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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
By Admin (from 31/07/2010 @ 14:50:05, in it - Video Alerta, read 2450 times)

Il 2008 ha segnato un traguardo invidiabile per molti, il 50esimo anniversario della creazione dei Chipmunks, venuti fuori dall’inventiva eccellente di Ross Bagdasarian Sr, un musicista e compositore che, negli anni prima del fatidico 1958, si arrangiava per quanto poteva.

La prima canzone dei Chipmunks (i quali avrebbero avuto questo nome in seguito) “Witch Doctor” è stata realizzata da Bagdasarian utilizzando una semplice tecnica per la voce. Ha rallentato la velocità di registrazione e ha registrato i testi con una voce lenta e bassa, per poi suonarla a velocità regolare. Da questa tecnica sono nate le voci di Alvin, Simon e Theodore, nomi presi dai tre dirigenti dell’etichetta Liberty Records, con la quale il musicista aveva firmato un contratto.

Questo è il secondo capitolo dopo il film del 2007, che ha ottenuto ottimi consensi.
In Alvin Superstar 2 fanno la loro comparsa le Chipettes, che divideranno il palcoscenico, oltre che le avventure, con i Chipmunks. Durante un concerto Alvin, per mettere in risalto la sua performance, dà luogo a una catena di eventi che spediscono Dave all’ospedale. Nel periodo in cui l’uomo sarà assente, i tre Chipmunks si ritroveranno a frequentare la scuola. Toby, il cugino di Dave, si prenderà cura di loro.
La vita scolastica non è delle più semplici, i tre fratelli vengono presi di mira da alcuni bulli, e sottoposti a numerosi scherzi.

Ciò che li metterà più in difficoltà sarà il protagonismo di Alvin, che si unirà alla squadra di football, abbandonando Simon e Theodore durante il Music Mania. Alvin troverà il modo per riparare al danno e ad aiutare le nuove arrivate, le Chipettes.

I Chipmunks sono diventati da tempo un fenomeno globale che è riuscito a catturare più generazioni. Non solo le canzoni, ma poi la serie d’animazione degli anni ’80 e i gadgets realizzati hanno creato appassionati in tutto il mondo.

Le loro avventure divertenti e fuori dal comune, le scelte musicali e l’appeal di Alvin hanno reso i Chipmunks un fenomeno straordinario.
Il film contribuisce, se ancora ce ne fosse bisogno, a far conoscere alle nuove leve (i bambini) questi simpatici personaggi e riportare i loro genitori un po’ indietro nel tempo, facendo gustare un veste nuova in cui vederli.

Ciò che caratterizza il film, oltre alla vena umoristica, sono le tematiche presenti, come il rapporto fraterno, che rischia di venire meno. La regista Betty Thomas dà vita alle piccole incomprensioni che ci possono essere all’interno di un nucleo familiare affiatato come il loro e quando il più indifeso, Theodore, si trova in difficoltà, gli altri due sono pronti a tutto pur di aiutarlo. L’individualismo di Alvin viene superato dal grande affetto che li lega e, nel momento in cui rischia di perderlo, si rende conto di cosa sia veramente importante.
L’essere uniti e parte di una famiglia affettuosa li rende ciò che sono ora.

Un aspetto che la sceneggiatura mette in evidenza sono le vicissitudini scolastiche in cui un allievo può incorrere: l’appartenenza o meno a gruppi ristretti che identificano la persona, le pressioni del bullismo, gli scherzi e le prese in giro, di contro la popolarità quando si ha carisma o fascino, o fama (Alvin è riconosciuto dalle compagne come il leader del gruppo musicale). Tutte situazioni che generano ilarità, ma anche identificazione e spirito di rivalsa e che ricordano i film americani per adolescenti degli anni ‘80.

Un altro elemento divertente e di gusto sono le citazioni cinematografiche di film amati e conosciuti come “Taxi Driver” e “Il silenzio degli innocenti”, battute famose sempre pertinenti al testo e ben integrate.
La musica gioca un ruolo non da poco, complessivamente ci sono quindici brani in cui si spazia da Alicia Keys a Beyonce, a Pink, e come meglio concludere la storia se non con “We are Family”.
È un film pieno d’ilarità, per i più piccini e per i nostalgici e appassionati di tutte le età. ( Fonte: cinemalia.it)

Autore della recensione: Francesca Caruso

 
By Admin (from 01/08/2010 @ 11:50:57, in it - Video Alerta, read 2319 times)

Molto rumore per nulla o... se ci vogliamo attenere ai versi della canzone di Jovanotti. Un bellissimo spreco di tempo, un'impresa impossibile. Tornato dagli Stati Uniti, dopo due film sinceramente sopravvalutati, ecco che riprende i suoi " Tre moschettieri " dell'amore e fa il secondo episodio " Dieci anni dopo ".

Il primo film aveva stupito il pubblico ed anche una parte della critica soprattutto per il cast delizioso e per delle riprese spumeggianti e 'frenetiche' sulla falsa riga di Magnolia ( film capolavoro del 1999 ) di Paul Thomas Anderson. La storia era raccontata bene ( come racconta bene lui ), e faceva comodo ai giornali per riempire le pagine dei soliti argomenti: i giovani e l'amore, la sindrome di Peter Pan, la lotta tra sogno e omologazione.

 Argomenti divenuti indolore, di facile conversazione per signore all'ora del tè e annoiati genitori autoreferenziali.

Oggi ritroviamo quei giovani ( ma mancano Giovanna Mezzogiorno e Martina Stella e nel pacchetto glamour di attori loro erano due stelle che brillavano di luce propria ) cresciuti come nelle previsioni, uomini e donne borghesi, agiati, postideologici, indifferenti a tutto tranne che ai propri brufoli sentimentali. Fratelli e sorelle più adulti e consapevoli, ma della stessa famiglia culturale, di quelli di Federico Moccia, delle canzoni di Jovanotti o Povia, dei libri di Walter Veltroni o di Giorgio Faletti, con dei pensieri ( la voce in off, saltuaria e sbiadita di Accorsi ) che sembrano presi dai baci perugina, uno su tutti: se non hai radici inizi a morire.

Radici ? Famiglia ? Una lascia il marito perché lui non può darle un figlio e se ne va a vivere con un pischelletto viziato e rimorchione, per poi tornare da lui incinta dell'altro, un'altra non si sente pronta per un figlio dal suo compagno innamorato ma noioso ma rimane incinta involontariamente dell'ex marito, un'altra non ha la forza di aiutare veramente il suo compagno al punto che non prevede che possa uccidersi. E gli uomini ? Uno teorizza che è meglio essere amati e non amare, così l'ego si carica e non soffre, un altro cambia ragazza come si fa la doccia e poi parte per il Brasile, mentre un terzo è appena tornato da due anni di galera per aver contrabbandato due chili di coca dalla Colombia.

Famiglia ? Radici ? Si potrebbe citare Nietzsche: morali da birreria, e parafrasarlo con morali da sesso, a secondo di quanto lo fai. Diciamo che un altro difetto del cinema di Muccino è la moltiplicazione dello stesso argomento, tutti i protagonisti vivono lo stesso pathos, più o meno con le stesse dinamiche e nello stesso 'tempo'. Carlo ( Un Accorsi in sottotono ) e Giulia ( Vittoria Puccini al posto della Mezzogiorno ) sono separati ma hanno una figlia, Sveva, che entrambi amano molto. In questi dieci anni si sono amati e traditi fino allo sfinimento.

Giulia vive con un nuovo compagno, un attore innamorato ma noioso, mentre Carlo ha tante donne e una compagna giovane e gelosa. Poi c'è Marco ( Pierfrancesco Favino, geloso, violento ma buonissimo ) l'unico sposato in maniera convenzionale, con la moglie vuole disperatamente un figlio che non arriva e stanno rovinando il rapporto tra i due. C'è Livia ( Una brava Sabrina Impacciatore ) vive da sola con il figlio Matteo ed ha una storia con Paolo ( Santamaria ) che passa da una dipendenza a un'altra. Il film inizia con il ritorno a Roma di Adriano ( Giorgio Pasotti ), ex marito di Livia e padre di Matteo, dopo quasi dieci anni e due passati in carcere. I vecchi amici si rincontrano per accogliere Adriano.

