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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 

Per il Tempo, è forse arrivato il tempo di cambiare. Questo gioco di parole potrebbe essere il leitmotiv del dibattito degli scienziati della Royal Society, che si sono riuniti a Londra per discutere sulla possibilità di ridefinire il Tempo Coordinato Universale (Utc), cioè il fuso orario di Greenwich da cui sono calcolati tutti i fusi orari del mondo. La questione del dibattito è una sola: dobbiamo o non dobbiamo abolire il cosiddetto leap second?

Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Per scandire il tempo delle nostre attività quotidiane, si usano due tipi di orologi: terrestri e atomici. In altre parole, il tempo ricavato dalla rotazione della Terra viene sincronizzato con quello battuto dagli orologi atomici, che usano la frequenza di risonanza degli atomi per contare i secondi. Ma dal momento che gli atomi sono molto più precisi della Terra, può succedere che i due orologi si sfasino. E prima che questo sfasamento superi gli 0,9 secondi, gli scienziati aggiungono un secondo (chiamato leap second) all’orologio terrestre riportando tutto in sincronia.

Il leap second è in vigore dal 1972, da quando, cioè, ci si è resi conto che la Terra non era un sistema di misurazione poi così affidabile. “ È dal 1920 che sappiamo che la rotazione terrestre non è così costante come pensavamo”, ha spiegato alla Bbc Rory McEvoy, il curatore dell’orologio del Royal Observatory di Greenwich, in Gran Bretagna. “ L’ International Earth Rotation Service monitora l’attività della Terra e decide quando è opportuno aggiungere un secondo alla nostra scala temporale”, ha aggiunto McEvoy. Ma se è in vigore da così tanto tempo, chi è che lo vuole abolire?

Il dito è puntato contro quelli dell’ International Bureau of Weights and Measures (Bipm) di Parigi, l’organizzazione internazionale che si occupa di tenere il tempo a livello mondiale. Secondo i ricercatori, il leap second va eliminato perché rischia di mandare in tilt i sistemi che necessitano di una scala temporale di riferimento stabile e continua. “ Il leap second sta condizionando le telecomunicazioni, è problematico per i protocolli di sincronizzazione degli orologi di computer in rete così come per i servizi finanziari – spiega Felicitas Arias, la direttrice del Dipartimento del Tempo del Bipm, nonché organizzatrice dell’incontro alla Royal Society – un altro problema riguarda Global Navigation Satellite Systems, che ha bisogno di una sincronizzazione perfetta”. Cosa che non è possibile perché, dal momento che i cambiamenti nel moto terrestre sono irregolari, lo sono di conseguenza anche i secondi aggiunti per compensare lo sfasamento.

Chi osteggia l’eliminazione del leap second, d’altra parte, crede che il rimedio sia peggiore del male. “ Se si aboliscono i leap seconds , l’Utc si allontanerà dal tempo scandito dalla rotazione terrestre sempre di più.

Alla fine, qualcosa bisognerà pur fare per correggere questa divergenza sempre più marcata”, spiega Peter Whibberley, ricercatore al National Physical Laboratory, in Gran Bretagna. Perché tra poche decine di anni, la asincronia ammonterà al minuto, ma tra qualche centinaio di anni si arriverà all’ ora. Ma allora, perché non abbandonare il leap second per una leap hour? L’idea, proposta nel 2004, è stata subito rimandata al mittente. “ Sarebbe ancora più problematico: se già non si riescono a gestire i secondi, figuriamoci le ore”, ha ironizzato Whibberley. Un’altra possibile soluzione, sarebbe compensare l’abolizione dei secondi aggiuntivi con l’ eliminazione dell’ora legale.

Per vedere come andrà a finire, dovremmo aspettare gennaio, quando a Ginevra si terrà la World Radio Conference dell’ International Telecommunication Union (Itu). In quell’occasione, tutti i 200 stati membri dovranno esprimere apertamente la propria opinione. Per ora, a chiedere la testa di questi scomodi secondi sono, secondo notizie informali, l’Italia, la Francia, la Germania e gli Stati Uniti. Mentre Gran Bretagna, Cina e Canada sono fermamente contrari a qualsiasi tipo di modifica.

