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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 

Succede anche per i dispositivi elettronici, che un giorno potrebbero funzionare grazie ai protoni invece che ai tradizionali flussi di elettroni. Il cambio di paradigma non è affatto casuale, perché permetterebbe ai nuovi circuiti di comunicare direttamente con gli organismi viventi, in cui le cellule si scambiano informazioni attraverso il passaggio di ioni e protoni, appunto. Lo spiega uno studio pubblicato su Nature Communications dai ricercatori dell’Università di Washington, coordinati dal nanotecnologo italiano Marco Rolandi.

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Uno dei componenti fondamentali dei circuiti biologici è lo ione idrogeno (H+), ovvero un nucleo atomico composto da un solo protone che spostandosi produce una vera e propria corrente. Questa serve ad alimentare alcune funzioni dell'organismo, tra le quali la produzione di Atp, la molecola che e' usata per trasferire energia nel nostro corpo. Perché, allora, non costruire un circuito artificiale in grado di interagire con i sistemi viventi? Il gruppo di Rolandi ci ha pensato su, e ha realizzato il primo prototipo di dispositivo a corrente protonica sfruttando un materiale adatto a condurre gli ioni H+. La scelta è caduta sul chitosano, un polimero ricavato dal gladio dei calamari, un organo primitivo rimasto dopo la scomparsa del guscio.

Il transistor a protoni realizzato nei laboratori della Uw misura cinque micrometri - appena un ventesimo dello spessore di un capello - e poggia su un supporto di silicio. Il circuito è in grado di veicolare una corrente di protoni il cui flusso può essere acceso e spento attraverso un interruttore. Il piccolo dispositivo non è ancora compatibile con gli organismi viventi e dovrà essere adattato prima di poter essere testato per questo scopo.

Di fatto, però, si è aperta la strada verso un nuovo campo della ricerca, quello della bionanoprotonica. In futuro, gli scienziati potranno costruire modelli di transistor biocompatibili da applicare a qualsiasi tessuto organico. Lo scopo? Magari quello di costruire un'interfaccia artificiale attraverso cui monitorare, o addirittura coadiuvare, le funzioni vitali degli esseri viventi.

Riferimento: doi:10.1038/ncomms1489
Foto credits: Marco Rolandi, University of Washington

 
By Admin (from 19/10/2011 @ 08:00:48, in it - Osservatorio Globale, read 2750 times)

Imparare come trasportare un singolo elettrone tra due punti distanti tra loro, senza che questo perda informazione lungo il tragitto, è il primo (difficile) passo per la realizzazione dei computer quantistici. Ci sono vicini alcuni ricercatori dell'Università di Cambridge, che in uno studio pubblicato sulle pagine di Nature spiegano come siano riusciti a far “rimbalzare” fino a sessanta volte una particella carica da una parte all'altra di un filo elettrico. Una tecnologia che potrebbe essere usata per controllare il trasferimento di qubit (l'unità minima di dati in questi elaboratori) tra i componenti dei computer del futuro.

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Se si pensa a un cavo percorso da corrente probabilmente si immagina all'interno di esso un flusso ordinato di elettroni che viaggiano in una direzione precisa, da un capo all'altro del filo. La realtà però è decisamente diversa: ognuno di essi nel suo tragitto segue un complicato percorso a zig zag, lungo il quale può incontrare o girare intorno ad altre particelle cariche. Nell'interagire con l'ambiente che lo circonda, l'elettrone può smarrire l'informazione che sta trasportando: in questo caso si dice che lo stato quantico che lo rappresenta ha perso coerenza, e la particella non può più essere usata come messaggero di dati. Per ovviare al problema, gli scienziati britannici hanno dunque pensato di costruire una sorta di tappeto volante per intrappolare il singolo elettrone. In pratica si tratta di sollevarlo a livelli di energia superiori a quelli delle altre particelle, e lo si fa così viaggiare indisturbato per tratti relativamente lunghi.

Secondo l'idea dei ricercatori, infatti, per poterlo trasportare, il corpo carico deve venire inizialmente intrappolato in una piccola buca chiamata punto quantico (in inglese quantum dot), dentro un pezzo di un semiconduttore di arseniuro di gallio (GaAs). All'interno di quest'ultimo, il potenziale elettrostatico (ovvero il valore dell'energia del campo elettrico percepito in un punto da una particella carica) viene poi plasmato grazie a una brevissima onda sonora, che passa proprio attraverso la buca. Il segnale, che dura appena qualche miliardesimo di secondo, crea un canale ad energia più alta di quella degli altri elettroni, che collega il punto quantico su cui si trova l'elettrone a un altro quantum dot lontano qualche milionesimo di metro. L'onda che accompagna il potenziale elettrostatico preleva dunque l'elettrone e lo fa scivolare nel canale di energia, permettendogli di raggiungere l'altra buca, dalla quale viene nuovamente risucchiato.