Sono passati dieci anni ma nessuno sente il bisogno di fare bilanci, anzi c'è chi è rimasto con la stessa testa, chi continua a girare su se stesso, chi non vuole crescere e per questo si è ammalato. Il regista ci vuole far credere di mettere in discussione la generazione dei quarantenni e un po' anche se stesso ( ha avuto tre figli da tre mogli differenti ) ma nel film si respira un'aria rarefatta, un po' finta e troppo costruita.
Non si respira verità, tantomeno ricerca di sincerità. I rapporti sono claustrofobici, manca l'aria. E' tutto una danza immobile, un falso movimento, che può andare bene ma che non può essere spacciato per cinema della possibilità o della verità.

Muccino ha riconfermato tutti gli attori del primo episodio, almeno quelli che sono voluti tornare sul luogo del delitto.

Hanno dieci anni in più, quindi maggiore bravura ma minore freschezza. Ma non tutti hanno dato il meglio, anzi, Stefano Accorsi vive da un paio d'anni un'involuzione interpretativa preoccupante e Vittoria Puccini, nonostante la credibilità, fa fatica nel confronto con la Mezzogiorno. ( Fonte. www.cinemalia.it)

Autore della recensione : Domenico Astuti

 

Nuova accusa di stupro per Roman Polanski. Questa volta è la ex modella Edith Vogelhut a denunciare il regista de “L’uomo nell’ombra” in una video intervista a RadarOnline.com.

 

La Vogelhut avrebbe incontrato il regista nel 1974, ad una cena in casa di Jack Nicholson, dove erano presenti altre star come Warren Beatty. Qui Polanski avrebbe indotto l’ex modella, allora 21 enne, ad assumere droghe per poi ammanettarla e sodomizzarla: “Sapevo che avremmo fatto sesso, ma non mi aspettavo nulla fuori dall’ordinario…non mi aspettavo di essere sodomizzata.”

La Vogelhut, che oggi scrive per riviste come “Glamour”, si è decisa a raccontare l’accaduto dopo la confessione di un’altra vittima, l’attrice britannica Charlotte Lewis, che il maggio scorso ha rivelato di aver subito abusi da Polanski negli anni ’80, all’età di 16 anni. Edith Vogelhut che sta scrivendo la sua biografia, ha deciso di dedicare un intero capitolo del suo libro a questa vicenda.

Roman Polanski è fuggito dagli Stati Uniti nel 1977, dove era stato accusato di violenza sessuale, uso di droghe, sodomia ai danni dell’allora tredicenne Samantha Geimer. Arrestato nel 2009 a Zurigo dalla Polizia svizzera, in esecuzione al mandato di cattura internazionale  degli Usa, è stato infine rilasciato dopo quasi dieci mesi di prigione e arresti domiciliari.

Autore: Marco Aresu; Fonte: cultumedia.it

Leggi anche: Svizzera. Roman Polanski è libero, rifiutata l'estradizione negli USA.

 
By Admin (from 02/08/2010 @ 12:51:48, in it - Video Alerta, read 3734 times)

Dopo il successo planeterio della trilogia de “Il Signore degli Anelli”, che ha ricevuto un numero copioso di premi a vari festival e agli Oscar (17 statuette), e la più recente rivisitazione di King Kong (2005), Peter Jackson torna dietro la macchina da presa per portare sul grande schermo la trasposizione del romanzo omonimo di Alice Sebold (edito in Italia da E/O), un libro amato da milioni di lettori che ne hanno decretato il successo. Jackson ha iniziato a leggere il libro durate la post-produzione de “Le Due Torri”, consigliato da Fran Walsh che lo ha trovato perfetto per la fervida creatività del regista, anche per l’aspetto magico e ultraterreno che il romanzo possiede.

1973 Pennsylvania. La quattordicenne Susie Salmon vive serenamente la sua adolescenza, ha una famiglia calorosa e un forte legame col padre Jack, con il quale trascorre molto tempo.

Il 16 dicembre 1973 Susie viene uccisa dal vicino di casa, Mr. Harvey, senza che nessuno veda o sospetti nulla. Lo spirito di Susie rimane ancorato alla Terra e si ritrova esattamente nel mezzo, in un luogo non luogo tra cielo e terra, dal quale la ragazzina vede il cedimento emotivo e psicologico dei propri familiari, con i quali vorrebbe entrare in contatto. Inoltre vorrebbe raggiungere Ray, con il quale avrebbe avuto il suo primo appuntamento galante. Rifiuta il suo stato, prova molta rabbia e desiderio di vendetta nei confronti del suo assassino. Il tempo passa Susie rimane sempre la stessa, mentre i suoi familiari cercano ognuno a modo loro di affrontare la perdita. Jack è ossessionato dal trovare il miserabile che ha ucciso la sua bambina, Susie comprende quanto sia deleteria la vendetta e aiuta la sua famiglia a ritrovare la serenità.

Peter Jackson, Fran Walsh e Philippa Boyens hanno collaborato alla scrittura della sceneggiatura. La storia si districa tra magia e realtà, non è la storia di un omicidio, l’intento del regista è stato quello di mostrare l’energia positiva che bisognerebbe sprigionare soprattutto nelle situazione più disperate.

Il film affronta un tema difficile: quello che succede dopo la morte. Jackson ha utilizzato un modo drammatico e potente per affrontare vari temi della storia, il desiderio di vendetta, la rabbia, il sentirsi impotente, la frustrazione, la spietatezza dell’assassino.

Questi sentimenti, che i vari personaggi nutrono, sono legati molto alla realtà, alla materialità della vita.
Susie si sente ancora parte di quella vita terrena e così il limbo nel quale trova rifugio è il riflesso delle sue emozioni terrene, legate alla sua morte, mescolate all’energia positiva che la pervade, prima a tratti, poi man mano che il personaggio si evolve e raggiunge un equilibrio, occupa sempre di più questo mondo. Il regista, nel creare il limbo di Susie, non ha fatto riferimento alla tradizione religiosa, ma ha dato vita a un mondo fantasioso legato alle idee terrene che Susie poteva avere dell’aldilà, ai suoi sogni, e alle reminescenze di ciò che riguarda il suo omicidio.

Il regista ha optato per un aldilà surreale, includendo luoghi o oggetti terreni a cui Susie è ancorata. Il gazebo è il luogo dove Susie vorrebbe recarsi. Il campo di grano diventa un campo d’orzo e si trasforma in un mare che la sommerge, che raffigura l’oscurità dalla quale è risucchiata. Le navi a grandezza naturale raffigurano le navi nelle bottiglie che Jack colleziona e il loro infrangersi sulle rocce equivale al suo crollo psicologico. Gli effetti speciali sono stati utilizzati per creare il limbo di Susie, sicuramente surreali come nella visione del regista.

I tre sceneggiatori hanno voluto conferire una dimensione evocativa ed effimera. Il limbo di Susie diventa talmente immaginifico da sembrare un mondo da fiaba. L’oscurità che attanaglia lo spirito della ragazzina mantiene il cordone con Mr. Harvey.

Il film è anche un thriller e la suspence lo pervade nei momenti in cui si cerca di soprire chi sia l’assassino.
Le atmosfere sono ispirate ai film di Alfred Hitchcock, Jackson ha creato una tensione estrema nelle due distinte sequenze in cui le due sorelle Susie e Lindsey entrano nella casa di Mr. Harvey. In quella di Lindsey il cineasta si è concentrato molto sulle sonorità da imprimere. Mr. Harvey conosce ogni scricchiolio, è come se la casa avesse un proprio battito cardiaco, così quando vi rientra, nonostante il silenzio, percepisce subito un’alterazione, mentre Lindsey ripone la tavola del pavimento nella fessura. La mancanza di suono in questa scena è una particolarità sonora.

Le sonorità presenti nel film hanno un’importanza vitale tanto quanto la musica o la storia in sé e rappresentano un arma indispensabile e di cui il regista è orgoglioso. Per Jackson ogni singolo elemento del linguaggio cinematografico utilizzato nel film ha la medesima importanza, tutto è stato curato nel dettaglio.

È un film sui sogni, quelli di Susie, nonostante venga strappata alla famiglia, sono più vivi che mai.
Quando vede Ray al gazebo, sogna di potercisi recare, vorrebbe che sentisse la sua voce e i suoi sentimenti.

È un film sull’amore, la difficoltà maggiore per Susie è quella di dover imparare a lasciar andare le cose che ha perso, i familiari continuano ad amarla dopo la morte, sarà sempre viva nel loro cuore e trovano una forma di pace interiore.