Fonte: daily.wired.it

 

Se il cervello fosse un’azienda, al tavolo del consiglio d’amministrazione siederebbero solo in 12. Questi decisori sono aree cerebrali che si distinguono da tutte le altre, estremamente interconnesse, che ricevono le informazioni solo quando sono già state elaborate e filtrate dalle regioni sottoposte, e che si occupano di valutarle nel loro insieme, per poi prendere le decisioni sul da farsi.   Ai piani alti di questo organigramma troviamo la corteccia frontale superiore, la corteccia parietale superiore, l’ ippocampo, il talamo, il putamen (nella parte inferiore del cervello) e il precuneo (nella parte posteriore), ciascuno presente, in realtà, in doppia copia: una nell’emisfero di destra, l’altra in quello di sinistra, per un totale di 12 aree identiche e speculari a due a due.  

A individuarle sono stati Martijn van den Heuvel dello University Medical Center di Utrecht, nei Paesi Bassi, e Olaf Sporns dell’ Indiana University, dopo aver eseguito particolari scansioni cerebrali di 21 volontari in stato di riposo, per 30 minuti. Lo studio, pubblicato su Journal of Neuroscience, fa parte di un progetto più ampio, che intende mappare tutte le connessioni del cervello umano. La tecnica utilizzata per la risonanza magnetica si chiama diffusion tensor imaging. I ricercatori se ne sono serviti per capire cosa succede in 82 aree del cervello, ed ecco quello che hanno trovato: quelle sei paia di aree hanno il doppio delle connessioni di qualsiasi altra e i collegamenti sono sia interni sia esterni. Sembrano mancare, piuttosto, i link con i neuroni sensoriali: significa che tutte le informazioni in entrata sono già passate per altri centri di elaborazione, selezionate e pre-confezionate.

Vediamo nel dettaglio di cosa si occupano questi amministratori del cervello. Il primo polo è il precuneo: la sua funzione non è stata ancora ben compresa, per ora l’ipotesi è che agisca come un centro per l’integrazione delle informazioni di alto grado, ovvero quelle ritenute degne di nota da tutte le altre regioni del cervello. Il secondo centro è la corteccia frontale superiore, nota per pianificare le azioni in risposta agli stimoli ambientali e decidere dove focalizzare l’attenzione. Il terzo è la corteccia parietale superiore, connessa con la corteccia visiva; il suo compito è di registrare la posizione degli oggetti. L’ ippocampo è il quarto polo, sede della memoria (dove i ricordi vengono processati, conservati e consolidati). Come quinto nucleo troviamo il talamo con le sue svariate funzioni, tra cui quella di occuparsi dei processi visivi. Infine, abbiamo il putamen, che coordina i movimenti.   “ Se vogliamo cercare la coscienza nel cervello, io scommetterei su questo sistema”, ha detto Van den Heuvel su New Scientist. Questo network, infatti, sembra controllare ogni funzione.

C’è, però, il rovescio della medaglia: la stretta interconnessione rende il sistema più vulnerabile; basta che una sola di queste aree-chiave venga danneggiata per rischiare di mandare in tilt tutta l’architettura.  

Per comprendere cosa potrebbe accadere se si aprisse una falla nel sistema, Van den Heuvel e Sporns hanno modificato i dati per simulare un danno a una delle sei coppie di centri. Il risultato è che se una regione va in black out, trascina con sé tutte le altre. “ Proprio come quando una grande banca fallisce in una crisi finanziaria globale”, esemplificano i ricercatori. Malattie che coinvolgono le connessioni cerebrali, come la schizofrenia, potrebbero essere il risultato di questa debolezza interna al sistema.   Alla luce di queste considerazioni, un prossimo obiettivo dello studio delle connessioni cerebrali potrebbe essere quello di comprendere come i danni a diverse parti del network possano essere correlate alle patologie neurologiche.

