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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 

Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Questo proverbio ben si adatta alla schiera di ottimisti che, infischiandosene di tutto ciò che di negativo accade loro intorno, continua a vedere il bicchiere mezzo pieno.

Detail-optimism

Come ci riescono? Secondo uno studio pubblicato su Nature Neuroscience, il cervello delle persone ottimiste ignora sistematicamente le brutte notizie, mentre è bravissimo a recepire, processare e tenere a mente quelle le informazioni positive. Semplicemente, si tappa i neuroni quando viene messo di fronte a situazioni che non gli piacciono, e compila la sua lista personale di bei ricordi, costruendosi un’immagine rosea (ma falsata) della realtà che lo circonda. Beati gli ottimisti, quindi, che vivono più felici? Mica tanto: se da una parte l’ottimismo fa bene alla salute, perché aiuta a tenere a bada i livelli di stress, quando diventa patologico può nuocere, impedendo alle persone di prendere le necessarie precauzioni contro qualsiasi rischio.

L’idea che un cervello ottimista si rifiuti di processare le cattive notizie è di un gruppo di ricerca coordinato da Tali Sharot dello University College London, in Gran Bretagna. Nel loro studio, i ricercatori hanno per prima cosa valutato l’indole di 19 volontari, dividendoli nei due gruppi di ottimisti e pessimisti. Successivamente, mentre il loro cervello veniva monitorato con risonanza magnetica funzionale, i volontari sono stati messi di fronte a un’ottantina di scenari ipotetici e poco piacevoli, se non tragici: dalla possibilità di perdere il lavoro a quella di ammalarsi di cancro. Per ogni situazione, i partecipanti dovevano azzardare una percentuale: la possibilità che la disgrazia potesse accadere a loro.

A questo punto, i ricercatori hanno rivelato le reali possibilità (stimate secondo statistiche) che un evento come il licenziamento o la malattia potesse colpirli da un giorno all’altro. Dopo averli messi di fronte alla realtà, hanno quindi chiesto ai volontari di esprimersi nuovamente sulle probabilità di ciascuno scenario. Č uscito fuori che i più ottimisti tendevano a modificare le loro percentuali solo verso valori più alti, e cioè se quelle date dai ricercatori erano migliori di quanto aspettato. In caso contrario, non prendevano minimamente in considerazione i valori reali. Un esempio? Se la possibilità di ammalarsi di tumore fosse stata intorno al 30%, chi avevano detto in prima battuta 40% scendeva poi al 31%, mentre chi aveva azzardato un 10% aumenta solo lievemente il rischio. In altre parole, ignorava la realtà.

Grazie alla risonanza magnetica, i ricercatori sono stati in grado di risalire alla fonte (neurale) di questo comportamento. In tutti i partecipanti, ottimisti e pessimisti, quando la realtà era più rosea dell’immaginazione aumentava l’attività nei lobi frontali, l’area cerebrale deputata al processamento degli errori.

Al contrario, se le notizie erano peggiori di quanto aspettato, si registrava un’intensa attività solo nei lobi temporali delle persone più negative, mentre negli ottimisti, i segnali emessi da quest’area diventavano molto più deboli. Come si legge nello studio, è come se il cervello delle persone positive non riuscisse ad aggiornare le proprie valutazione della realtà, e premesse il bottone refresh solo quando la realtà supera le aspettative.

“ Questo lavoro mette in luce qualcosa che è sempre più evidente nelle neuroscienze, ossia che il compito di gran parte delle aree cerebrali coinvolte in processi decisionali è di testare le predizioni contro la realtà - ha commentato sulla Bbc Chris Chambers, neuroscienziato della Cardiff University, in Gran Bretagna, che non ha partecipato allo studio.

Ma gli autori mettono in guardia sul risvolto della medaglia: essere ostinatamente positivi non aiuta a prendersi le proprie responsabilità. Per esempio non porta le persone ad allacciare la cintura in automobile o a smettere di fumare, visto che, nelle loro menti, un incidente o una malattia sono sempre poco probabili.

Via: Wired.it

 

Una donna Tuareg durante la Cure Salee a Ingall, Niger.