Peter Jackson nel delineare il personaggio di Mr. Harvey, egregiamente interpretato da Stanley Tucci, voleva creare un individuo anonimo, blando, patetico, privo di colore, noioso, che riesce a mimetizzarsi e quindi a passare inosservato, “come un albero in un giardino”.

È un uomo apparentemente normale, che nasconde un animo oscuro e perverso. Tucci ha saputo trasmettere l’assenza dell’anima di Mr. Harvey, il totale alienamento del suo io, una persona che vive in apparenza, solo in casa può essere sé stesso, un’individuo che passa le sue giornate a costruire case per bambole e trappole mortali per le sue vittime, solo così percepisce attimi di vita. Le sembianze dell’attore sono state trasformate, con lenti a contatto verdi, parucca e baffi biondi e una dentiera che ha permesso a Tucci di mettere una carta distanza tra sé e il personaggio, col quale non si sentiva a proprio agio, per la sua totale malvagità.

Per ciò che riguarda la fotografia, c’è stato un uso naturalistico delle luci, inoltre Perter Jackson con l’aiuto di Andrew Lesnie (direttore della fotografia) ha ripreso Tucci, in parecchie sequenze, con una lipstick camera, che non è più grande di una scatola di fiammiferi, per mostrare il limitato punto di vista del mondo di Harvey. Il dito di Tucci è stato ripreso con questa camera, anche, per accentuare quanto Harvey utilizzi le mani per i suoi “lavori casalinghi”.

Amabili resti è il primo film che il regista gira fuori dalla Nuova Zelanda, almeno per gli esterni. Questo perché la Pannsilvania raccontata nel libro è intrisa di ricordi dell’autrice legati a quei luoghi specifici e si è voluto tener fede a quell’ambientazione.

Per il resto è, nella visuale di Jackson, un film neozelandese. In Nuova Zelanda sono stati girati gli interni e si è fatta la post-produzione. Il film vuole sottolineare come l’energia di un individuo non sia distrutta nonostante la morte del corpo e come dovrebbero prevalere i sentimenti di amore. I sentimenti positivi, che ci fanno andare avanti e rendono la vita di ognuno migliore, sono quelli che dovrebbero emergere dall’animo umano, perché i sentimenti legati alla vendetta portano solo all’annullamento di sé e allo sprofondamento in un baratro da cui è difficile risalire.

È un film positivo e ricco di emozioni, nel quale tutti gli elementi che Jackson mette in campo, dai personaggi all’ambientazione, dalle sonorità alla fotografia, contribuiscono a renderlo degno di attenzione. ( Fonte: cinemalia.it)

Autore: Francesca Caruso

Redazioneonline- Cinema e Spettacoli

 
By Admin (from 03/08/2010 @ 15:52:37, in it - Video Alerta, read 2378 times)

Mi toccherà andare a vedere Avatar. Mio figlio martella da settimane, ormai, e la capitolazione è imminente. A giudicare dai trailer che ho visto, dalle recensioni che ho letto e dai commenti che ho sentito, mi sono fatta l’idea che il filmone sia per certi versi uno zoppicante remake in chiave fantascientifica e salsa ipertecnologica di quell’autentico capolavoro che fu, invece, Mission — epocale, uno dei dieci film da salvare.

La nuova storiellina di Cameron sembra semplice, e l’happy end assicurato.
Quanto al messaggio, mi sento di condividere largamente l’analisi di George Monbiot. Il quale non dice nulla di nuovo segnalando che la destra americana in blocco condanna il film, accusandolo di suscitare sentimenti antiamericani negli spettatori. Č da un bel po’, ormai, che il prodotto “politica estera statunitense” non tira più come prima sul mercato “resto del mondo” (aperta parentesi: sarà per questo che preferisce tirare bombe e missili in Afghanistan e Iraq? A questa domanda non mi saprà rispondere nessun italiano, immagino, perché è noto che anche noi italiani stiamo in Afghanistan e Iraq, però in missione di pace: e per non farci sgamare dagli occhiuti servizi dello zio Sam ci stiamo con armi, bagagli e divise. Chiusa parentesi), quindi plausibilmente tutto ciò che abbia un sia pur lieve sentore di messa-in-dubbio-dei-valori-americani non sarà visto di buon occhio dagli States.

Anche in Italia, sembra, c’è parecchia destra che non apprezza per nulla Avatar: e anche qui non c’è nulla di cui meravigliarsi. Mi stupisce, invece, la recensione del film apparsa il 10 gennaio sull’“Osservatore romano” a firma di Gaetano Vallini, e che è stata additata generalmente come una stroncatura. Personalmente mi sembra che Vallini non dica niente di particolarmente malvagio nei confronti di Cameron e del suo film, limitandosi a denunciarne la superficialità — ciò che, come sottolinea Monbiot, non impedisce che il film costituisca un interessante stimolo alla riflessione.

Il guaio è che quando si parla di genocidi siamo tutti coinvolti — anche se ci crediamo assolti da condizionamenti secolari o considerazioni superomistiche (nessun riferimento a Nietzsche, si badi). Invece dovremmo, evangelicamente, imparare a non scandalizzarci troppo della pagliuzza nell’occhio altrui e preoccuparci un po’ di più della trave nel nostro: rilievo, mi si perdoni l’ardire, che non casualmente cade a ridosso di quella giornata che si vorrebbe dedicata a una memoria molto speciale.

E a proposito dei condizionamenti e delle considerazioni cui accennavo poc’anzi, in questi giorni mi trovo a discutere, in una piazza virtuale, dell’ottimo testo di David E. Stannard Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo. Uno dei miei interlocutori l’ha liquidato come “un libello di propaganda antieuropea” — cosa che mi ha procurato sorpresa non minore di quando, molti anni fa, lessi che il Malleus maleficarum di Sprenger e Institor Kramer era, secondo Carolyn Merchant, “un pamphlet antifemminista” (preciso che il saggio della Merchant è, nonostante questo scivolone, uno dei testi più apprezzabili che abbia mai letto sull’argomento).

Ora, indipendentemente da come ci si vuol porre nei confronti della Conquista e del colonialismo/imperialismo eccetera, è innegabile che gli Spagnoli e i Portoghesi e i Francesi e i Tedeschi e financo gli Inglesi (anche se non gli piace sentirselo dire) siano europei, monoteisti a vario titolo e di pelle bianca o appena un po’ abbronzata — benché meno del presidente che piace al nostro presidente.
Il che dovrebbe suggerirci qualche considerazione su ciò che è divenuto il pianeta a partire da allora; e meditare sul fatto che se oggi ci troviamo come ci troviamo qualche responsabilità quegli europei monoteisti e di pelle bianca dovranno pure averla. E possibilmente trarne qualche conclusione o almeno qualche linea di vetta cui attenersi progettando il proprio agire — ci sarà pure qualcosa che vogliamo trasmettere a chi verrà dopo di noi… ( Fonte: http://www.alessandracolla.net/)

 

Buongiorno a tutti, queste puntate estive ci consentono di riflettere, dato che non possiamo seguire l’attualità perché ve l’ho detto, sono puntate registrate alla fine di luglio, danno l’opportunità di chiarire alcuni punti, smentire alcuni luoghi comuni, alcuni slogan che ci vengono sempre raccontati che a furia di essere ripetuti sono diventati dei dogmi di fede, anche se non hanno nessun fondamento nella realtà, ci credono tutti perché non si sente mai un contro canto, un’altra campana.

Separazione delle carriere, moltiplicazione del CSM.