Fonte: daily.wired.it

 

Immaginate di aver smarrito il cane. Come fare per ritrovarlo il prima possibile? Il buon senso suggerisce di spargere la voce, magari usando Facebook o altri social network, e offrire una ricompensa a chi lo riporterà indietro. Dalle pagine di Science, però, un gruppo di ricerca del Massachusetts Institute of Technology di Boston dà un altro consiglio: offrire il premio non solo a chi ritroverà il cane, ma anche a chi contribuirà a diffondere la notizia dello smarrimento. Proprio seguendo questa filosofia, i ricercatori del Media Lab del Mit si sono aggiudicati la Red Balloon Challenge, una competizione indetta dalla Darpa ( Defense Advanced Research Projects Agency) allo scopo di comprendere quale sia il modo migliore per spronare i cittadini all’azione, servendosi di un mezzo di comunicazione immediato come il Web.

La Red Balloon Challenge è stata pensata nel 2009 per celebrare il 40esimo anniversario della nascita dell’ Arpanet, l’antenata di Internet. Ai partecipanti è stato chiesto di sfruttare le potenzialità del Web per risolvere nel minor tempo possibile un compito che richiedeva il coinvolgimento di più persone. Gli sfidanti (un centinaio di team composti da cittadini o ricercatori) dovevano localizzare la posizione di 10 palloni rossi sparsi in tutti gli Stati Uniti. Un problema che un analista della National Geospatial-Intelligence Agency ha definito impossibile da risolvere usando i metodi di intelligence convenzionali.

Eppure, il team del Media Lab ce l’ha fatta in 8 ore e 52 minuti, e ora spiega esattamente come in uno studio. In pratica, ha promesso parte del denaro in palio (40mila dollari) non solo alle persone che avrebbero localizzato i palloni ( finders, che avrebbero intascato 4mila dollari per ciascun pallone), ma anche a chi li avrebbe messi in comunicazione con il Mit ( inviters; i primi che avrebbero fornito le esatte coordinate avrebbero preso 2mila dollari). E riceveva un premio anche chi faceva da tramite tra i ricercatori e gli inviters stessi, a cascata: mille dollari al primo che aveva invitato il finder, 500 al secondo, 250 al terzo e così via. Grazie al Web e a questi incentivi ricorrenti, il gruppo è riuscito a reclutare 4.400 persone nelle 36 ore precedenti l’inizio della gara.

La strategia si è rivelata migliore persino di quelle che facevano leva su sentimenti d’altruismo (il gruppo della Georgia Tech, arrivato secondo, ha cercato di reclutare la gente promettendo di donare il premio alla Croce Rossa). I ricercatori del Mit sono convinti che l’analisi della loro strategia sarà utile a perfezionare sia le campagne di mobilitazione sociale sia quelle di marketing.

Fonte: daily.wired.it

 

Pensare in digitale. Non è lo slogan di una pubblicità ma l’ultimo traguardo della cibernetica. Dopo aver rivoluzionato il mondo delle protesi con l’ orecchio bionico e le gambe artificiali controllate dal pensiero, i ricercatori hanno rotto l’ultimo tabù: sostituire una parte del cervello con un impianto digitale perfettamente funzionante. Per la precisione, si tratta di un cervelletto elettronico che, impiantato nella testa di un topo, si è dimostrato in grado di ricevere e dare ordini al pari dell’organo vero.

La mente vola subito lontano, a un futuro popolato da cyborg con cervelli arricchiti da impianti digitali capaci di ristabilire funzioni o amplificare le capacità cognitive. Ma restando al presente, gli esperimenti appena presentati alla conferenza Strategies for Engineered Negligible Senescence di Cambridge, in Gran Bretagna, sono ugualmente suggestivi.

I creatori del dispositivo vengono dall’ Università di Tel Aviv, in Israele. Gli scienziati hanno prima di tutto analizzato i segnali emessi dal tronco encefalico di un cervello di topo verso il cervelletto, e quelli trasmessi dal cervelletto alle altre aree cerebrali. Basandosi su questi dati, i ricercatori hanno quindi costruito il dispositivo elettronico da impiantare nella testa di un topo anestetizzato con il cervelletto danneggiato.