“Il movimento è simile a quello che si ha nell'esofago quando ingoiamo un boccone e la contrazione successiva dei nostri muscoli accompagna il cibo dalla bocca allo stomaco”, ha spiegato Rob McNeil, uno degli autori. Una volta che l'elettrone è stato spostato, un'altra onda sonora uguale alla precedente può farlo avanzare ulteriormente, mentre una inviata in direzione contraria può riportarlo alla posizione di partenza: con questo metodo i ricercatori sono riusciti a mandare un singolo elettrone avanti e indietro per più di sessanta volte lungo una distanza totale di quasi 0,25 millimetri (una distanza pressoché macroscopica, rispetto alle dimensioni delle particelle).

“Questo tipo di tecnologia permetterà ai computer quantistici di funzionare”, ha commentato Chris Ford, coordinatore della ricerca. “Molti team nel mondo stanno lavorando per costruire parti di questi nuovi elaboratori, che promettono prestazioni molto maggiori di quelli classici. Ma per ora pochi sforzi erano stati fatti per lo sviluppo di metodi che connettessero le diverse componenti, come la memoria e il processore. Se riusciremo a dimostrare che tramite questa tecnologia l'elettrone effettivamente non perde l'informazione che trasporta, il metodo potrà essere poi utilizzato proprio per spostare i qubit all'interno dei circuiti di un computer quantistico".

Riferimenti: Nature doi: 10.1038/nature10444

 

Secondo la denuncia lanciata sul Guardian da Paul Paquet, ricercatore della Raincoast Conservation Foundation, il governo canadese vorrebbe adottare questa strategia per salvare una delle popolazioni di renne più minacciate dell’intero paese, e della quale il lupo e l’orso sono i principali predatori.

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Strategia che, allo stesso tempo, servirebbe a garantire la continuazione delle attività industriali della zona.
In realtà, il piano di recupero per il caribù proposto dall’Environment Canada è ancora in fase di discussione e si sofferma appena sul controllo dei predatori come possibile scappatoia. Tuttavia, stando alle parole del ministro Peter Kent, rimedi alternativi come la costruzione di aree protette delimitate da barriere sarebbero economicamente proibitivi per lo Stato di Alberta, e in ogni caso verrebbero ugualmente contestati perché inadeguati. Ecco quindi che, agli occhi del governo canadese, l’abbattimento intensivo dei lupi (le stime parlano addirittura di cento individui ogni quattro renne da salvare) rimarrebbe l’unica ipotesi attuabile: d’altra parte, come sottolinea lo stesso Kent, “il pubblico ha già accettato strategie simili altrove, come la caccia delle alci nel Newfoundland e Labrador”.

L’abbattimento programmato degli animali è, in effetti, uno strumento di controllo normalmente utilizzato nei parchi e nelle aree protette e, per quanto crudele, può essere necessario per tutelare gli ecosistemi. "Ma, sebbene in Canada il lupo non sia una specie protetta, il suo prelievo in natura non è mai previsto", spiega Luigi Boitani, ordinario di Biologia e conservazione della fauna selvatica presso La Sapienza di Roma, che da anni studia l’ecologia del lupo: "In ogni caso, per qualsiasi specie, non è mai uno strumento necessario. La natura non ne ha bisogno, è piuttosto l’essere umano che lo rende necessario per indirizzare l’ecosistema in una certa maniera. Inoltre, i numerosi esperimenti condotti in America sui lupi hanno mostrano come non sempre l'abbattimento funzioni: dipende, infatti, dalla densità di prede e predatori e dal contesto ecologico; in questo caso in particolare, manca uno studio che accerti la reale situazione”.