Uno dei luoghi comuni più diffusi e ne parlo perché credo che alla ripresa autunnale, non appena avrà sistemato i suoi processi con il lodo Alfano bis, Berlusconi ci metterà mano, ci proverà, è la separazione delle carriere, cos’è la separazione delle carriere?
E’ una proposta lanciata per primo da Licio Gelli nel suo famoso piano di rinascita democratica, ripresa da Bettino Craxi, che torna ciclicamente non solo nel clan berlusconiano, ma anche in una parte del centro-sinistra, i presunti garantisti, con il garantismo la separazione delle carriere non c’entra niente, lo vediamo tra un attimo, per stabilire che, chi fa il Pubblico Ministero lo faccia per tutta la vita, chi fa il giudice lo faccia per tutta la vita e non ci possa essere alcuno scambio tra l’una e l’altra funzione, che ciascuno proceda in una carriera separata, sottoposti i PM e i giudici a due Csm separati e che non si possano mai scambiare le due esperienze.
Si dice che è così in tutto il mondo, intanto tutte le proposte sono valide di per sé, non è che c’è un tabù, perché uno dovrebbe essere contrario alla separazione delle carriere? Non è mica scritto nel codice naturale, è una legge umana quella sulle carriere dei magistrati e può essere tranquillamente cambiata, dobbiamo domandarci se ci convenga cambiarla, se ci siano delle necessità che inducano a cambiare il sistema che ha retto in Italia per tutta la fase repubblicana, fino a oggi.
Cosa dicono i sostenitori della separazione delle carriere? Il PM rappresenta l’accusa, il giudice rappresenta una figura terza che deve stagliarsi al di sopra dell’accusa e della difesa e deve decidere, quindi non può essere un collega di carriera del PM, perché altrimenti tenderà a dare ragione al PM che è un suo collega, anziché all’Avvocato difensore, se così fosse dovrebbe risultare dalle statistiche, dovrebbe venire fuori dalle statistiche giudiziarie che ogni volta che un PM chiede qualcosa a un giudice, il giudice gliela dà.
Un appiattimento di questo genere sarebbe una buona prova del fatto che bisogna separarli e metterli su due binari che non si incontrano mai. In realtà dalle statistiche risulta esattamente il contrario, cioè che in 1/3 delle richieste del Pubblico Ministero in fase di indagine e nel 50% circa dei dibattimento, quando il PM chiede la condanna dell’imputato e il giudice deve decidere, il giudice decide diversamente rispetto alle richieste del PM, quindi quando il PM chiede di arrestare uno, il G.I.P. a volte glielo arresta, a volte no, quando il PM chiede di intercettare uno, il G.I.P. a volte glieli intercetta e a volte no, quando il PM chiede di perquisire o ispezionare o cose del genere un qualcuno, a volte il G.I.P. glielo concede e a volte no, quando il giudice deve decidere sulla richiesta di condanna dell’imputato nel dibattimento una volta su due di solito decide in maniera difforme rispetto alle richieste del Pubblico Ministero, quante volte abbiamo saputo di imputati per cui il PM chiede la condanna che vengono assolti, quante volte, meno, ma capita anche quello, il PM chiede l’assoluzione e il giudice condanna, oppure quante volte il PM chiede l’archiviazione e il G.I.P. gli ordina nuove indagini, le statistiche dimostrano che il giudice in media, poi ci possono sempre essere casi diversi, singoli, è autonomo dal PM anche se provengono dalla stessa carriera, che è poi l’ordine giudiziario.
Quindi non c’è nessuna ragione statistica per cambiare il sistema, si dirà: ma può capitare che Giudice e PM si mettano d’accordo, certo può capitare, può capitare che il PM e il giudice siano amici intimi di vecchia data, certo può capitare, come può capitare che il giudice sia amico dell’Avvocato o che il PM sia amico dell’Avvocato o che il PM sia fidanzato di un avvocatessa o che un giudice sia il fidanzato di un avvocatessa o che un Avvocato sia fidanzato di una giudice donna o di una PM donna, può capitare!
In questi casi scattano delle incompatibilità, è bene ogni tanto dare una ripulita, buttare un po’ di aria fresca, quindi magari criteri di rotazione, migliore verifica di eventuali incrostazioni che creano un giudice o un PM che sta per troppi anni nello stesso tempo, questo lo deve fare il Consiglio giudiziario in loco che è la longa manus del Csm e nel caso in cui ci siano delle incompatibilità ambientali, mandare via da un’altra parte il Magistrato troppo incistato nel luogo dove ha lavorato per troppo tempo, ma non è separando giudici e PM che si otterrà la sicurezza che l’uno non dà ragione all’altro perché è amico o perché è collega suo, perché le amicizie come nascono tra magistrati possono nascere tra Avvocati, frequentano tutti lo stesso ambiente anche se provengono da carriere diverse.
Senza contare che abbiamo visto molte sentenze aggiustate a causa di Avvocati di imputati eccellenti che si compravano i giudici, quindi in quel caso si sarebbero dovute separare le carriere degli imputati da quelle dei giudici o i conti Svizzeri degli imputati da quelli degli avvocati loro da quelli dei giudici.
Poi c’è un difetto logico in questa impostazione, di dire che per ottenere un giudizio equo il giudice non deve essere collega del PM, perché non basta mica separare la carriera del giudice da quella del PM, noi in Italia abbiamo 3 gradi di giudizio e 4 fasi di giudizio, l’udienza preliminare dove il PM si rivolge al G.I.P. per far rinviare a giudizio o condannare con rito abbreviato o con il patteggiamento l’imputato, poi c’è il dibattimento dove il PM si rivolge a un giudice monocratico per i reati lievi e a collegio di 3 giudici per i reati più gravi, poi c’è il processo d’appello dove il procuratore generale, che è il pubblico Ministero della Corte d’Appello, si rivolge a 3 giudici di appello, in caso di reati di sangue c’è la Corte d’Assise d’appello dove ci sono due giudici di professione togati e poi ci sono i giurati popolari, quelli con la fascia tricolore, presi a sorte tra i cittadini e infine c’è l’ultimo giudizio, quello di legittimità davanti alla Cassazione, dove il Procuratore generale, che è il PM davanti alla Cassazione, si rivolge a un collegio di 5 giudici o addirittura quando ci sono le sezioni unite di 9 giudici.
Non basta separare i PM dai giudici, bisognerebbe anche separare i giudici di primo grado da quelli del G.I.P. e i giudici di secondo grado da quelli di primo grado e i giudici di Cassazione da quelli d’appello, perché? Perché se è vero che un giudice soltanto perché è della stessa carriera del PM gli dà sempre ragione, sarà anche vero che il giudice d’appello tende a dare sempre ragione al Giudice di primo grado e allora che lo fai a fare l’appello se tanto il giudice d’appello se la intende con quello di primo grado e conferma quello che ha deciso quello di primo grado? E che lo fai a fare il ricorso in Cassazione se i giudici di Cassazione sono colleghi dei giudici di appello e quindi sono portati per colleganza a dare ragione ai giudici di appello? Vedete che bisognerebbe fare almeno una dozzina di carriere di magistrati: una per i pubblici Ministeri, una per i procuratori generali d’appello perché altrimenti ricalcano le richieste dei pubblici Ministeri di primo grado, una per i procuratori generali di Cassazione, altrimenti dicono la stessa cosa che hanno detto i PM in primo grado e i PG in appello, poi ci vuole una carriera per i G.I.P. che seguono le indagini, poi una carriera per i Gup che giudica sulle indagini e vanno o al rinvio a giudizio, oppure al proscioglimento o all’archiviazione o alla mancata archiviazione.
Poi ci vuole una carriera per i giudici di primo grado, poi anche una per il riesame, perché il riesame è quello contro il quale tu ricorri contro le decisioni del G.I.P., mica può essere della stessa carriera il riesame con il G.I.P., no darà ragione al G.I.P. e tu che lo fai a fare il ricorso al Tribunale della libertà; poi ci vuole una carriera per i giudici di appello e poi ci vuole una carriera per i giudici di Cassazione e speriamo che il processo finisca lì, perché sapete che molto spesso il processo torna indietro dalla Cassazione per un altro appello e quindi bisognerebbe avere dei giudici di una carriera diversa rispetto a quelli del primo appello per fare il processo di secondo appello e poi dato che il processo ritorna in Cassazione, ci vorrebbero addirittura due carriere di giudici di cassazione perché possano giudicare nel primo giudizio di Cassazione e nel secondo giudizio di Cassazione e vedete che arriviamo a 12 carriere, è una follia!

PM sceriffi in Portogallo.