Utilizzare dispositivi elettronici per ristabilire funzionalità compromesse era un traguardo già conquistato. Ma in questi casi si tratta di protesi che veicolano informazioni in un’unica direzione: dall’ambiente esterno al cervello (come nel caso dell’orecchio bionico che recepisce i rumori per trasferirli al nervo acustico) o vice versa (come nel caso dell’arto artificiale che obbedisce ai comandi del cervello). La cosa straordinaria del nuovo cervelletto elettronico, in effetti, è che si tratta di un dispositivo capace di una comunicazione a due sensi: dopo aver ricevuto un input dal tronco encefalico, infatti, lo elabora e lo trasmette alle altre aree cerebrali per coordinare il movimento.

Per testare le capacità di questa versione digitale di cervelletto, i ricercatori hanno provato a insegnare al topo un riflesso motorio condizionato (un battito di ciglia) combinando due stimoli: un suono e un soffio d’aria sugli occhi. La fisiologia vuole che se i due stimoli vengono ripetuti contemporaneamente e a lungo, alla fine il soggetto fa l’occhiolino anche solo sentendo il suono. Ebbene, è venuto fuori che il topo apprendeva il riflesso motorio condizionato solo se il suo cervelletto elettronico era attaccato alla corrente.

“È ormai dimostrato che si possono registrare le informazioni provenienti dal cervello, elaborarle in modo simile a una rete biologica e rimandarle indietro al cervello stesso”, ha commentato a New Scientist Matti Mintz, coordinatore dello studio.

Il prossimo passo sarà costruire una versione più grande e raffinata del dispositivo, in grado di gestire i comandi necessari a portare a termine azioni sempre più complesse.

“Non è cosa semplice, perché il dispositivo degrada il segnale”, ha sottolineato Robert Prueckl, un ricercatore del Guger Technologies di Graz, in Austria, che ha lavorato con Mintz. Non è semplice ma neanche impossibile, basterà migliorare i software impiegati nei dispositivi e le tecniche di impianto degli elettrodi. Il sogno, naturalmente, è quello di costruire protesi cerebrali talmente complesse da riuscire a sostituire perfettamente quelle aree del cervello che, a causa della vecchiaia o delle malattie, non sono più in grado di svolgere i loro compiti. Ma questa, per ora, resta fantascienza.

Fonte: daily.wired.it

 

Immaginatevi un medico che non prescrive più farmaci, ma consiglia piuttosto qualche ora di videogame al giorno. Un'assurdità? Forse, ma qualcuno negli Stati Uniti sta davvero provando a trasformare i giochi interattivi in vere e proprie terapie. È il caso di Brain Plasticity, un istituto di ricerca che ha chiesto alla  Food and Drug Administration (Fda) di valutare uno dei suoi software destinato a aiutare chi soffre di schizofrenia.

Nel 2012 verranno avviati i primi test di controllo per verificare se è davvero possibile equiparare gli effetti di un videogioco a quelli di una terapia farmacologica. Brain Plasticity vuole infatti arruolare 150 persone affette da disturbi cognitivi in 15 diversi stati e invitarli a giocare con il suo software per un'ora al giorno al di fuori dei fine settimana. Dopo sei mesi di prove, nel caso i partecipanti riscontrassero dei miglioramenti nella qualità della vita, il centro di ricerca farà quindi domanda alla Fda per ottenere la commercializzazione come prodotto terapeutico.

La caratteristica chiave dei software terapeutici, come spiega il New Scientist, sarebbe quella di aiutare chi soffre di schizofrenia a superare le difficoltà di apprendimento e sviluppo della memoria comportate dal disturbo. L'obiettivo di Brain Plasticity è quello di capire se qualche ora di attività di fronte allo schermo di gioco possa fare meglio delle terapie a base di farmaci. Un tentativo affatto facile, visto che non tutta la comunità scientifica ritiene che i videogame possano essere utili in questi casi.