Il volto dipinto di questa donna Tuareg non sarà certo passato inosservato durante l'ultima Cure Salee, la "cura del sale" o Festival dei Nomadi che si tiene ogni settembre nelle piscine saline nei pressi di Ingall, Niger settentrionale. Tuareg, Peul e Wodaabe, le popolazioni nomadi della regione, accorrono in questa zona per far rinfrescare il bestiame e festeggiare la fine della stagione delle piogge. Si pensa che il sale abbia effetti benefici sulla salute degli animali e dei pastori. Ma probabilmente a far bene all'umore sono i rapporti umani che dopo mesi di lavoro e solitudine, si riallacciano. Č questa l'occasione per cercare marito, ballare, cantare e raccontare le ultime novità agli amici ritrovati. Per attirare l'attenzione, gli uomini si esibiscono in prove di forza e parate, e ciascuno sfoggia il tradizionale make-up.

Una delle zucche scolpite dell'artista americano Ray Villafane.

Tagliare e sbucciare una zucca è già di per sé un'operazione tutt'altro che semplice. Immaginatevi quanta abilità servirebbe per ricavarne un faccione pensieroso come questo. Lo zuccone è opera di Ray Villafane, 42enne americano specializzato nella scultura del vegetale arancione. Altro che la classica zucca con ghigno malefico, in occasione di Halloween - che si festeggia proprio oggi - l'artista si è sbizzarrito con cucchiai e scalpelli dando vita a "volti" bitorzoluti ed espressioni da gargoil. Il trucco, ha spiegato Villafane, che è un ex insegnante di arte, è considerare la zucca alla stregua di un pezzo di argilla. Sceglierne una soda e ricca di polpa, meglio se un po' deforme: darà l'ispirazione per qualche buffa variazione sul tema.

Fonte: focus.it

 

Un gruppo di scalatori sul Caminito del Rey, un antico sentiero sulla gola di El Chorro, Andalusia.

Passo dopo passo, in fila indiana. Di più non consente questo sentiero sgangherato che si affaccia sulla gola di El Chorro, in Andalusia (Spagna meridionale). Il Caminito del Rey (il "cammino del re", in onore del sovrano Alfonso XIII che vi camminò nel 1921), è un antico passaggio ricavato nei primi anni del '900 sulle ripide pareti di arenaria, a oltre 100 metri dal fiume sottostante. Originariamente costruito per collegare due impianti idroelettrici limitrofi e consentire ai lavoratori di trasportare materiale tra uno e l'altro, è ora pericolante in molte sue parti e interrotto in alcuni punti. Sgangherato e pericoloso è ora chiuso al pubblico. Ma questi scalatori, debitamente attrezzati e messi in sicurezza, hanno voluto percorrerlo prima che inizino i grandi lavori di ristrutturazione per sistemarlo.

Un momento di sosta durante un'arrampicata sul Great Sail Peak (Isola di Baffin, Canada).

Anche i sostenitori delle vacanze avventurose potrebbero vacillare di fronte all'insolita "piazzola" scelta per queste tende. Per i campeggiatori che vi alloggiano, invece, si tratta di ordinaria amministrazione: quello che vedete, infatti, è il bivacco di una cordata di scalatori esperti - e un po' spericolati - immortalati dal fotografo del National Geographic Gordon Wiltsie sulle pareti del Great Sail Peak, un muro di granito che svetta sull'isola di Baffin, in Canada. Queste arrampicate, ha spiegato Wiltsie, possono durare anche alcuni giorni ed è necessario organizzare alcuni momenti di riposo, anche se a 1200 metri, come in questo caso. E i rischi sono sempre dietro l'angolo. Durante la primavera artica, per esempio, lo scioglimento della neve può provocare il distacco di massi che rotolano pericolosamente a pochi centimetri dagli scalatori.

Fonte: focus.it

 
By Admin (from 29/12/2011 @ 14:06:26, in it - Osservatorio Globale, read 1686 times)

Si sono tenuti teneramente la mano per 1500 anni prima di essere "scoperti". Gli scheletri di due amanti sepolti tra il quinto e il sesto secolo dopo Cristo sono stati rinvenuti a Modena, negli scavi archeologici di Via Ciro Menotti, in un'area ai limiti dell'antica città romana di Mutina (Modena appunto).

Le ossa, di un uomo e di una donna, appartenevano probabilmente a una coppia non molto ricca, e sono circondate da altre tombe di cui sette vuote, scavate e mai utilizzate.