Si può partire dal sospetto che uno solo perché è collega di quell’altro, gli dà sempre ragione? Ma lo sappiamo nella nostra vita quotidiana, sono giornalista, non sono portato a dare sempre ragione ai giornalisti, ma ne critico tantissimi, criticano me tantissimi giornalisti eppure facciamo la stessa carriera!
I dentisti si danno tutti ragione? No assolutamente, c’è sempre quello che pensa di essere più bravo dell’altro e dice: sono meglio di lui, quindi non esiste questa storia per cui 9/10 mila giudici in Italia, dato che arrivano tutti dalla stessa carriera si danno tutti ragione tra di loro e le statistiche lo dimostrano, quante volte in appello viene cambiata la pena, nel caso in cui venga confermata la condanna, oppure viene ribaltata la sentenza di primo grado e quante volte la Cassazione annulla un giudizio di primo grado, per cui avendo 3 gradi di giudizio, facendo vedere gli stessi processi a tanti occhi diversi, è ovvio che il giudice dovendo decidere in coscienza, può avere una coscienza diversa da quella di un altro giudice, spessissimo capita che ci siano dei giudici che pensano di avercelo più lungo degli altri e che quindi cosa fanno? Fanno le pulci ai loro predecessori, a quelli che sono venuti prima, si divertono addirittura arrivando al parossismo dei giudici cavillosi come Carnevale che si “divertiva” a annullare le sentenze dei colleghi, solo perché avevano dimenticato un timbro, un numero di pagina o perché non avevano notificato un atto a non so chi!
Si dirà: ma siamo gli unici che non hanno la separazione delle carriere e quindi facciamo come gli altri, non è un buon motivo, naturalmente, non è che soltanto perché siamo gli unici, dobbiamo abdicare al nostro sistema, dobbiamo prima definire se è meglio il nostro o è meglio quello degli altri e poi non è vero che tutti gli altri paesi hanno la separazione delle carriere, non è vero che negli altri paesi chi fa il PM non possa fare il giudice e chi fa il giudice non possa poi fare il PM, anzi da quasi tutte le parti c’è interscambiabilità tra i due ruoli, in Francia i giudici e i PM appartengono a una sola carriera, come in Italia, ma il PM dipende dal governo, dall’esecutivo, anche se poi a garantire l’autonomia delle indagini c’è il giudice istruttore che invece è indipendente dal potere politico, però è chiaro che se il PM sotto controllo politico non ti avvia un’indagine, tu giudice istruttore come fai a recuperarla? Quindi è molto meglio il sistema italiano, dove anche il PM è indipendente, fa parte dello stesso ordine giudiziario, perché? Perché è semplice, la nostra il costituzione da questo punto di vista è perfetta, se la legge è uguale per tutti e tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, questo principio deve essere garantito dal fatto che il Magistrato, il PM deve essere obbligato a coltivare le notizie di reato, purché siano minimamente fondate, che gli vengono denunciate o dai cittadini vittime di reati o dalla Polizia giudiziaria, oppure che lo scoprono loro, i magistrati facendo le loro indagini, se potessero scegliere quali fare e quali no, non sarebbe più uguale la legge per tutti, perché? Perché il giudice sceglierebbe a capocchia cosa coltivare e cosa no.
Il corollario di tutto questo è che i giudici e anche i PM devono essere indipendenti, perché se dipendi dal governo e il governo dice al PM: tu quell’indagine non la fai, il PM l’indagine non la fa e quindi la legge non è più uguale per tutti, perché il PM coltiva soltanto le notizie di reato che fanno comodo al governo!
Per questo è un sistema armonico, perfetto che non si può toccare perché se si tocca un elemento viene giù tutto e noi ci dobbiamo affezionare ai valori costituzionali perché è un interesse del cittadino l’indipendenza della Magistratura tutta, di chi promuove le indagini e di chi poi giudica su quelle indagini.
In Belgio è come il Francia, c’è un giudice istruttore indipendente anche in Spagna, lì le carriere sono separate, la Spagna è un raro esempio di carriere separate e naturalmente il PM è sottoposto all’esecutivo, dipende dal governo, in Germania e in Olanda, i giudici e i PM fanno un percorso di formazione unitario, dopodiché le loro strade si biforcano, ma nessuno vieta a chi è andato a fare il giudice di passare a fare il PM e viceversa, è molto frequente che si passi dall’una all’altra carriera, in Gran Bretagna non ci sono i PM, l’iniziativa penale la prende la polizia e quindi è tutto sotto il controllo del Governo.
Negli Stati Uniti non ci sono sbarramenti tra il Pubblico Ministero e il Giudice anche se lì il sistema è molto diverso perché ci sono addirittura i magistrati elettivi. In Portogallo è molto interessante il caso del Portogallo perché all’inizio, in origine le carriere dei giudici e dei PM erano separate, poi il dittatore Salazar le ha riunificate, perché? Perché gli faceva comodo averle tutte nello stesso ordine per metterci le mani sopra, quando è arrivata la rivoluzione dei Garofani nel 1974 e ha liberato il Portogallo dal regime, ha subito separato i giudici e i PM e li ha resi indipendenti, sistema cioè come in Italia, cos’è successo? Che separati gli uni degli altri, separati i PM dai giudici, i PM sganciati dalla cultura dell’imparzialità che deve avere il giudice sono diventati delle iene, delle specie di mastini ferocissimi, un po’ giustizialista come si direbbe in Italia, popolarissimi perché sono quelli che mettono dentro la gente e poi se quella gente viene scarcerata o assolta dicono: eh, avete visto, noi li ficchiamo dentro e poi arriva il giudice e li mette fuori, quindi sono diventati un pericolo pubblico anche per i politici che pensavano che separando le carriere avrebbero indebolito i PM, in realtà li hanno rafforzati, hanno creato una casta di mastini, di persecutori, quasi, perché? Perché non avevano più la cultura comune con quella dei giudici, per questo in Italia è importante che restino i PM dentro l’ordine giudiziario, perché il mestiere del PM e quello del giudice, non è molto diverso, nel processo svolgono due funzioni separate: uno chiede e l’altro decide, uno propone e l’altro dispone, uno indaga e l’altro giudica, ma l’obiettivo comune è la ricerca della verità, il PM la cerca e il giudice la fissa, la stabilisce, la sentenzia, ma il loro obiettivo è la verità, il PM non ha il cottimo sulle condanne, il PM buono non è quello che fa condannare tanta gente, è quello che fa condannare tanti colpevoli, non tanta gente purché sia, l’importante è avere un colpevole, no devi avere il colpevole vero e quindi può esistere un PM magnifico, bravissimo, anche se non fa mai condannare nessuno, perché? Perché ogni volta si convince che quello che ha preso non è il vero colpevole e quindi un buon PM deve chiedere l’archiviazione e poi l’assoluzione della persona se non è arciconvinto che quella persona sia colpevole, non vengono giudicati dal numero delle persone che fanno condannare i magistrati, ecco la differenza tra i poliziotti e i magistrati, sono due funzioni importanti entrambe, ma il poliziotto viene giudicato dalle statistiche, ogni anno i poliziotti vengono premiati in base al numero di blitz, di persone che hanno arrestato, di droga che hanno sequestrato, il magistrato no, il magistrato non deve far condannare tanta gente pur di risolvere un caso, no, deve far condannare quelli giusti!

Il Pubblico Ministero cerca la verità, non la condanna.

