibile visitare e seguire l’evoluzione del proprio orto durante il weekend.
Fonte: galileonet.it

A 5.600 metri di quota, sulla cima di Kala Patthar del monte Everest, c’è una finestra da cui chiunque, da oggi, può affacciarsi e ammirare la vetta più alta del mondo. Basta infatti collegarsi al sito evk2cnr.org vederla comparire in tutta la sua magnificenza, in tempo reale e ad alta risoluzione.
La telecamera, attiva da questa mattina, è stata installata dalla Spedizione Share Everest 2011 del Comitato EvK2Cnr, partita il 22 aprile scorso dall’Italia. L’immagine ripresa dalla webcam mostra due picchi: a destra vi è la cima dell'Everest (8.848 metri), a sinistra il Lhotse (8.513 metri, ovvero la medaglia di bronzo tra le montagne più alte). Le cartoline virtuali dovrebbero essere aggiornate ogni pochi minuti.
L’impresa non è stata banale, per via dei problemi di connessione. “Stavamo lavorando a questa operazione da mesi. Abbiamo dovuto attivare più ponti e ripetitori da Kala Patthar fino al Laboratorio Osservatorio Piramide, nella valle del Khumbu (5.050 metri, ndr - Galileo), da dove tutto viene poi inviato in Italia, all'Isac-Cnr di Bologna”, ha raccontato Giampietro Verza, coordinatore delle operazioni di installazione.
Due i primati: si tratta della web a più alta quota e più prossima all’Everest, ad appena 11 chilometri. La missione Share Everest 2011 non è finita: tra poche settimane dovrebbe ripristinare la stazione meteorologica più alta del mondo (8.000 metri) del Colle Sud dell'Everest. Installata nel 2008, è la prima a effettuare misure meteorologiche continue da terra a quella quota ed è definita la punta di diamante del progetto di monitoraggio climatico-ambientale internazionale Share (Stations at High Altitude for Research on the Environment). Protagonisti saranno gli alpinisti Daniele Nardi e Daniele Bernasconi, ora in fase di acclimatazione all’alta quota.
Fonte: galileonet.it
Una soluzione al problema potrebbe arrivare da un nuovo tipo di cuffiette che gli ingegneri della AsiusTechnologies di Longmont (Usa), guidati da Stephen Ambrose, hanno presentato a Londra sabato 14 maggio 2011, in occasione della 130ma convention della AudioEngineering Society. La nuova tecnologia promette di ridurre tutte le sollecitazioni sonore sgradevoli per i timpani grazie a un semplice palloncino.

Gli studiosi hanno realizzato diversi modelli teorici dimostrando che, nello spazio chiuso tra la cuffia e il timpano, le onde sonore producono una pressione oscillante che mette a dura prova i piccoli muscoli alla base del 'riflesso acustico'. Grazie a questo meccanismo di difesa, l'orecchio scherma i suoni riducendoli di circa 50 decibel prima di trasmetterli dal timpano alla coclea. L'effetto che ne risulta causa una percezione ridotta del suono, che induce ad alzare il volume della musica. Lo sforzo dei muscoli di difesa aumenta vertiginosamente tanto da far sì che i sintomi di 'listener fatigue' si manifestino sotto forma di un fastidio più o meno pronunciato.
Per contrastare questo effetto, Ambrose e il suo team hanno pensato di realizzare un auricolare dotato di un cuscinetto esterno per frenare l'impatto delle onde sonore dirette verso il timpano. Il nuovo sistema – Ambrose Diaphonic Ear Lens (Adel) – si serve di una minuscola pompa che sfrutta la pressione generata dalle onde sonore per gonfiare una membrana protettiva all'interno dell'orecchio. Questo palloncino, a base di un polimero elastico, agisce come un secondo timpano in grado di dissipare l'eccesso di onde sonore senza il bisogno di stressare i muscoli del riflesso acustico. Oltre a migliorare la qualità audio, gli auricolari Adel ridurrebbero sensibilmente la 'listener fatigue'.
L'idea della Asius è stata valutata positivamente dalla National Science Foundation (Nsf), che ha deciso di finanziarla. “I dispositivi di Ambrose hanno subito attirato la nostra attenzione” - ha dichiarato Juan Figueroa, responsabile del programma di sviluppo tecnologico dell'Nsf – “le possibilità che offrono nel filtrare le onde sonore per i dispositivi audio rappresentano un avanzamento tecnologico in grado di migliorare il benessere della società”.
Fonte: galileonet.it
Nel primo caso il paziente è capace solo di movimenti riflessi, al contrario una persona in stato di minima coscienza dà segni, seppur minimi, di attività motoria volontaria, come il movimento degli occhi per seguire un famigliare. Ma cosa cambia a livello cerebrale? Se lo sono chiesti i ricercatori dell’Università di Liegi, dell’University College of London e dell’Università di Milano, scoprendo che la presenza di un certo grado di coscienza è associata all’abilità di diverse parti del nostro cervello di interagire tra loro in modo bidirezionale. Il loro studio è stato pubblicato su Science. Marcello Massimini, neurofisiologo dell’Università di Milano, che ha preso parte allo studio, spiega a Galileo l’importanza e il significato delle scoperta.