La coppia che si tiene per mano da 1500 anni

La coppia di scheletri è stata rinvenuta qualche mese fa dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Emilia Romagna negli scavi archeologici di Via Ciro Menotti (Modena). La notizia della scoperta è stata diffusa solo a metà ottobre. Foto credit: Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Emilia-Romagna

Lo scheletro della donna è rivolto verso quello dell'uomo, e forse anche quest'ultimo era girato verso la sposa. Qualcosa, forse un'inondazione del terreno di sepoltura, avrebbe poi fatto spostare il capo dell'uomo dall'altro lato. Secondo gli esperti in antichità non era infrequente che una coppia morisse negli stessi giorni.

Talvolta a causa di un'epidemia, capitava che mentre i parenti cercavano di seppellire uno dei due sposi, morisse anche l'altro nel giro di poche ore.

Fonte: focus.it

 

Dopo due ore e mezza di salita, l'ultima cosa che questo scalatore dovrà fare sarà guardarsi alle spalle.

Lo scalatore scozzese Graeme Ettle sulla parete dell'Inn Pinn, sull'Isola di Skye in Scozia.

Sotto ai suoi piedi, infatti, c'è il scivoloso basalto dell'Inn Pinn ("Inaccesible Pinnacle") il pinnacolo più erto e sporgente della Sgurr Dearg, una montagna dell'Isola di Skye (Scozia), a 986 metri sul livello del mare. Una cima che, per la sua pendenza, è considerata tra le più insidiose da affrontare.

A conquistarla con una buona dose di sangue freddo e soltanto una fune di sicurezza, è stato il freeclimber professionista e guida alpina scozzese Graeme Ettle, lo scorso agosto.

Chi ha immortalato la scena non è meno coraggioso: per scattare la foto Dave Cuthbertson, amico e compatriota di Ettle, si è arrampicato su un pinnacolo poco distante, con tanto di treppiedi in spalla.

Fonte: Focus.it

 

 

Supersconti, supereroi, superconvenienti... È tempo di super e non potevamo farci mancare i superbiscotti per il pc: sono arrivati i supercookie e son tempi superduri se non vuoi far sapere in quali siti vai a curiosare. Per scamparla cerca online (attento però all'info-obesità, la neo-parola grassa di questo mese), ma è veramente dura quando è così facile leggere - nero su bianco - che cosa hai detto su Facebook ieri. O un mese fa. O anche un anno fa!
 

Tutto il Web in PDF

# Da Focus 228 (pdf)
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Dal lontano 2010
# Da Focus 218 (pdf)
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# Da Focus 215 (pdf)
# Da Focus 214 (pdf)
# Da Focus 213 (pdf)

Sorpreso? Bene: per sapere tutto e anche di più scarica in anteprima la rubrica "Web" di Focus 228 e avrai in punta di freccia tutti i link di questa pagina dedicata a Internet (e d'intorni), con le curiosità e le stranezze dalla Rete, i preferiti da non perdere, le pagine di cui non potresti fare a meno e altre di cui non avresti mai sentito la mancanza. E sempre nuove apps (è naturale) per il tuo iPhone e non solo.

Fonte: focus.it

 
By Admin (from 21/12/2011 @ 08:06:24, in it - Osservatorio Globale, read 1994 times)

Se anche questa mattina i mezzi pubblici vi hanno fatto perdere le staffe probabilmente invidierete un po' questo giovane cinese.

L'anti-stress per pendolari allestito nella metropolitana di Pechino.

Mentre attendono la metro i pendolari stressati di Pechino hanno infatti la possibilità di prendere a calci due grandi e morbidi sacchi appesi a questo scopo.

"Ogni anno passi 1824 minuti ad aspettare il metrò" recita una scritta vicino ai pungiball "quindi non perdere tempo e tira qualche calcio a questi cuscini anti-stress".

I ragazzi fanno la fila, e anche i dipendenti dei trasporti pubblici sembrano apprezzare. "Se non altro", ha dichiarato uno di loro, "non se la prendono con noi".