Insomma, si stratta di una scelta che oltre ad essere scientificamente inappropriata, potrebbe rivelarsi inutile in questo contesto. Infatti, come si legge sul piano del ministero dell’ambiente canadese e come denunciano i biologi della conservazione, nello Stato di Alberta la principale minaccia di estinzione per i caribù è rappresentata da diversi fattori - alcuni non del tutto chiari - il più importante dei quali è la distruzione delle foreste boreali, cominciata oltre un secolo fa e oggi dovuta soprattutto allo sfruttamento delle sabbie bituminose per la produzione del petrolio. “Dunque - spiega Paul Paquet - i caribù stanno scivolando da tempo verso l’estinzione; e non per quello che fanno i lupi o gli altri predatori, ma per ciò che l’essere umano ha già fatto”. Così, perseguitare i lupi per salvare le renne, anziché tutelare l’habitat, permetterebbe di “salvare” anche i profitti dell’industria petrolifera.

È propro la degradazione dell’ambiente, infatti, ad alterare il normale equilibrio tra preda e predatore: la scarsità di cibo e di spazio disponibili riduce le probabilità di sopravvivenza e di riproduzione delle renne, le costringe in aree circoscritte e le rende, infine, facili prede dei lupi. Ma abbattere questi ultimi, in ogni caso potrebbe non essere la soluzione. Come sottolinea Paquet, se anche si annientassero le popolazioni locali, altri individui arriverebbero dai territori vicini per sostituirle. In quest’ottica, quindi, anziché cercare un capro espiatorio per mettere in atto un rimedio che potrebbe rivelarsi solo temporaneo, sarebbe più sensato adottare una strategia che sia in grado di frenare la vera minaccia – per esempio limitare l’impatto delle attività umane sull’ecosistema e favorire l’integrazione tra essere umano e natura - provando a risolvere davvero il problema.

Fonte: galileonet.it

 
By Admin (from 23/10/2011 @ 11:00:04, in it - Osservatorio Globale, read 1870 times)

Detail-mappa salinità

Rosse nelle zone più salate, verdi in quelle intermedie e viola nelle regioni più dolci. Sono questi i colori delle acque del nostro pianeta, almeno sulla prima mappa della salinità degli oceani. A realizzarla sono stati i ricercatori della Nasa e dell’Agenzia spaziale argentina (Comisión Nacional de Actividades Espaciales, CONAE) grazie alle prime osservazioni compiute dallo spazio dal satellite Acquarius, confrontate con le misure sperimentali.

Lanciato a giugno, Acquarius è diventato operativo solamente lo scorso agosto, quando gli strumenti a bordo hanno cominciato a registrare i dati relativi alla salinità della superficie degli oceani. Scopo della missione è infatti quello di analizzare come varia la concentrazione del sale nelle acque del pianeta, fondamentale sia per studiare le correnti oceaniche sia per comprendere meglio il ciclo dell’acqua, e per capire come questi fattori siano influenzati dai cambiamenti climatici.

Nell'atlante realizzato dai ricercatori le regioni più salate (sopra i 35 grammi di sale per kg di acqua, considerato il valore medio di mari e oceani) sono quelle dell'Atlantico, del Mediterraneo più interno, delle fasce subtropicali e le acque sul versante ovest dell'India. Mentre le più dolci sono invece le acque all'altezza dell'Equatore, il Pacifico settentrionale, il Mar Caspio, il golfo del Bengala e quelle prossime al circolo polare artico. In alcuni casi questi pattern di salinità sono facilmente collegabili ad alcune caratteristiche regionali, come la foce di alcuni fiumi (per esempio dove sfocia il Rio delle Amazzoni o il Gange) o le precipitazioni (come quelle abbondanti nelle zone equatoriali). Questi infatti, insieme all'evaporazione e allo scioglimento dei ghiacciai, sono i fattori che più possono influenzare la concentrazione di sale nelle acque.

Le regioni rappresentate in nero invece sono quelle per le quali non esistono ancora dei dati. Le informazioni estrapolate dal satellite infatti sono da considerarsi ancora preliminari e con alcune incertezze, che verranno colmate dalle future osservazioni di Acquarius nei tre anni previsti di vita operativa.

Riferimenti: NASA - via Galileonet.it

Credits immagine: NASA/GSFC/JPL-Caltech

 

Secondo i dati resi pubblici dall’ Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), infatti, è il posto più inquinato del mondo. La colpa è delle industrie e dell’uso massiccio di combustibili fossili per alimentare i trasporti. Ma nella lista nera dell’Oms figurano molte altre città del mondo arabo che, assieme ad alcuni stati africani e asiatici, è una delle aree del pianeta a soffrire maggiormente di inquinamento ambientale. La classifica è stata stilata monitorando la qualità dell’aria di circa 1100 città sparse in 91 paesi, tenute sotto controllo dal 2003 al 2009. Le misurazioni hanno interessato il cosiddetto particolato, cioè l’insieme delle particelle solide e liquide disperse nell’atmosfera con un diametro inferiore ai 10 micrometri (PM10) e ai 2,5 micrometri (PM2,5).