Il suo obiettivo è la verità, verità che verrà accertata dal giudice, ecco perché devono far parte della stessa carriera, perché devono formarsi entrambi non alla cultura della polizia, ma alla cultura dell’imparzialità.
Devono saper giudicare le prove, saper giudicare le persone, saper distinguere i colpevoli dagli innocenti e saper distinguere quelli sui quali ci sono le prove e quelli sui quali forse c’è il sospetto che siano colpevoli ma non ci sono le prove e quindi non possono essere condannati, noi separando le carriere ci avvicineremmo al modello del Portogallo post Salazar, cioè magistrati indipendenti, PM e giudici, ma separati con i PM che, non avendo più la cartiera e la cultura comune con il giudice, perdono di vista l’obiettivo dell’imparzialità e della verità e vanno in cerca di risultati, vanno in cerca di tante perquisizioni, arresti, condanne e se non ottieni la condanna ti metti a sbraitare di fronte all’opinione pubblica dicendo: avete visto i giudici? Sono troppo buonisti, assolvono la gente colpevole, no, il tuo obiettivo è quello di cercare la verità, il PM non è la pubblica accusa, non è vero che il PM è l’Avvocato dell’accusa come ripete Berlusconi, l’Avvocato dell’accusa non esiste nel nostro ordinamento e meno male che non esiste perché se viene preso un innocente, il PM ha il dovere di scoprirlo innanzitutto lui, prima ancora del giudice, prima ancora di portarlo davanti a un Tribunale che il tizio è innocente, è una tutela per noi cittadini, il vero garantista vuole un PM con la cultura del giudice, vuole un PM che la chiude subito un’inchiesta se si rende conto che i poliziotti hanno preso la persona sbagliata, poi può sempre sbagliare e è per questo che abbiamo vari gradi di giudizio e non è che ogni grado di giudizio, se cambia il giudizio da un grado all’altro, allora vuole dire che quelli di prima hanno sbagliato, vuole dire spesso che quelli di prima hanno valutato diversamente lo stesso materiale delle prove, l’errore giudiziario è quando proprio sbagli persona! Ma attenzione a non confondere il compito dell’Avvocato con quello del PM, l’Avvocato ha il dovere professionale di far assolvere il suo cliente, sempre, di tirarlo fuori dai guai sempre, non gli deve interessare se il suo cliente è innocente o colpevole, lui lo deve difendere al meglio! Anche se in cuor suo sente che l’imputato è colpevole, lui lo deve far assolvere e se non se la sente deve rinunciare al mandato, non può esistere un Avvocato che si convince che il suo cliente è colpevole e chiede la condanna, commette una gravissima infrazione disciplinare, viene sbattuto fuori dal suo ordine, un Avvocato che non tutela gli interessi del cliente, il magistrato deve tutelare gli interessi della collettività, quindi se si rende conto che ha sbagliato o che non ci sono le prove, ha il dovere di chiedere al giudice che questa persona venga liberata e prosciolta, perché? Perché non è l’Avvocato dell’accusa, è l’Avvocato dei cittadini, è l’Avvocato della verità, nessuno lo paga per far condannare o per far assolvere qualcuno, è lui che deve decidere in coscienza e in scienza sulla base del materiale che ha raccolto se l’indagato è o non è colpevole e se non è colpevole è lui il primo che lo deve salvare.
Non ci può essere un paragone tra il ruolo dell’Avvocato difensore che è un ruolo privato, è una parte privata, pagata dal suo cliente che deve fare di tutto per salvare il suo cliente e il magistrato deve semplicemente chiedere al giudice di stabilire la verità, non ha né il dovere di far condannare, né il dovere di far assolvere, non lo paga nessuno per rappresentare un interesse di parte, un interesse privato, rappresenta tutti e infatti si chiama “Pubblico Ministero” è il nostro primo scudo in un processo penale, prima ancora dell’Avvocato se il PM è onesto e sa fare bene il suo mestiere, provvederà lui a trovare le prove che la persona non c’entra niente, se poi qualcuno non lo fa, vuole dire che sta facendo male il suo lavoro di PM, ma quando avremo le carriere separate, se il PM verrà lasciato indipendente dal governo rischierà quella deriva portoghese che vi ho detto prima, di diventare una specie di braccio armato della Polizia e allora ti saluto le inchieste sulle forze dell’ordine, sui servizi segreti, sui poliziotti che picchiano a Genova o a Napoli, sui Carabinieri che trattano con la mafia o trafficano in droga, te le saluto se il PM diventa la longa manus delle forze dell’ ordine e ti saluto i diritti del cittadino, perché se non c’è più niente tra noi e le forze dell’ ordine, non c’è più un organo imparziale che fa da cuscinetto, si salvi chi può, il vero garantista vuole, in Italia che il sistema rimanga così, che si puniscano magari i magistrati che lavorano male, o che lavorano poco o che non sono imparziali, ma che si lasci il principio dell’indipendenza del PM dall’esecutivo e anche il principio della sua formazione comune con il giudice, anzi molto meglio e qui c’è una raccomandazione del Consiglio d’Europa del 30 giugno 2000, che chiede agli Stati di fare come in Italia, gli stati ove il loro ordinamento giudiziario lo consente, adottino misure per consentire alla stessa persona di svolgere le funzioni di PM e poi di giudice e viceversa e questo per la similarità e la complementarità delle due funzioni, quindi non è vero che il resto d’Europa va in controtendenza, il resto d’Europa va verso il modello italiano e l’Italia che può vantare una volta nella vita di avere inventato qualcosa di buono, sta cercando da anni di abbandonare questo sistema.

Il PM che ha fatto il giudice è un migliore PM, rispetto a uno che ha fatto solo sempre il PM perché sa valutare il valore di una prova e il giudice che ha fatto il PM è un miglior giudice rispetto a quello che ha sempre e soltanto fatto il giudice perché riesce a compenetrarsi nel lavoro del PM e quindi anche lui riesce a valutare meglio com’è nata una prova e quindi che valore dare a una prova e alla fine ci guadagniamo noi, tutti i cittadini, passate parola!

Fonte: BeppeGrillo.it

WIE VAN DE DRIE

  
Bonita | Caprice | Jana
 
By Admin (from 04/08/2010 @ 12:53:36, in it - Video Alerta, read 1676 times)

Il regista e sceneggiatore Jason Reitman fa tre centri consecutivi. La sua prima regia di lungometraggi è con “Thank you for smoking” (2005), poi è la volta di “Juno” (2008), entrambi hanno ricevuto premi e interesse da parte di critica e pubblico per il particolare stile nel raccontare storie cariche di umanità e portando sullo schermo persone più che normali, che sfidano le convenzioni. Tra le nuvole mantiene questo stile e racconta una storia originale e interessante.

Ryan Bingham svolge un lavoro aziendale molto particolare, in quanto si occupa di licenziare gli impiegati di aziende che intendono ridurre il personale, licenziamenti che le aziende, per svariati motivi, non sono in grado o non vogliono attuare in prima persona.

Questo lavoro lo porta a viaggiare per 300 giorni l’anno, periodo che passa tra uffici aziendali, aeroporti e alberghi di varie città. Tra un volo e l’altro conosce Alex, una viaggiatrice d’affari con la quale condivide la stessa filosofia di vita: niente legami a lunga scadenza. Un giorno il suo capo convoca tutti i viaggiatori per annunciare un cambiamento radicale, l’esperta di numeri Natalie propone di licenziare il personale in video conferenza. Si ammortizzerebbero, così, i costi e non ci sarebbe più bisogno per gli impiegati di spostarsi da casa. Ryan mostra subito il suo disappunto, ama il suo stile di vita e inoltre sa che non è semplice licenziare una persona, che può avere le più disparate reazioni. Il capo affianca Natalie a Ryan affinchè gli mostri il tipo di lavoro che svolge e testare la video conferenza. Il tempo che trascorreranno insieme sarà utile a entrambi e Ryan inizierà anche a mettere in dubbio le sue convinzioni filosofiche, riguardo il suo rapporto con Alex.

Il film trae l’ispirazione dal romanzo omonimo di Walter Kirn, dal quale Reitman ha preso spunto per la figura di Ryan.

La sceneggiatura ha subito diverse modifiche dalla prima scrittura di Sheldon Turner, Reitman ci ha messo del suo, ampliando maggiormente il personaggio di Ryan e il contesto nel quale si muove. Ha messo in primo piano la difficoltà che gli individui possiedono nel comunicare e nello stringere legami concreti e duraturi nel mondo odierno.

Il paradosso risiede nel fatto che oggi c’è la tecnologia che elimina le distanze, si ha ogni sorta di strumento tecnologico all’avanguardia per comunicare da una parte all’altra del globo, ma i rapporti umani si vanno man mano esaurendo.

Nel comunicare utilizziamo sempre qualche filtro che invece di unirci ci allontana, così è più facile parlare di problemi personali o situazioni intime tramite i social network o una telecamera, piuttosto che dialogare a tu per tu, ascoltare cosa gli altri hanno da dire. Si è presi talmente da se stessi, da perdere il contatto umano, che è insostituibile. Si creano così individui soli, convinti che la propria solitudine sia per scelta.

Ryan è una persona in gamba, sa far bene il suo lavoro, abbracciando positivamente i benefici e le comodà che quest’era dà. Conduce una vita tranquilla e piacevole, il suo obiettivo è quello di raggiungere 10 milioni di miglia, per assaporare i benefici del vincitiore. Ryan, tuttavia, non ha amici, con le sue sorelle si sente di rado, quasi non le conosce più, non ha una donna, solo qualche fugace incontro in un albergo di una città qualsiasi, perché ciò che Ryan vede di ogni città si somiglia tutto, gli aereoporti e gli alberghi hanno la medesima estetica, si dà così l’impressione al viaggiatore di trovarsi nel familiare, ma non è casa.
Ryan gradualmente comprende quanto siano piacevoli i legami affettivi e quanto possano arricchire un individuo, renderlo appagato e felice. Questo cambiamento si attua grazie all’incontro con Alex, una donna attraente e intelligente e con la quale inizia a pensare a un futuro, e a Natalie, la giovane collega che crede profondamente nel matrimonio, nel condividere una vita con la persona che si ama. Entrambe con atteggiamenti diversi lo fanno crescere emotivamente, sgretolando poco a poco il suo individualismo.