Fonte: focus.it

 

Una drammatica pagina di cronaca che ha relegato in secondo piano le motivazioni della protesta: gli Indignados scendono in strada in tutto il mondo per denunciare lo strapotere di un pugno di corporazioni, colpevoli, secondo loro, di aver portato l’economia al collasso. Per questo chiedono nuove idee, nuove regole, nuovi criteri di distribuzione della ricchezza. Hanno ragione? A quanto pare sì, e questa volta a dirlo non sono politici, sociologi o economisti, ma scienziati.

 

In uno studio, che verrà presto pubblicato sulle pagine della rivista PLoS One, un gruppo di ricercatori dello Swiss Federal Institute of Technology ha analizzato la complessa rete di rapporti che lega migliaia di multinazionali. E ha scoperto che, tra queste, appena 147 (soprattutto banche) detengono il 40% del potere economico globale. Quindi, alla fine dei conti, le paure degli Indignados non sembrerebbero poi così campate in aria, al di là di qualsiasi semplificazione ideologica.

"La realtà è molto complessa - ha detto al New Scientist James Glattfelder, uno degli autori dello studio -  e dobbiamo liberarci dai condizionamenti ideologici, siano teorie di cospirazione o di libero mercato. La nostra analisi è basata su dati concreti”. In effetti, i ricercatori svizzeri hanno raccolto informazioni su migliaia di multinazionali analizzando i dati con modelli matematici normalmente applicati allo studio del mondo naturale. Così facendo, sono riusciti a mappare l’intricata rete di connessioni (chi possiede chi e in quale misura) che lega tra loro corporazioni di tutto il mondo, scoprendo che a far girare l’economia sono davvero in pochi.

In realtà, altri studi avevano già dimostrato che il cuore del potere economico globale è concentrato nelle mani di pochi attori, ma questo sembra essere il più completo: oltre ad analizzare un campione molto ampio, infatti, ne mette a nudo tutti i rapporti, diretti e indiretti. Il database da cui i ricercatori svizzeri hanno raccolto le informazioni sulle multinazionali si chiama Orbis 2007 e racchiude circa 37 milioni di compagnie in tutto il mondo. Tra queste, ne sono state scelte solo 43.060, cioè le vere e proprie multinazionali.

Dall’analisi delle loro relazioni, è venuto fuori un gruppo di 1.318 corporazioni intimamente interconnesse (ognuna è legata, direttamente o meno, ad altre 2 o più compagnie). Questo gruppetto di multinazionali controlla la maggior parte delle società ad alta capitalizzazione azionaria e delle firme manifatturiere, il potere economico cui si ascrive il 60% dei ricavi operativi globali.

Ma scavando ancora più a fondo, i ricercatori hanno tirato fuori il vero zoccolo duro dell’economia: 147 compagnie super connesse che controllano quasi la metà della rete. “In effetti, meno dell’1% delle multinazionali ne controlla il 40%”, ha sottolineato Glattfelder. Ma chi sono queste superpotenze? Soprattutto istituti finanziari: per esempio Barclays Bank, JPMorgan Chase & Co, The Goldman Sachs Group e UniCredit SPA (per una lista completa delle top 50 si veda in fondo all’articolo).

Dov’è il pericolo se un piccolo numero di persone ha in mano quasi tutto il potere? In economia, come spiega John Driffill dell’Università di Londra, la concentrazione del potere non è di per sé né giusta né sbagliata. Il problema sono le connessioni interne: se la rete ha poche, concentrate maglie, l’economia è in pericolo. “Se un compagnia fallisce – afferma Glattfelder – il malessere si propaga”. In altre parole, una rete compressa significa un’ economia instabile. Ecco perché i ricercatori svizzeri rivendicano l’importanza dei risultati del loro studio: conoscendo l’architettura del potere economico globale, infatti, si può arginare il collasso intervenendo là dove la rete è più debole (tagliando alcune connessioni e coinvolgendo nuovi soggetti per costruirne di nuove). Lo stesso Glattfelder ipotizza regole anti-trust internazionali che, al pari di quelle nazionali, limitino il numero di rapporti tra multinazionali.