Detail-il cairo

Ma veniamo ai numeri. Ahwaz si piazza al primo posto con una densità media di PM10 pari a 372 microgrammi per metro cubo all’anno. Una cifra mostruosa se pensiamo che il limite fissato dall’Oms per questo tipo di particelle è di 20 microgrammi per metro cubo. Segue la capitale della Mongolia con i suoi 279 microgrammi per metro cubo all’anno e Sanandaj, un’altra città dell’Iran con 254 microgrammi per metro cubo all’anno. Nei primi posti figurano anche il Pakistan, il Botswana e il Senegal, presenti nella top ten dei paesi più intossicati al mondo. E l’ Italia? Torino è la città più inquinata (47 microgrammi per metro cubo all’anno), ma anche Milano e Napoli non se la passano bene (44 microgrammi per metro cubo all’anno).

I maggiori responsabili di questo stato di cose, secondo l’Oms, sono l’ industrializzazione sfrenata e l’uso quasi esclusivo di combustibili fossili sia nei trasporti sia nella produzione di elettricità. E non è un caso che nelle prime posizioni della classifica figurino molti paesi emergenti, pronti a sacrificare l’ambiente (e la salute) in nome del progresso e della crescita economica. “ Le industrie emettono dense nuvole di fumo nell’aria e il governo non fa alcuno sforzo per controllare e frenare le loro attività”, si lamenta Mohammad Hasan, un cittadino di Karachi, in Pakistan. Va da sé che senza regolamentare il settore industriale, tutti i piccoli sforzi fatti per cercare di migliorare la qualità dell’aria (a Karachi, per esempio, i bus più inquinanti sono stati sostituiti con veicoli a basse emissioni) rischiano di essere vani.

A rimetterci sono le persone, sempre più a rischio di ammalarsi di tumore o malattie a carico dell’apparato respiratorio e cardio-circolatorio. I dati dell’Organizzazione mondiale della sanità parlano di circa 1,34 milioni di morti premature causate ogni anno dall’inquinamento. Un problema che non è solo etico, ma economico: investendo nella tutela dell’ambiente, infatti, i governi riuscirebbero a ridurre le spese sostenute per la sanità pubblica, recuperando fondi da investire altrove.

È quello che hanno fatto nazioni come l’Australia e il Canada (13 microgrammi per metro cubo all’anno), l’Irlanda (15 microgrammi per metro cubo all’anno) o la Norvegia (22 microgrammi per metro cubo all’anno), agli ultimi posti di questa sfortunata classifica proprio perché hanno scelto di investire sull’ambiente. Anche se, per essere sinceri, dobbiamo ricordare che a differenza di altri paesi godono di situazioni geografiche e demografiche (densità di popolazione bassissime) certamente più favorevoli.

Sempre a onor del vero, bisognerebbe poi ricordare che la classifica dell’OMS soffre di alcune imperfezioni. Per esempio, analizza un campione eterogeneo, dove ci sono pochissimi dati per paesi coma la Russia e la Cina, due delle nazioni più inquinate al mondo. Inoltre, le misurazioni effettuate fanno riferimento ad anni diversi. Ma è comunque un’analisi utile per disegnare questa infelice mappa globale, dove tutti dovrebbero preoccuparsi della salute del pianeta. Perché nel cielo non ci sono linee di confine e l’inquinamento viaggia facilmente da un paese all’altro.

Riferimenti: WHO - Via: wired.it - Credits immagine: Il Cairo di Nina Hale/Creative Commons/Flickr

 
By Admin (from 27/10/2011 @ 14:00:52, in it - Osservatorio Globale, read 3771 times)

Appena videro affiorare i resti dell’imponente edificio romano a pianta rettangolare, rinvenuti tra Ostia e Fiumicino, pensarono si trattasse di un magazzino per lo stoccaggio delle merci, dall’architettura molto simile a quella dei Mercati Traianei. Procedendo negli scavi, però, gli archeologi dell’Università di Southampton dovettero ricredersi: quei pilastri larghi tre metri piantati nel II secolo d.C a metà strada tra i porti di Traiano e di Claudio, sul litorale romano, erano probabilmente la struttura portante di un gigantesco cantiere navale. Forse il più grande di tutta la Roma Imperiale, niente a che vedere con gli altri due finora noti, quello fluviale di Testaccio e l’altro marittimo di Ostia. 