Lo aveva dimostrato nel 2010 uno studio pubblicato su Nature, in cui 11.403 partecipanti erano stati sottoposti per 6 settimane a una serie di test pensati per valutare gli effetti del brain training su capacità cognitive chiave, come ragionamento, memoria, livello di attenzione e capacità di interazione con lo spazio. Analizzando i risultati non c'era stata alcuna traccia sensibile di miglioramento. Ecco perché, qualche giorno fa, gli esperti in materia si sono incontrati all' Escons (Entertainment Software and Cognitive Neurotherapeutics Society) per cercare di capire se questo campo di ricerca abbia o meno un futuro.

Ma valutare l'efficacia di un videogame non è semplice. Anche lo studio pubblicato su Nature ha infatti ricevuto molte critiche per il fatto di aver testato gli effetti del brain training solo su soggetti sani. Inoltre, definire le caratteristiche terapeutiche - se esistessero - di un singolo videogioco potrebbe richiedere anni di studio. Un tempo davvero troppo lungo se si pensa che i software di questo tipo potrebbero venire aggiornati con grande frequenza. L'unica vera soluzione sarebbe quella di definire dei criteri generali che tutelino la qualità dei prodotti videoludici, come già fatto per le linee guida stilate dall'Fda per certificare le app mediche.

Fonte: daily.wired.it

 

Non ci crederete ma esistono ancora persone che hanno un cellulare che fa solo telefonate e manda sms, non scatta foto, non registra video, non naviga e non condivide su Facebook. Ci sono persone che in macchina hanno un vecchio stereo con cui ascoltano la colonna sonora di Rocky su cd, che usano lo spazzolino manuale e la scopa per raccogliere lo sporco.

Ci sono persone che vivono come vivevamo fino a 4 anni fa e che non hanno nessuna fretta di essere al passo con i tempi, musicali e tecnologici. Stranamente non sono interessate agli andamenti dei social network e dei nuovi gadget e, per sapere se siete in casa, arrivano al portone e citofonano. Sono persone sospette delle quali diffidare. Alcune quando tornano dall’ufficio non si materializzano sui social per raccontare la loro nefasta giornata di lavoro o per anticipare i grandi progetti per la serata. Un danno enorme per il povero Zuckerberg, che continua a sviluppare nuove applicazioni sperando inutilmente di ingolosirli.

Gli antichi restano incomprensibili, come i canadesi. In Canada non esiste l’espressione parcheggio in doppia fila perché lì questo sport non si pratica. Saranno troppo presi dagli orsi, gli indiani e la neve, ma anche così retrò da sembrare moderni. Ve lo immaginate di vivere in un posto così? Magari anche silenzioso e con l’aria tersa, dove la gente si saluta calorosamente per strada e dove si può lasciare in macchina il giubbotto senza temere che qualcuno sfondi il finestrino per rubarlo.

Però poi a pensarci bene farebbe strano. Un po’ come quando si passa per la Svizzera, così pulita, così ordinata. Potrebbe facilmente venire a noia vivere in un posto del genere. La gente troppo educata è sospetta.  Senza contare che l’auto in doppia fila apre scenari interessanti legati ai numeri dell’occupazione. Ci sono ristoranti che offrono il servizio della doppia fila per i clienti che non hanno voglia di girare in tondo, con tanto di addetto alla gestione crisi. E non si contano i vigili urbani, i rimorchiatori, gli stampatori di libretti delle multe, i costruttori di ganasce, i riparatori di finestrini distrutti da qualcuno con la presunzione di recuperare la propria macchina bloccata. Insomma diciamo la verità: senza la doppia fila avremmo un sacco di disoccupati in più. E non dimentichiamo che non ci sarebbe più nessun motivo di andare a visitare il Canada.