Yaneer Bar-Yam, a capo del New England Complex Systems Institute (Necsi), suggerisce un’altra soluzione: tassare le multinazionali che superano un certo limite di relazioni, così da scoraggiarle. Anche se è lui stesso a sottolineare che l’analisi dei ricercatori svizzeri è viziata da un errore, cioè dare per scontato che se una società ne possiede un’altra allora la controlla, un’equazione non sempre vera. Comunque sia, la realtà dei fatti è innegabile: la ricchezza del mondo è nelle mani di pochi. E tutti sospettano che questi pochi resisteranno il più strenuamente possibile alle perturbazioni esterne, cioè a qualsiasi tentativo di modificarne la struttura con nuove regole economiche.

Le prime 50 delle 147 multinazionali super-connesse:

1. Barclays plc;
2. Capital Group Companies Inc;
3. FMR Corporation;
4. AXA;
5. State Street Corporation;
6. JP Morgan Chase & Co;
7. Legal & General Group plc;
8. Vanguard Group Inc;
9. UBS AG;
10. Merrill Lynch & Co Inc;
11. Wellington Management Co LLP;
12. Deutsche Bank AG;
13. Franklin Resources Inc;
14. Credit Suisse Group;
15. Walton Enterprises LLC;
16. Bank of New York Mellon Corp;
17. Natixis;
18. Goldman Sachs Group Inc;
19. T Rowe Price Group Inc;
20. Legg Mason Inc; 21. Morgan Stanley;
22. Mitsubishi UFJ Financial Group Inc;
23. Northern Trust Corporation;
24. Société Générale;
25. Bank of America Corporation;
26. Lloyds TSB Group plc;
27. Invesco plc;
28. Allianz SE
29. TIAA;
30. Old Mutual Public Limited Company;
31. Aviva plc;
32. Schroders plc;
33. Dodge & Cox;
34. Lehman Brothers Holdings Inc;
35.Sun Life Financial Inc;
36. Standard Life plc;
37. CNCE;
38. Nomura Holdings Inc;
39. The Depository Trust Company;
40. Massachusetts Mutual Life Insurance;
41. ING Groep NV;
42. Brandes Investment Partners LP;
43. Unicredito Italiano SPA;
44. Deposit Insurance Corporation of Japan;
45. Vereniging Aegon; 46. BNP Paribas ;
47. Affiliated Managers Group Inc;
48. Resona Holdings Inc ;
49. Capital Group International Inc;
50. China Petrochemical Group Company.

Via Wired.it

 

Su di un tale scenario, la parte da protagonista se la sono accaparrata le banche (d’affari e non) che, con sagaci scelte, hanno dato vita alle diverse “bolle” speculative, le hanno portate al loro massimo sviluppo per poi determinarne la crisi. Giunti a questo punto, di solito, parte la fase gestionale che vede la comparsa sulla scena delle varie istituzioni internazionali e nazionali preposte alle operazioni di salvataggio, le quali si prodigano, più o meno malamente, nel tentativo di far sopravvivere le banche più deboli (in nessun caso i soggetti colpiti), magari favorendo la cannibalizzazione di quelle ritenute inidonee alla sopravvivenza.

Ovviamente è una partita complessa di cui, usualmente, riusciamo a vedere solo piccoli spezzoni che non ci consentono di comprendere fino in fondo quello che sta accadendo e, soprattutto, il prezzo che saremo chiamati a pagare, che non sarà mai solo un prezzo economico.
In tal senso mi sembra particolarmente edificante un aspetto dell’attuale crisi, sino ad oggi completamente ignorato dai media, e costituito da un’altra “bolla” in via di dilatazione, quella alimentare. Non è sicuramente cosa di poco conto poiché giunge a toccare direttamente un aspetto fondamentale della vita qual è l’alimentazione; eppure, a parte qualche rara notizia, neppure su Internet si riescono a trovare informazioni adeguate che ci consentano per lo meno di intravedere le conseguenze e i prezzi da pagare nel breve periodo. Per trovare qualcosa diviene così necessario ricorrere a giornali / riviste specializzate o, se si preferisce, di parte / schierati, quali The Ecologist che presenta un panorama abbastanza ampio sull’attuale situazione e sulle prime ripercussioni che si stanno palesando soprattutto nei paesi più poveri.