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Bisogna immaginarselo come un casermone in pietra, con otto vani paralleli, dai soffitti a volta ricoperti in legno (oggi li chiameremmo box), che ospitavano le navi per la costruzione, riparazione e rimessa invernale.

Con i suoi 145 metri di lunghezza, 60 di profondità e 15 di altezza, quello che è stato chiamato l’“arsenale di Traiano” - di cui per ora è stata portata alla luce solo la prima delle otto navate - ha tutti i requisiti per venire considerato il principale cantiere navale dell’Urbe, l’unico in grado di soddisfare le sue ambizioni egemoniche sul mare. A questo scopo venne costruito durante il regno di Traiano (98-117 d.C) e solamente dopo, nel V secolo, trasformato in magazzino per la conservazione del grano.

A convincere i ricercatori di Southampton, che hanno condotto gli scavi in collaborazione con la British School at Rome e la Soprintendenza archeologica di Roma, hanno contribuito una serie di eloquenti indizi. Innanzitutto la posizione: gli otto “box” avevano un doppio affaccio, da una parte sull’antico porto di Claudio e dall’altra sul bacino esagonale di Traiano. Poi ci sono le incisioni rinvenute che parlano di un “collegium” dei “fabri navales portuensis”, una sorta di associazione di lavoratori del cantiere. La ricostruzione al computer che i ricercatori hanno realizzato con i dati a disposizione ricorda molto, infine, il soggetto rappresentato nel mosaico della Villa di Livia sulla via Labicana, con una nave in ognuna delle otto gigantesche nicchie. La nuova scoperta spiegherebbe anche la natura di un palazzo rinvenuto dalla stessa squadra di archeologi nel 2009, poco lontano dall’officina navale: si tratterebbe della sede di un comando operativo, guidato da un ufficiale dell’Impero con il compito di controllare e coordinare le attività del cantiere.

Manca però la “prova del nove”: “Dobbiamo ammettere che non c’è traccia delle rampe su cui le navi appena costruite avrebbero dovuto scivolare per entrare in acqua. Ma potrebbero essere finite nel fondo del mare in seguito ai lavori di costruzione degli argini del 1900. Trovandole, potremmo confermare la nostra ipotesi, anche se potrebbero non esistere più” spiega Simon Keay che guida la campagna archeologica (Portus Project). Si scaverà ancora, a partire dal prossimo mese, in cerca di ulteriori conferme.

Riferimenti: Portus Project; Università di Southampton - via Galileonet.it

 

O, meglio, non era. Dal  Max-Planck-Institut per la Chimica di Mainz (Germania) arriva infatti un nuovo sistema che permette di misurare con estrema precisione la concentrazione e il tempo di sopravvivenza degli ossidi azoto, basandosi unicamente sulle correnti d’aria e le rilevazioni eseguite dai satelliti. Il metodo, descritto sulle pagine di Science, potrebbe rivelarsi estremamente utile per valutare i livelli di sostanze inquinanti prodotti nelle città dei paesi in via di sviluppo, dove le rilevazioni ambientali sono effettuate con meno frequenza.

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Gli ossidi di azoto (sia il mono che il di) sono dei sottoprodotti dei processi di combustione e giocano un ruolo chiave in molti processi di inquinamento della troposfera (i primi 15 chilometri di strato atmosferico). Oltre a essere tossiche, infatti, queste sostanze chimiche contribuiscono alla formazione di piogge acide, agiscono da precursori di aerosol inquinanti e catalizzano la formazione di ozono. Informazioni dettagliate sulle loro emissioni nelle megalopoli (città con oltre 10 milioni di abitanti) sono considerate essenziali per la costruzione di modelli sull’inquinamento sia a scala locale che globale.

Finora, uno dei problemi principali è stato come stimare la persistenza degli ossidi nell’atmosfera. Se da un lato, infatti, alcune strumentazioni satellitari sono in grado di stimare le emissioni di queste molecole nell’aria, dall’altro il calcolo della loro vita si è sempre basato unicamente su modelli teorici (nel giro di poche ore, infatti, il diossido di azoto interagisce con gruppi di idrossido che ne riducono la tossicità). Adesso, invece, grazie alla tecnica sviluppata da Steffen Beirle, è possibile stimare con precisione la quantità e la sopravvivenza degli ossidi di azoto, analizzando gli spostamenti dei composti in base alle condizioni ventose e alla distanza percorsa prima di reagire con i gruppi idrossilici.