Dottor Massimini, perché è così difficile distinguere tra stato vegetativo e stato di minima coscienza?
“La difficoltà deriva dal fatto che, tipicamente, valutiamo la presenza di coscienza sulla base della capacità di un soggetto di interagire e comunicare con il mondo esterno, un metodo efficace ma non sempre sensibile. È infatti possibile che un soggetto sia completamente isolato dal mondo esterno, incapace di comunicare e sia, tuttavia, cosciente. Una situazione di questo tipo può occorrere a tutti noi durante la fase REM del sonno quando, benché incapaci di ricevere stimoli dall’ambiente esterno e benché paralizzati, sogniamo. A maggior ragione questa dissociazione tra capacità di coscienza e capacità di comunicare con il mondo esterno può occorrere in pazienti affetti da gravi lesioni cerebrali nei quali le vie sensoriali e le vie motorie possono essere interrotte”.
Come viene stabilità oggi a livello clinico la differenza tra i due stati?
“La diagnosi differenziale tra questi due stati si basa sulla somministrazione di test neuropsicologici specifici come la Coma Recovery Scale Revised. Fondamentalmente, queste scale valutano la capacità del paziente di fornire risposte motorie adeguate a fronte di stimoli più o meno specifici. Se queste risposte sono presenti, non vi è dubbio che il paziente sia, in qualche misura, cosciente. Il problema si pone quando la persona non risponde: in questo caso rimane il dubbio che il paziente sia cosciente, pur senza riuscire a scambiare informazione con l’ambiente esterno. Dunque, nel caso dell’esame clinico di chi ha subito una grave lesione cerebrale, l’assenza di una prova di coscienza non è necessariamente prova dell’assenza".
Quali sono invece le differenze tra stato vegetativo e stato di minima coscienza a livello cerebrale da voi studiate?
“Utilizzando l’elettroencefalogramma ad alta densità e un protocollo di stimolazione acustica (un tono acustico diverso, nel contesto di una sequenza di toni omogenei) abbiamo osservato un’importante differenza nel modo in cui l’informazione sensoriale viene processata dal cervello di pazienti in stato vegetativo rispetto a pazienti che sono in uno stato di coscienza minima. Come accade nel caso di soggetti sani, nei pazienti in stato di coscienza minimale uno stimolo sensoriale rilevante (un tono acustico diverso appunto) genera prima un’onda di attivazione neurale che procede dal basso verso l’alto, dalle aree corticali sensoriali primarie del lobo temporale verso le aree associative frontali, e poi un’onda in direzione opposta (top-down). Proprio quest’onda di rientro, dalle aree frontali associative a quelle sensoriali, manca nei pazienti con una chiara diagnosi di stato vegetativo”.
Che significato hanno queste differenze?
“Questi risultati confermano l’ipotesi che la coscienza derivi dalla capacità di diverse aree cerebrali di influenzarsi reciprocamente e dinamicamente. In altre parole, la coscienza dipende dalla capacità di un cervello di sostenere una complessa rete di comunicazione al suo interno e dallo svolgersi di un dialogo continuo e bidirezionale tra le aree corticali primarie e quelle associative. In futuro, lo sviluppo di metodiche in grado di ascoltare direttamente questo dialogo interno al cervello rappresenterà un passo importante per la diagnosi e la comprensione dei disturbi della coscienza in pazienti portatori di gravi lesioni cerebrali”.