Sembrerebbe che tutto abbia avuto inizio negli anni ’90, quando grandi investitori statunitensi (fondi di investimento e pensionistici) chiesero alla più grande banca d’affari del mondo in quale aree fosse ancora possibile effettuare investimenti altamente remunerativi e ragionevolmente sicuri: l’indagine condotta individuò nel comparto agroalimentare uno dei terreni più promettenti. Ovviamente non si trattava di investimenti nel senso intuitivo del termine, quanto operazioni rivolte a lucrare sui prezzi futuri delle derrate alimentari, erano dunque transazioni già ampiamente praticate e conosciute, ma sino ad allora riservate alle parti in causa quali gli agricoltori e i trasformatori delle derrate: in altri termini iniziò un processo che potremmo definire di finanziarizzazione della produzione alimentare che, volendo,  potrebbe essere considerato l’ultimo passo di quel processo di trasformazione a cui si è trovato sottoposto il mondo agricolo che, appena agli inizi del Novecento, era entrato, per lo meno nel mondo occidentale, nella sua fase industriale (grandi investimenti finanziari, meccanizzazione diffusa, uso intensivo di fitofarmaci, sfruttamento estremo delle risorse naturali disponibili). Necessariamente, le conseguenze immediate di tali sviluppi sono state la messa in opera di prassi rigidamente speculative volte a garantire la massimizzazione degli utili dell’investitore: del resto si tratta delle stesse, identiche, azioni che hanno portato alle crisi sopra richiamate. Anche i risultati sono stati quelli attesi, nel senso che sono partite le oscillazioni dei prezzi che ottimizzano il guadagno dell’investitore e determinano l’impoverimento del soggetto chiamato a pagare il conto; la situazione rapidamente è divenuta tale da richiamare l’attenzione degli osservatori più attenti e quindi stimolare una qualche blanda reazione, nella parte ricca del mondo (G20), ossia in quella in cui, in questo momento, affluiscono i guadagni.

Sul The Ecologist  (settembre 2011) è invece apparso qualche cosa di più concreto, un invito ai correntisti della Barclays affinché intimino alla loro banca di cessare le speculazioni, pena la chiusura del proprio conto; tutto questo mentre si è venuta costituendo un’iniziativa mirata (World Development Movement) intesa a opporsi sistematicamente a tali speculazioni attivando le opportune azioni di stimolo presso il grande pubblico.

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Indipendentemente dal giudizio che si può dare su tali azioni e strategie, mi sembra importante richiamare l’attenzione sul fatto che la speculazione sulle derrate alimentari completa un quadro che vede il dispiegarsi di una campagna aggressiva, complessa e articolata, che prevede inoltre vaste operazioni di land grabbing, ossia l’acquisizione di enormi appezzamenti di terra nei paesi più poveri del pianeta da usarsi a seconda delle richieste del mercato (vedi il caso dei biocombustibili); il quadro può essere arricchito mettendo nel novero la sistematica speculazione sulle materie prime (in tal senso basti guardare l’andamento del prezzo dei carburanti) e, volendo, le recenti iniziative nel nostro paese per privatizzare la gestione dei servizi idrici. Si tratta di un insieme di azioni rivolte a trasformare aspetti essenziali della vita in “opzioni” trattabili in borsa o in asset di bilancio, ossia a smaterializzare la realtà quotidiana consentendone il facile abuso; e mentre futures vengono trattati in Borsa, nella realtà si vengono a maneggiare e degradare, in maniera immediata, porzioni sempre più ampie della biosfera di cui siamo parte integrante.

Lo schema che si ripete sotto i nostri occhi è quello di sempre, che parte dall’individuazione del “giacimento”, cui segue la messa in essere delle tecniche di sfruttamento più avanzate, con in più oggi l’azione fornita dalla leva della speculazione a livello mondiale che si preoccupa di gonfiare incessantemente i prezzi, fino all’inevitabile crollo, e all’altrettanto inevitabile richiesta alla popolazione dei paesi ricchi (quella dei paesi poveri non potendo fornire altro che la propria, svalutata, manodopera) di ricapitalizzare le banche che non sono riuscite ad entrare nel novero delle migliori. Come credo evidente, non si tratta solo di fronteggiare un innalzamento delle tasse, o di assistere alla riduzione dei finanziamenti della scuola, ma di acconsentire a un impoverimento complessivo della vita, di un degrado del nostro habitat a cui non possiamo sperare di sfuggire.