Per testare il metodo, il team tedesco si è focalizzato inizialmente sulla capitale dell’Arabia Saudita, Riyadh, per via delle sue “caratteristiche favorevoli allo studio”. La città, infatti, conta oltre 5 milioni di abitanti e ha emissioni di ossidi di azoto molto elevate; non è soggetta a venti costanti, raramente è coperta da nuvole e soprattutto è estremamente isolata (nell’arco di 200 chilometri non sono presenti altri centri densamente abitati). Così, analizzando i dati satellitari, gli studiosi sono riusciti a calcolare un tempo di sopravvivenza degli ossidi pari a quattro ore.

Poi hanno allargato la loro analisi ad altre metropoli, scoprendo diversi tempi di sopravvivenza.

“Questo metodo rappresenta un passo in avanti rispetto ai modelli attuali poiché consente di avere delle informazioni più precise per ogni luogo preso in esame”, ha spiegato Steffen Beirle su Science. “ I modelli precedenti, invece, sovrastimavano o sottostimavano la persistenza di queste specie tossiche”. Come hanno sottolineato i ricercatori, la tecnica può essere applicata a diverse fonti di emissione di ossidi di azoto e potrebbe essere allargata anche ad altre sostanze inquinanti, qualora si trovasse il modo di farle rilevare dai satelliti.

L’ultimo numero di Science non affronta il problema azoto solo dall’alto, ma anche dal basso, ossia dal punto di vista degli oceani. Un gruppo di ricercatori coreani, infatti, è riuscito a dimostrare per la prima volta gli effetti negativi che l’eccesso di azoto ha sulla chimica delle acque. “ Per anni gli scienziati hanno sospettato che il deposito di azoto reattivo sulla superficie degli oceani provocasse cambiamenti nella loro composizione chimica. Ora abbiamo mostrato che l’eccesso di azoto è in grado di alterare il normale equilibrio tra azoto e fosforo”, ha detto Tae-Wook Kim, ricercatore della University of Science and Technology di Pohang. Kim, in particolare, ha confrontato le misurazioni di nitrato e fosfato effettuate nei mari che circondano la Corea e il Giappone tra gli anni Ottanta e il decennio 2000-2010. Ha così scoperto che l’accumulo di azoto atmosferico ha rotto l’equilibrio con l’azoto disciolto, alterando il rapporto azoto-fosforo nel Pacifico. “ Se la tendenza dovesse continuare – sostengono gli autori – la vita marina dell’area potrebbe subire gli effetti della mancanza di fosforo”.

Riferimenti: Science DOI: 10.1126/science.1207824
Via: wired.it
Credits immagine: NASA

 

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Ma durante il giorno è piuttosto sfuggente, lasciando il posto ai cattivi pensieri. È quanto hanno scoperto due ricercatori della Cornell University, in Usa, analizzando i cinguettii postati su Twitter da milioni di persone sparse in tutto il mondo. Dall’analisi dei tweets, come riporta lo studio pubblicato su Science, è emerso che la felicità non ha colore, nazionalità o religione. Il buon umore, piuttosto, dipende dal sonno e dalla lunghezza delle giornate.

Se le parole sono lo specchio delle emozioni, un social network come Twitter può diventare uno strumento di indagine scientifica straordinariamente importante. Partendo da questo presupposto i ricercatori statunitensi in due anni hanno raccolto ben 509 milioni di post lasciati da 2,4 milioni di persone di 84 paesi differenti. Utilizzando un software di analisi del testo (Linguistic Inquiry and Word Count), gli scienziati hanno quindi pesato l’umore delle parole, distinguendo quelle che esprimevano sentimenti positivi (piacere, entusiasmo, vivacità, dinamismo) da quelle portavoce di negatività (paura, distrazione, rabbia, disgusto). In questo modo sono riusciti a disegnare una mappa temporale degli stati d’animo.

Si è così scoperto che, in ogni paese, le persone si svegliano felici per poi, nel corso della giornata, diventare man mano più cupe. Il buon umore ritorna verso mezzanotte e il ciclo ricomincia. A una prima analisi, questo andamento può far pensare a una relazione tra buon umore e stress: siamo più felici di mattina e sera perché non lavoriamo. Ma i ricercatori hanno riscontrato lo stesso pattern nei weekend, segno che la felicità è una questione di sonno e ritmi circadiani. In effetti, a conferma di questa ipotesi, i ricercatori hanno visto che nei giorni festivi il picco di buon umore mattutino arriva in media due ore più tardi, perché le persone dormono di più se non devono lavorare.