Un elemento importante, che sta alla base del film, è l’esplorazione profonda, che Reitman fa, dei sentimenti più svariati che si provano per la perdita di un lavoro. Il regista ha voluto delle reazioni vere e dirette di americani comuni che hanno vissuto questa dolorosa esperienza in un momento in cui la situazione economica del paese non è delle migliori. Reitman e i suoi collaboratori si sono recati a Detroit e a St. Louis, le due città più colpite dalla disocupazione, e hanno pubblicato annunci in cui si dichiarava che stavano facendo un film sull’argomento e si cercava gente disposta a parlare del proprio vissuto, questo per dare voce alla dura realtà. Per Reitman non serviva inventare storie, quando si ha la realtà davanti agli occhi, più sconcertante e toccante di quanto si possa pensare. Spesso le persone licenziate sono solo dei numeri, si sente parlare di percentuali in cui non si ravvisa l’essere umano.

Tra le nuvole possiede una vena umoristica molto netta, George Clooney conferisce al suo personaggio Ryan un umorismo sottilmente dark mai eccessivo, incarnando in modo perfetto i lati del suo carattere.
Per ciò che riguarda l’ambientazione, le riprese sono state fatte in cinque città, che sono servite per mostrare tutte le altre presenti nel film. La base della produzione è stata St Louis. Inoltre Reitman ha voluto girare all’interno di aeroporti veri per catturarne la vera atmosfera.

La fotografia segue l’evoluzione del personaggio e la diversa ambientazione in cui ogni volta si trova. Le tonalità calde associate al Sud si contrappongono a quelle violacee di Wichita, per esempio.
Reitman voleva un’atmosfera romantica che accompagnasse Ryan nei suoi viaggi, per sottolineare l’amore per il suo stile di vita e come apprezzi il senso di precarietà nel quale vive.

Le luci sono costruite e artificiose, rispecchiando l’atteggiamento freddo e distaccato di Ryan, poi nel corso del racconto diventano morbide e calde, seguendone il cambiamento interiore.

Tra le nuvole mostra un uomo, come ce ne sono tanti, e il suo percorso di crescita emotiva, è una storia ricca d’umanità che dà voce a tematiche poco trattate e lo fa con delicatezza, nei momenti in cui il protagonista si ferma a riflettere coinvolge anche la riflessione dello spettatore.

Č un film ricco sotto tanti punti di vista, senza dimenticare un umorismo fresco e leggero. ( Fonte: cinemalia.it)

Autore della Recensione: Francesca Caruso

 
By Admin (from 05/08/2010 @ 15:54:27, in it - Video Alerta, read 2794 times)

Dopo aver lavorato insieme nell’ultimo film “L’imbroglio – The Hoax” (2006), il regista Lasse Hallstrom ritrova Richard Gere nel riadattamento americano del film “Hachi-ko Monogatari” (La storia di Hachi, il suffisso “ko” sta a indicare l’aggettivo “piccolo”) del 1987, scritto da Kaneto Shindô e diretto da Seijirô Kôyama.

Quella raccontata nei due film è una storia vera accaduta in Giappone durante l’inverno del 1923, iniziata a Odate, dove Hachi è nato. Il cucciolo è stato dato alle amorevoli cure di Hidesamuro Uyeno, un professore della facoltà di agraria dell’università di Tokyo.

Hachi quotidianamente lo accompagnava alla stazione dei treni e all’orario in cui il suo padrone ritornava, a fine giornata, era lì, all’uscita della stazione di Shibuya ad attenderlo.
Una sera Uyeno non fece ritorno col solito treno, era morto, ma Hachi continuò ad aspettarlo tutti i giorni per 10 anni. Hachi morì l’8 marzo 1935.

La storia raccontata da Lasse Hallstrom è ambientata in America. Il professor Parker si imbatte in un cucciolo disperso alla stazione dei treni, lo vorrebbe lasciare a Carl, il capostazione, per consegnarlo a chi l’avesse smarrito, ma poi lo porta a casa con sé. La moglie lo scoraggia dal tenerlo e lo invita ad appendere dei volantini per ritrovare il suo proprietario. I giorni passano e il legame tra Parker e Hachi, il cui nome è scritto sulla medaglietta, si rinsalda maggiormente. Hachi inizia ad accompagnare il suo padrone alla stazione, la mattina, e ad aspettarlo all’uscita della medesima, all’orario esatto di quando arriva il treno, alla sera.

Tutte le persone nei pressi della stazione rimangono strabiliate dal comportamento di Hachi. Un giorno il professor Parker non ritorna al solito orario, purtroppo il professore è morto e il cane viene affidato alla figlia e al marito. Hachi, però, scappa per trovarsi all’ora stabilita davanti alla stazione e rimane in attesa. La notizia del cane fedele che aspetta il suo padrone si diffonde e un giornalista scrive la sua storia pubblicandola su un quotidiano. Hachi aspetterà Parker per 10 anni.

La storia di Hachi impressionò per primi gli stessi giapponesi che videro nel cane lo spirito di fedeltà alla famiglia che tutti avrebbero dovuto avere. Alla stazione di Shibuya è stata collocata una statua in bronzo in onore di Hachi e l’entrata della stazione dove è posta, è stata chiamata “Hachiko-guchi” (uscita Hachiko).

L’intento del regista è stato quello di portare sullo schermo una storia senza tempo, che parla di dedizione e di amicizia, una storia semplice che contiene un messaggio nobile, riuscendo a emozionare e a toccare le corde più intime di un individuo.

Mostrare il cane che si reca, giorno dopo giorno, nel solito posto, alla solita ora smuove la sensibilità che c’è in ognuno di noi, Lasse Hallstrom sottolinea così quel senso di lealtà radicato in Hachi, che ognuno vorrebbe provare, ogni persona vorrebbe qualcuno così, qualcuno che ci sarà sempre e ci ami incondizionatamente.

Il regista, d’altronde, delinea una senso di lealtà reciproca, l’affetto di Parker per Hachi è istintivo e subitaneo, nel momento in cui lo trova avverte un trasporto affettivo forte e il suo comportamento è sincero e onesto e il cane lo percepisce. In una sequenza Ken, l’amico di Parker, gli sottolinea come il cane abbia già scelto il suo padrone.

Lasse Hallstrom ha voluto raccontare una storia semplice, ma che arriva dritta al cuore.
Non ci sono atti eroici, nessuno salva nessun’altro materialmente, un uomo dona il suo affetto ad un cane che lo ricambia, entrambi hanno trovato quel qualcosa che ancora mancava nella propria esistenza, un amico inseparabile. Hallstrom racconta la storia attraverso la narrazione del nipote di Parker, che in classe spiega chi sia il suo eroe. Hachi è stato un eroe nel quotidiano, nei piccoli gesti e comportamenti che sapeva donare al suo padrone e nell’attendere colui che amava, oltre la vita.

Oggi si vive di corsa, tralasciando del tempo prezioso per i valori che dovrebbero contare veramente, e donare l’amore che si possiede assaporandone tutti i vari passaggi. In fondo non c’è niente di più importante dell’amare e dell’essere amati.

Questa è la morale del film e il regista ha saputo mescolare bene tutti gli ingredienti, avvezzo nel trattare storie in cui i sentimenti e le emozioni la fanno da padroni, un esempio per tutti è “Chocolat” (2000).
Hachiko è un film sincero e commovente, in cui gli attori sono tutti pertinenti ai rispettivi ruoli, ma colui che cattura l’attenzione e non lascia più lo sguardo dello spettatore è senza dubbio Hachiko. ( Fonte: cinemalia.it)

Autore della recensione: Francesca Caruso

Redazioneonline- Cinema e Spettacoli

 
By Admin (from 06/08/2010 @ 10:55:11, in it - Video Alerta, read 1632 times)

Anni ‘80. Rita ha 12 anni quando assiste all’uccisione del padre, Don Vito Mancuso (Marcello Mazzarella), per mano di un boss mafioso rivale in affari. A distanza di alcuni anni anche il fratello viene ucciso, così la ragazza (Veronica D’Agostino), all’età di 17 anni, decide di diventare collaboratrice di giustizia, mettendosi contro la mafia e l’intero paese nel quale ha vissuto la sua adolescenza.

Il regista Marco Amenta dirige un autentico trattato antimafia che si ispira alla vera storia di Rita Atria, collaboratrice di giustizia del giudice Borsellino, suicidatasi una settimana dopo l’attentato mortale al magistrato per opera di Cosa Nostra.