Autore: Roberto Mussapi (Roberto Mussapi è dirigente tecnologo dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA)) - Fonte: galileonet.it

 
By Admin (from 15/12/2011 @ 11:06:56, in it - Osservatorio Globale, read 3286 times)

Più veloce della luce. Sino a qualche mese fa, nessuno all'infuori di un supereroe dei fumetti avrebbe potuto pronunciare questa frase. Ma dopo gli straordinari risultati dell’esperimento italiano Opera (Oscillation Project with Emulsion-tRacking Apparatus), anche i ricercatori hanno iniziato a prendere in considerazione la possibilità che il podio della velocità nel mondo delle micro particelle non spetti ai fotoni ma ai neutrini. A circa tre settimane dall’esperimento condotto dall’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) in collaborazione con il Cern di Ginevra,il server arXiv (un archivio che raccoglie le pubblicazioni scientifiche non ancora passate al vaglio della peer review della comunità scientifica) è stato intasato da oltre 80 pubblicazioni di ricercatori impazienti di spiegare cosa è successo nei Laboratori del Gran Sasso.

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Alcune parlano di una nuova fisica, popolata da neutrini che viaggiano attraverso extra-dimensioni o che possiedono una tale energia da renderli più veloci della luce. Altre, certamente meno seducenti, chiamano in causa spiegazioni più ordinarie, che se non altro tolgono dall’impiccio il tanto chiacchierato Einstein. Tra queste, Adam Mann, su Wired.com, ne passa in rassegna alcune, che tentano di spiegare perché i risultati di Opera non mettono paura alla Teoria della Relatività Speciale.

Le prime obiezioni mosse a chi interpretava i risultati dell’esperimento del Gran Sasso come la prova che i neutrini siano più veloci della luce sono nate da un’osservazione astrofisica. Nel 1987, una supernova potentissima spruzzò sulla Terra una doccia di luce (cioè di fotoni) e neutrini. In quell’occasione, i rilevatori segnalarono l’arrivo dei neutrini circa tre ore prima della luce. Ma se Opera avesse ragione, è il calcolo dei ricercatori, i neutrini sarebbero dovuti arrivare ben quattro anni prima della luce. Come si spiegano, quindi, le tre ore di anticipo? Con la falsa partenza della luce, in un certo senso. Al contrario dei quasi inermi neutrini, infatti, i fotoni interagiscono molto con la materia. Ecco perché hanno impiegato più tempo ad arrivare sulla Terra: sarebbero stati bloccati in uscita dalle interazioni con i vari elementi del nucleo della supernova. I neutrini, invece, sarebbero riusciti a scappare subito.

Veniamo invece alle obiezioni teoriche mosse dal fisico Matt Strassler sul suo blog. Come suggerisce il ricercatore, secondo il Modello Standard (teoria quantistica che descrive tutte le particelle della materia e le loro interazioni fondamentali, a eccezione della gravità), se i neutrini viaggiano più veloci della luce, anche gli elettroni devono fare lo stesso. Quanto più veloce? Di almeno un miliardesimo, se possiedono la stessa energia dei neutrini (40 GeV, almeno come rilevato dai laboratori). Ma i fisici sanno che ciò non è possibile: nel vuoto, infatti, gli elettroni non possono superare la velocità della luce di oltre 5 parti su 10 15.
Molto meno, quindi, e ciò è in contraddizione con quanto atteso se i risultati di Opera fossero reali.

Siamo arrivati a una delle più recenti pubblicazioni negazioniste di ArXiv, che chiama in causa un problema di misurazioni. I ricercatori di Opera, infatti, hanno usato satelliti Gps per misurare il più accuratamente possibile i 730 km di distanza tra il Cern (dove è partito il fascio di neutrini) e i laboratori del Gran Sasso (dove sono arrivati). Ma la Relatività Speciale ci insegna che le misurazioni cambiano leggermente se gli osservatori si muovono l’uno rispetto all’altro. Dal momento che i satelliti viaggiano intorno alla Terra, è possibile che le posizioni rilevate della sorgente e del rilevatore non fossero quelle reali. In altre parole, che i 730 km misurati non corrispondessero alla realtà. E ciò, in termini di tempi di percorrenza del fascio dei neutrini, si tradurrebbe in una discrepanza di circa 64 nanosecondi, che è proprio quanto registrato da Opera.

Via Wired.it

 
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