Lo studio non è il primo a indagare i fattori che influenzano l’umore, ma, rispetto ai precedenti, analizza un campione molto più ampio e culturalmente eterogeneo. Inoltre, grazie ai social network, ha un approccio più genuino: gli sperimentatori non domandano alle persone come si sentono, ma si limitano a registrare ciò che pensano, dicono e fanno.

Riferimenti: Science DOI: 10.1126/science.1202775  - Credits immagine: Science/AAAS - Autore: Martina Saporiti - via: galileonet.it

 

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L’hanno chiamata Spigelia genuflexa, perché piega i suoi steli fino a terra, come a inginocchiarsi, e sotterra i propri frutti: in pratica, pianta i propri semi.

La nuova specie appartiene alle Loganiaceae, una famiglia di piante diffuse nelle regioni tropicali ed equatoriali di tutto il mondo, ed è stata rinvenuta nella foresta atlantica dello Stato di Bahia, una zona ricca di biodiversità che accoglie ben nove delle quarantatre specie di Spigelia presenti in Brasile. Alex Popovkin, un botanico amatoriale che ha catalogato e fotografato più di 800 specie nella regione (le foto sono postate su Flickr), ha trovato il nuovo esemplare nei pressi della propria abitazione, ma non riusciva a identificarlo. Si è quindi rivolto ad esperti di diversi paesi, tra cui Lena Struwe, della Rutgers University, nel New Jersey. Alla fine, Popovkin, Struwe e un team di studiosi hanno concluso che si trattava di una nuova specie e l’hanno descritta in uno studio pubblicato su PhytoKeys.

Il termine genuflexa è stato scelto perché la pianta sembra davvero genuflettersi quando piega i propri steli verso il suolo, per “piantare” i frutti. Questo fenomeno prende il nome di geocarpia ed è possibile osservarlo in varie piante, ad esempio nell’arachide (Arachis hypogaea L.) che subito dopo la fecondazione introduce i fiori nel terreno dove avviene la maturazione del frutto. Nel caso della piccola pianta di Bahia, questo comportamento favorisce la sopravvivenza della specie.
La Spigelia genuflexa ha  vita breve (solo alcuni mesi nella stagione delle piogge) e il suo habitat è limitato a piccoli frammenti di suolo sabbioso. La pianta madre rilascia accanto a sé i semi che germogliano nelle vicinanze, sfruttando le caratteristiche del suo  stesso ambiente.

“Nuove specie vengono scoperte ogni giorno, ma tante altre non sono ancora note”, ha ricordato Struwe: “La scoperta mette in evidenza, ancora una volta, l'urgenza di proteggere la Foresta Atlantica, che è minacciata dalla deforestazione. Quest’area, infatti, presenta il più elevato grado di biodiversità rispetto a qualsiasi altra nel mondo, con molte specie endemiche, ma vaste zone sono già state trasformate in terreni agricoli”.

Riferimento: doi: 10.3897/phytokeys.6.1654 - Credit per l'immagine: Alex Popovkin

 

Nessuna password, nessun messaggio criptato e nessun accesso filtrato: da giovedì primo settembre, l'intero archivio di WikiLeaks è  disponibile in Rete e chiunque abbia qualche nozione base di navigazione è in grado di accedere ai 251.287 cablogrammi e di organizzare la ricerca per parole chiave. Digitando Italia, per esempio, si viene scaraventati in un'arena popolata da 6.362 file all'interno dei quali viene citato lo Stivale e la sua situazione politica, economica e sociale. Rivelazioni, riflessioni e valutazioni della diplomazia statunitense che sono tutt'ora, mentre giornalisti e semplici internauti scartabellano il materiale, oggetto di un braccio di ferro fra Julian Assange e le testate con cui il fondatore di WikiLeaks stesso avevo stretto accordi. L'apertura totale delle porte al vaso di Pandora dell'informazione, l'inizio della pubblicazione parziale risale al novembre del 2010 ( qui le rivelazioni di gennaio 2011 ), sancisce la fine del dialogo fra i media (e il giornalismo?) tradizionali e la no profit dedicata alle - letteralmente - fughe di notizie, e delega ai singoli cittadini il dovere di analizzare il materiale e far circolare quello più importante e rilevante. Noi abbiamo selezionato alcuni documenti riguardanti tecnologia, scienza e ambiente.