Sebbene con nomi fittizi e libere interpretazioni, la sceneggiatura trae le sue colonne portanti dai fatti reali che emersero in uno dei più importanti processi degli anni’90. Partendo dal motivo scatenante, l’omicidio di Don Vito, Amenta fa apparire la decisione di Rita di collaborare con lo Stato come una sorta di vendetta meditata per anni e nei confronti di un uomo solo, Don Salvo, il quale commissionò quel delitto.
Nel film ci sono vari spunti di riflessione e diverse scene che simbolicamente o direttamente indagano nell’universo mafioso attraverso la sua inesorabile evoluzione. Nella prima sequenza, ad esempio, la piccola Rita sporca le lenzuola bianche stese sul tetto scrivendoci un saluto al padre con la passata di pomodoro: se ne evince un significato chiaro, metaforico, un presagio di color vermiglio che annuncia i drammi che si susseguiranno da lì a poco intaccando l’innocenza e i sogni giovani della bambina.

Sotto un profilo politico, poi, il delitto di Don Vito prima e quello del maresciallo dopo sanciscono una vera e propria guerra tra Stato e Cosa Nostra, a cominciare dall’ascesa agli inizi degli anni ‘80 con la droga posta come nuovo oggetto di commercio malavitoso. La mafia cambia connotazione e si configura non più come movimento legato ai cosiddetti “uomini d’onore”, bensì come associazione a delinquere finalizzata a grandi interessi di natura economica e politica.

Gli epicentri della sua camaleontica trasformazione sono rilevabili nei piccoli paesi della Sicilia, in cui la realtà poggia tragicamente su questioni dettate dal timore nei confronti del potere violento e occultate dalle consuetudini omertose ed effimere adottate dalla gente comune, nata e cresciuta in un clima corrotto e precario.

Rita abbraccia non senza difficoltà la causa di giustizia, pur conservando principalmente una mentalità plasmata dalle gesta del padre e dalla rabbia del fratello, le due figure pseudo educative seguite dalla ragazza.

Il rapporto fra giudice e collaboratrice viene coltivato lentamente, passando dall’ostilità reciproca alla comprensione che sposa il buon senso, quello del dovere. Entrambi i due caratteri, che si possono dire “istituzionali”, si prendono i propri rischi, convivendo con la paura che condiziona pesantemente la loro esistenza e il loro viver civile.

Rita, pervasa dalle turbolenze della propria età, abbandonata dalla madre e ripudiata dai compaesani, costretta a muoversi in un limbo minaccioso, morirà suicida ma vittoriosa, dichiaratasi nemica della mafia a seguito delle sue pregresse sofferenze. Amenta specifica l’approssimativa trattazione dei personaggi mostrando sul finale immagini di repertorio riguardanti il funerale di Rita e titoli di coda esaustivi in tal senso.

Questa cronaca di una morte annunciata rappresenta una decisa denuncia verso la mafia, ma anche nei confronti di uno Stato spesso incapace di fronteggiare situazioni dalle quali scaturiscono stragi e ambigue implicazioni. “La siciliana ribelle” è stato giudicato il miglior film al festival di Roma. ( Fonte: cinemalia.it)

Autore della recensione: Samuele Paquino

Redazioneonline- Cinema e Spettacoli

 
By Admin (from 07/08/2010 @ 13:05:52, in it - Video Alerta, read 2990 times)

Reduce da una lunga missione umanitaria in Africa, il sacerdote Carlo (Carlo Verdone) torna a Roma pieno di dubbi ed incertezze. Tuttavia dovrà affrontare una situazione familiare del tutto particolare: il padre (Sergio Fiorentini) si è appena sposato con la sua badante moldava Olga e i fratelli Beatrice (Anna Bonaiuto) e Luigi (Marco Giallini) sono convinti che la donna sia interessata soltanto agli averi del marito.
Nella tragicomica vicenda si inserisce anche Lara (Laura Chiatti), la trasgressiva figlia di Olga.

Nel vasto panorama della commedia italiana, il regista e attore Carlo Verdone si conferma figura fondamentale nel mettere in scena storie e situazioni che necessitano di una certa riflessione ancor prima della naturale ilarità arrecata dai canoni e dagli obiettivi dichiarati del genere. Con un certo stile di posa che caratterizza l’intera filmografia di Verdone, ne nasce una vicenda intimamente familiare e paradossalmente tragicomica, dove si discute di varie tematiche sfaccettate e molto attuali.

Carlo è un personaggio in conflitto con se stesso, dotato di una certa integrità ma pervaso da dubbi e paure inerenti il ruolo che ricopre, il sacerdote missionario. Il suo ritorno dall’Africa appare traumatico, poiché ove egli s’aspettava calore e serenità trova soltanto complicazioni e novità sconcertanti, dovute al matrimonio del padre con la badante Olga.

Qui si pone subito un primo tema caldo della società odierna, cioè l’inserimento di donne straniere immigrate in Italia e desiderose di sistemarsi in famiglie benestanti che possano garantir loro un certo tenore di vita a scapito del reale sentimento provato per il consorte. Ne deriva nel film una guerra testamentaria che coinvolge inevitabilmente la prole del pensionato, formata da personaggi indubbiamente pittoreschi, sui quali indugia non poco la cinepresa diretta da Verdone: Beatrice, interpretata da una bravissima Anna Bonaiuto, è una psicologa frustrata dai metodi sbrigativi e con una figlia adolescente complessata; Luigi è un agente di borsa dalla vita sregolata e con il vizietto della cocaina.

L’unico in grado di riportare una qualche forma di ordine sociale sembra essere Carlo, che però è solo in questo arduo tentativo. Verdone circonda il suo protagonista di persone che non richiedono il suo consiglio né risultano capaci di ascoltare le sue problematiche, dimostrando esse un egoismo innato che suscita quasi compassione. In più il backround della città romana è sempre stato nei film dell’attore piuttosto ostile, con comparse alquanto incisive che mostrano le consuetudini e l’arroganza di una società non più in grado di intervenire con sensibilità e senso del dovere, palesando a rinforzo di tale tesi un accento dialettale, “burino”, aggressivo quanto patetico.

Nel prologo introduttivo, il sacerdote Carlo parla indirettamente allo spettatore eleggendolo ad unico elemento, sebbene extra filmico, capace di comprenderlo. Egli è un uomo in crisi, su cui grava una missione che ritiene più grande di lui e con una fede messa in discussione.
Ciò nonostante, Verdone non vuole addentrarsi in questioni eccessivamente escatologiche e a tale proposito non parla di religione né di cariche ecclesiastiche. La figura sacerdotale messa in scena può apparire un po’ blanda, tuttavia in essa sono presenti tutti i valori e i pensieri propri di un ruolo così profondamente peculiare.

Come in ogni lavoro del regista che si rispetti, entra inevitabilmente una sorta di alter ego del protagonista: come successe in “Sono pazzo di Iris Blond”, compare la misteriosa e trasgressiva femme fatale, Lara, impersonata da un’ottima Laura Chiatti, bellissima e perfettamente in parte. Una presenza femminile libertina e così distante da Carlo sconvolge letteralmente il modo di porsi dell’uomo, che inizia a riflettere sulla sua carica religiosa e sulla sua adeguatezza, il sentimento amoroso pare cominciare a prendere il sopravvento.

Il buonismo sincero dimostrato con coscienza dai caratteri di Verdone può confondersi con l’ingenuità di un candido, poiché per il regista romano risulta essenziale raccontare con guanto di velluto, racconto che sia dolcezza ma anche determinazione drammatica ancor prima che comica, da ricercare e trovare nei suoi codici di messa in scena. Tra gag divertenti ma alquanto sobrie e sequenze burlesche, la storia approda ad un giusto finale, sebbene il processo risolutivo si possa soltanto intuire. ( Fonte: cinemalia.it)

Autore della recensione: Samuele Pasquino

 
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Now Colorado is one love, I'm already packing suitcases;)
14/01/2018 @ 16:07:36
By Napasechnik
Nice read, I just passed this onto a friend who was doing some research on that. And he just bought me lunch since I found it for him smile So let me rephrase that Thank you for lunch! Whenever you ha...
21/11/2016 @ 09:41:39
By Anonimo
I am not sure where you are getting your info, but great topic. I needs to spend some time learning much more or understanding more. Thanks for fantastic information I was looking for this info for my...
21/11/2016 @ 09:40:41
By Anonimo


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02/05/2024 @ 23:15:38
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