In che modo sarà possibile comprendere meglio il “dialogo interno del cervello”?
“Il nostro studio era focalizzato su un particolare circuito, quello temporo-frontale, ma in realtà bisognerebbe valutare la capacità di comunicazione su una scala più vasta e generale. Per questo vale la pena sviluppare nuove tecniche di misura, come la combinazione di stimolazione magnetica transcranica e di elettroencefalografia, che siano in grado di accedere direttamente alla molteplicità di circuiti che costituiscono il sistema talamo-corticale”.
Fonte: galileonet.it
In Antartide i pinguini imperatore (Aptenodytes forsteri) si tuffano alla ricerca del cibo e nuotano a lungo sotto la superficie del mare, senza mai emergere per respirare. Nemmeno quando le scorte di ossigeno nei muscoli sono terminate. Come fanno? Alla Scripps Institution of Oceanography (University of California, San Diego) alcuni ricercatori hanno scoperto l’esistenza di due meccanismi fisiologici alternativi e una grande efficienza nel consumo dell’ossigeno.
I pinguini, prima di immergersi, fanno scorta di ossigeno che il loro organismo immagazzina in polmoni, sangue e muscoli. Quest’ultima riserva contribuirà alla produzione dell’energia muscolare necessaria al nuoto subacqueo, che può durare oltre venti minuti. L’energia viene infatti prodotta a partire dall’ossigeno, con un processo metabolico detto “respirazione aerobica”: quando l’ossigeno finisce, l’organismo è in grado di produrre ancora energia, anche se in modo meno efficiente, utilizzando la “respirazione anaerobica”: una sorta di strategia di riserva, la cui messa in atto è segnalata dalla presenza di lattato nel circolo sanguigno.

Nel caso del pinguino imperatore, il lattato compare 5-6 minuti dopo l’inizio dell’immersione (cioè ben prima che l’animale riemerga), mentre però l’ossigeno è ancora presente sia nel sangue che nei polmoni. Cosa innesca dunque il cambiamento di metabolismo? Nello studio presentato sul Journal of Experimental Biology, gli scienziati hanno dimostrato che è l’assenza di ossigeno nei muscoli ad attivare la respirazione anaerobica: il che vuol dire che questi uccelli nuotano, per la maggior parte del tempo, senza avere la fonte principale di energia proprio lì dove servirebbe.
Per arrivare a questa conclusione, i ricercatori hanno misurato i livelli di ossigeno nei muscoli pettorali (quelli deputati al nuoto) di un pinguino imperatore, utilizzando uno spettrometro con lunghezza d’onda nel vicino infrarosso, impiantato nei muscoli stessi. Inoltre, per poter controllare le tipologie di immersione, hanno inserito sul dorso dell’animale un misuratore di tempo e profondità.
I dati registrati hanno mostrato che in 31 delle 50 immersioni, nel metabolismo dell’animale si era innescata la respirazione anaerobica. Si è visto inoltre che la diminuzione dell’ossigeno nei muscoli del nuoto segue due andamenti diversi: in alcuni casi è costantemente decrescente, e il gas è completamente esaurito nel momento in cui si innesca la respirazione anaerobica; nel secondo caso invece, a metà dell’immersione, la diminuzione di ossigeno si arresta per un breve periodo di tempo, prima di ricominciare a scendere. In questo secondo modello, quindi, nella fase intermedia dell’immersione il muscolo viene rifornito di ossigeno proveniente dalle altre scorte, e ritarda l’inizio della respirazione anaerobica.
Nello studio gli scienziati hanno misurato anche l’efficienza metabolica di questo animale, rilevando un tasso di consumo di ossigeno nel tessuto muscolare estremamente basso, pari a un decimo di quello riscontrato in ambiente artificiale, e solo due volte il valore misurato a riposo.
Fonte: galileonet.it

Ognuno di noi si lascia alle spalle migliaia e migliaia di dati, sparsi nella Rete, a testimoniare il nostro andirivieni sul Web. Alcuni ricercatori stanno ora studiando il modo di cancellare le tracce digitali delle persone, ad esempio creando file “a tempo” che si autodistruggono dopo un certo periodo. Proprio recentemente qualcuno ha fatto dei notevoli passi in avanti in questa direzione. Michael Backes, programmatore e a capo della Information Security and Cryptography alla Universität des Saarlandes, in Germania, ha creato un software di auto-cancellazione delle immagini e delle fotografie pubblicate on line. Per ora il programma (che costa 10 dollari) funziona solo con i formati Jpeg e soltanto se si usa il browser Firefox (altrimenti non è visibile), ma Backes, che ha messo in piedi il progetto X-pire!, assicura che presto sarà disponibile per altre estensioni e altri browser.