L'interesse degli Usa per il ritorno dell'Italia al nucleare 
In un documento datato 24 dicembre 2008, l'Ambasciata di Roma fa il punto sulla situazione dell'energia nucleare nel nostro paese, a partire dagli obiettivi fissati dal ministro Claudio Scajola per il 2020 (25% rinnovabili, 50% combustibili fossili e 25% nucleare). Gli Stati Uniti sottolineavano allora come il governo Berlusconi fosse intenzionato a puntare sul nucleare nonostante i cittadini avessero espresso parere contrario in merito con un precedente referendum e individuavano nella ricerca di finanziamenti per lo sviluppo delle centrali l'incognita del progetto. Gli States, che citavano Enel e la controllata di Finmeccanica Ansaldo tra i possibili attori tricolori coinvolti, manifestavano interesse a investire con Westinghouse e General Electric e - come si legge in un altro documento - vedevano nella cooperazione Usa-Italia nel nucleare un possibile spinta per la situazione energetica a stelle e strisce. 

La battaglia della Apple in Cina 
Nel settembre del 2008,  l'Ambasciata di Pechino si occupava della lotta della Apple alla pirateria. Il documento evidenzia come il team capitanato da Don Shruhan e John Theriault, già responsabili dello scardinamento della diffusione fasulla di Viagra orientale, abbia individuato i luoghi dedicati alla riproduzione dei gingilli della Mela, nella provincia di Guangdong, vicino all'impianto ufficiale di Foxonn, e ricostruito il percorso dei prodotti contraffatti.

Nelle conclusioni l'Ambasciata sottolinea tuttavia che senza il supporto del governo cinese, che nel caso del Viagra era interessato a tutelare la salute dei suoi cittadini, gli sforzi sono vani.  

Taiwan taglia le gambe alle rinnovabili
Febbraio 2010, al centro della riflessione l'approccio di Tawian in direzione delle energie alternative. Le autorità si sono poste l'obiettivo di aumentare la capacità delle rinnovabili/alternative dall'8 al 15% entro il 2025. Al fornitore statale di energia Taipower è stato dato il compito di acquistare rinnovabili all'ingrosso dai produttori a prezzi fissi con una revisione (e successiva imposizione di una cifra) annuale da parte dell'autorità stessa. In questo modo, sottolinea il documento, il settore pubblico è rimasto tagliato fuori, non essendo i tassi abbastanza alti da incoraggiare investimenti. Causa di ciò sarebbe l'interesse che Taipower ha a spingere il nucleare, considerato a Taiwan un'energia alternativa, e a mantenere il monopolio della fornitura di energia.  Inoltre, secondo il documento, una dichiarazione del ministro senza portafoglio Liang Chi-yuan fa riflettere su un maggiore interesse dell'isola ha in termini economici piuttosto che di diffusione delle energie in questione. 

La stretta dello Sri Lanka sui nuovi media
Dallo Sri Lanka arriva, sempre nel febbraio 2010, un allarme sulla tendenza a censurare e controllare siti Internet, motori di ricerca, social network e messaggistica via sms. Il documento parte citando un articolo del Sunday Times, secondo il quale il regolatore locale delle telecomunicazioni avrebbe assoldato esperti informatici cinesi per mettere un bavaglio alla Rete, imponendo - fra le altre cose - la registrazione obbligatoria di tutti i portali e un controllo dei risultati di Google e simili. La World Bank, che supporta finanziariamente il regolatore delle tlc, ha negato di aver assunto consulenti ma il documento pone l'accento sugli indizi dell'atmosfera che si registra nel paese: la scomparsa della giornalista Prageeth Ekneligoda, l'arresto di cittadini per aver pubblicato messaggi anti-governativi su Facebook e Twitter e il blocco di siti Internet avvenuto sotto elezioni. La preoccupazione è per la libertà di informazione e comunicazione e e per le opportunità di business nello Sri Lanka. 

Il tira e molla saudita 
Nel documento dedicato ai tentennamenti dell'Arabia Saudita in merito alla sottoscrizione dell' accordo di Copenaghen, gli interessi del paese nell'economia del petrolio impediscono di prendere posizione nella tutela dell'ambiente, gli Stati Uniti si dicono convinti che i leader si stiano rendendo conto del rischio che corrono non prendendo l'impegno di ridurre del 40% le emissioni di anidride carbonica entro il 2020. Si preoccupano, si legge, ragionando a lungo termine, ma non hanno ancora compreso quale sia il reale impatto climatico di quanto deciso in terra danese.

Fonte: daily.wired.it

 
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