La data di scadenza è incorporata nel codice della foto; una volta superata, il file sarà ancora sul Web, ma non sarà accessibile. Ma c'è un problema: la foto può essere copiata a piacimento da altri utenti direttamente dallo schermo. Per evitare questo, occorrono altri accorgimenti. Tra i grandi esperti di queste tecnologie vi è Viktor Mayer-Schönberger, docente di Internet Governance and Regulation a Oxford, e autore del libro "Delete: The Virtue of Forgetting in the Digital Age". In attesa che Mayer-Schönberger e colleghi realizzino i software che ci permettano finalmente di decidere il destino, se non delle informazioni che ci riguardano, almeno dei nostri files, esistono modi più semplici per non far apparire on line il proprio passato digitale, come ricorda un articolo pubblicato su New Scientist.
Eccone uno. Nel 1980 nasceva Usenet, una rete mondiale di server interconnessi dove archiviare i dati (articoli, messaggi, post) generati e scambiati dagli utenti nei forum. Una sorta di archivio pubblico consultabile da tutti gli abbonati. Uno dei più grandi di questi forum era gestito da una società chiamata Deja News, che consentiva ai suoi utenti di applicare uno speciale tag - “X-No-Archive” - ai files che non dovevano essere archiviati. In questo modo, chi voleva poteva cancellare il proprio passaggio sul Web. Quando Deja News fallì e il suo database passò a Google, gli utenti chiesero al nuovo proprietario di rispettare le vecchie regole. Cosa che continua a fare tutt’oggi.
Ovviamente ci sono anche rimedi più “casalinghi” e di buon senso: per esempio, cancellare tutto ciò che si pubblica sul Web, il cosiddetto “nuking”. Secondo uno studio condotto da Danah Boyd, sociologa del Microsoft Research di Cambridge, Massachusetts, si tratta di una buona abitudine già adottata da molti teenagers statunitensi, che hanno imparato a cancellare velocemente i post lasciati su Facebook.
Fonte: galileonet.it

Nelle sembianze, nell’intelligenza, nell’emotività. Volendo, anche nella suscettibilità ad alcune malattie. Sulla rivista scientifica Biological Psychiatry, è apparso un articolo che racconta dell’ultimo successo delle neuroscienze e dell’ informatica: un gruppo di ricercatori americani ha dato vita a un computer schizofrenico, che presenta gli stessi sintomi di un cervello umano affetto dallo stesso disturbo, cioè ha problemi di personalità e inventa storie irreali.
Secondo una delle teorie più accreditate per spiegare l’origine della schizofrenia, un cervello colpito da questa disfunzione è un cervello che apprende troppo. La causa di ciò è un rilascio esagerato del neurotrasmettitore dopamina, che non gli permetterebbe di discernere tra le numerose informazioni provenienti dall’esterno. Il risultato è che ogni cosa diventa estremamente importante e quindi degna di essere memorizzata. Ma se ci sono troppe informazioni, è difficile stabilire tra loro connessioni coerenti. Da qui, la tendenza a inventare storie senza alcun senso logico.
Per ricreare questo cortocircuito cerebrale in un computer, ricercatori dell’ Università del Texas ad Austin e della Yale University, negli Stati Uniti, hanno costruito Discern, una rete neurale artificiale capace di apprendere il linguaggio naturale. Gli hanno quindi raccontato delle semplici storie, dandogli la possibilità di memorizzarle così come fa un cervello umano: creando connessioni statistiche tra parole e frasi. A questo punto, i ricercatori hanno modificato uno dei parametri che controllavano l’elaborazione dell’informazioni in modo da simulare un iper-apprendimento. In altre parole, hanno impedito al computer di dimenticare, così come accade in un cervello stimolato da troppa dopamina.
Cosa è successo? Che il computer ha cominciato a inventare storie improbabili, mostrando segni di megalomania. In un caso, per esempio, ha rivendicato la paternità di un attentato terroristico. In un altro, ha risposto a una domanda relativa a uno specifico ricordo del passato in modo sconnesso, facendo improvvise digressioni e passando di continuo dalla prima alla terza persona. Come una persona schizofrenica, quindi. Se l’esperimento sembra provare che l’ipotesi dell’iper-apprendimento è corretta, i ricercatori non si sbilanciano e chiedono altro tempo per continuare le indagini. Ma sono consapevoli della potenzialità delle reti neurali artificiali per lo studio del cervello umano.
“Il processamento delle informazioni nelle reti neurali artificiali è simile a quello che avviene nel cervello umano”, ha detto Uli Grasemann, uno degli autori. “ Quindi, è probabile che entrambi si rompano nello stesso modo. E dal momento che possiamo controllare meglio una rete artificiale di un uomo, speriamo che questo tipo di studi possa aiutare anche la ricerca clinica”.
Fonte: galileonet.it - Via Wired.it
Negli animali questo comportamento è innato, affinato dai processi evolutivi nel corso di milioni di anni. Alle macchine, invece, potrebbe bastare un solo algoritmo condiviso. Come quello individuato dai ricercatori dell'École Polytechnique Fédérale (Epfl) e dall'Università di Losanna (Svizzera). I risultati, descritti su PloS Biology potrebbero portare a generazioni di intelligenze artificiali (Ai) in grado di cooperare e agire con la precisione geometrica di uno sciame d'api.

Negli anni '60, il biologo evoluzionista William Hamilton aveva ipotizzato che un singolo individuo tende a sacrificare il proprio benessere personale a favore di quello della sua famiglia o comunità, anche perché in questo modo garantisce la sopravvivenza del patrimonio genetico condiviso. Obiettivo dei ricercatori svizzeri era allora capire se si potesse indurre lo stesso comportamento anche nei robot.
Il team di ricerca coordinato da Dario Floreano, a capo del laboratorio di Sistemi intelligenti presso la Epfl, ha analizzato la diffusione dell'altruismo all'interno di 20 popolazioni di piccoli robot impegnati a cercare del 'cibo' in uno spazio chiuso. Compito delle macchine era quello di trovarlo e trasportarlo verso una base comune, per poi decidere se condividerlo o meno. In ogni popolazione era presente un differente numero di robot “imparentati” tra loro: come i membri della stessa famiglia condividono parte del patrimonio genetico, alcune macchine condividevano nelle rispettive memorie determinate serie di algoritmi. Tra le informazioni presenti nelle memorie c'era la formula usata da Hamilton per spiegare la sua teoria.
Durante le simulazioni, gli studiosi valutavano le performance in base al fatto che i robot riuscissero o meno a ottenere il cibo. Dopodiché copiavano, mutavano e ricombinavano gli algoritmi appartenenti alle macchine che erano riuscite a nutrirsi, e li trasferivano in una nuova unità robotica, simulando così, in qualche modo, il processo di selezione naturale. La strategia veniva ripetuta per alcune "generazioni" successive di robot. Alla fine della sperimentazione, Floreano e i suoi colleghi hanno scoperto che anche nei robot le popolazioni di “parenti” tendevano a rispettare la teoria di Hamilton: le macchine che appartenevano alla stessa famiglia di algoritmi tendevano a collaborare nella ricerca e nella distribuzione del cibo, così che tutti gli individui del gruppo risultavano nutriti. In questo modo gli algoritmi tipici della famiglia sarebbero stati preservati e trasmessi alle nuove unità.
“Grazie a questo esperimento siamo riusciti a selezionare un algoritmo che ci permette di ottenere la cooperazione attiva in qualsiasi altro tipo di robot”, ha spiegato Floreano su PLos. “Utilizzeremo questo codice altruista per migliorare i sistemi di controllo degli sciami di robot volanti. In questo modo potremo valutare se riusciranno a collaborare insieme per raggrupparsi in formazioni di volo più adatte alle diverse situazioni”.
Fonte: galileonet.it - Riferimenti: PLoS Biology doi:10.1371/journal.pbio.1000615
Otterreste così una nano antenna capace di catturare la radiazione infrarossa, molto simile ai nuovi dispositivi presentati su Science. Un team coordinato da Mark Knight della Rice University di Houston ha infatti costruito, su un substrato di silicio, delle innovative nano antenne in oro capaci di catturare la luce e convertirla in corrente elettrica. I ricercatori hanno sottolineato che questi dispositivi potrebbero aprire la strada a nuove interessanti applicazioni nel campo dei sensori di luce e dei pannelli solari.

La conversione di luce in corrente elettrica viene attualmente realizzata soprattutto grazie a fotodiodi al silicio, nei quali la luce incidente cede energia agli elettroni nel silicio, che possono così creare un flusso di corrente. Ma i fotodiodi non funzionano con la radiazione infrarossa, perché questa non trasporta abbastanza energia per eccitare gli elettroni. Le nano antenne, spesse una decina di nanometri e lunghe un centinaio, possono invece catturare la radiazione infrarossa, che induce, nelle antenne stesse, dei moti oscillatori degli elettroni detti plasmoni di superficie. Gli elettroni dell’oro, eccitati dai plasmoni, possono quindi “saltare” la barriera energetica che separa l’oro dal silicio, creando così un flusso di corrente nel silicio. Alcuni elettroni sono così energetici da “saltare” direttamente, mentre altri possono attraversare la barriera grazie all’effetto tunnel, uno dei più curiosi fenomeni descritti dalla meccanica quantistica.
I frutti di questo connubio fra nano antenne e dispositivi al silicio sono quindi dei nuovi congegni che potrebbero diventare di enorme importanza per il settore dei pannelli solari, visto che circa un terzo dell’energia solare che arriva sul nostro pianeta è proprio sotto forma di radiazione infrarossa.
Fonte: galileonet.it - Riferimento: DOI: 10.1126/science.1203056
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