Fonte: daily.wired.it - Licenza Creative Commons

 

Svezia, 1945: i 660 pazienti della clinica psichiatrica Vipeholm, a Lund, vengono sottoposti a una particolare dieta a base di zucchero e carboidrati per valutare le tipologia e la modalità di insorgenza delle carie. In 10 anni di studio clinico le arcate dentarie di ogni singolo paziente vengono praticamente polverizzate. Stati Uniti, 2004: l’equipe di ricerca della Food and Drug Administration analizza i dati clinici di 1,98 milioni di pazienti americani per valutare la possibilità che l’antidolorifico Vioxx, assunto da 20 milioni di americani, stia causando infarti letali. In pochi mesi lo studio di Grahm evidenzia un’incidenza di cardiopatie triplicata tra chi assume il farmaco, senza sottoporre un solo paziente a uno studio clinico controllato.

Questi due esempi, per quanto appartenenti a campi diversi, danno una chiara idea di come la ricerca medica sia cambiata (e stia cambiando) grazie alla digitalizzazione dei dati clinici dei singoli pazienti, sempre più spesso raccolti e rigorosamente archiviati dagli istituti medici, dagli enti di ricerca e dai singoli ambulatori dei medici di base.

C’è chi la chiama e-medicine, chi preferisce cloud medicine, il termine corretto sarebbe data mining based research. Ma il nome in realtà non ha tutta questa importanza, quello che conta sono le potenzialità insite in questo nuovo ambito di ricerca.

Il data mining utilizzato in ricerca medica si basa sull’utilizzo di algoritmi di apprendimento automatico, la cui utilità è quella di sfrondare significative quantità di dati in cerca di pattern che possano suggerire relazioni causali altrimenti impossibili da individuare. Facciamo un esempio: il farmaco A, se preso da solo, funziona efficacemente come antidepressivo, il farmaco B invece aiuta a ridurre il colesterolo. C’è la possibilità che, se presi in contemporanea, questi farmaci diano luogo a un pericoloso effetto collaterale che porta all’aumento del tasso glicemico sanguigno. Se abbiamo a disposizione un numero sufficientemente vasto di dati clinici, possiamo utilizzare degli algoritmi per ottenere una valutazione statistica dell’incidenza di questo effetto collaterale.

L’esempio che abbiamo fatto non è inventato, è il noto caso dell’aumento della glicemia dovuto alla somministrazione combinata di Paxil e Pravachol. Per valutare un simile pericolo (piuttosto serio se il paziente ha il diabete) non ci si sarebbe potuti affidare a un normale studio clinico, a meno di voler coinvolgere migliaia di pazienti, ottenerne il consenso informato, rimborsarli adeguatamente e aspettare mesi, se non anni, per ottenere dati rilevanti.

Insomma, l’obiettivo principale della cloud medicine è quello di velocizzare significativamente la ricerca in campo medico.

L’entusiasmo intorno a questo strumento cresce a vista d’occhio, non passa mese senza che spunti un nuovo algoritmo che consenta un’analisi più rapida ed efficace delle cartelle cliniche elettroniche, oltre che confronti incrociati con i dati genetici del paziente, i trattamenti farmacologici a cui è sottoposto e, in alcuni casi, il suo stile di vita. Lo sviluppo di questi nuovi algoritmi va di pari passo con quello di nuove tecnologie di indagine che stanno rendendo sempre più facile ottenere dati relativi al genoma e al proteoma dell’individuo.

Si potrebbe credere di essere a un passo da una radicale rivoluzione in campo medico. Purtroppo, invece, lo scenario in cui i dati clinici di milioni di persone verranno sfruttati per velocizzare lo sviluppo di terapie per malattie incurabili è ancora piuttosto lontano.

Gli ostacoli che a oggi rallentano la diffusione della cloud medicine sono diversi. In primo luogo c’è un problema di quantità. Per quanto la digitalizzazione delle cartelle cliniche sia alla portata di gran parte dei paesi occidentali, gli istituti che si dedicano ad una rigorosa archiviazione dei dati clinici dei propri pazienti sono ancora troppo pochi. Basti pensare che in Italia solo 4 ambulatori su 10 sono informatizzati (e solo 3 hanno una connessione adsl). E negli Stati Uniti, dove ci si aspetterebbe un terreno più fertile, la situazione non è poi così migliore: due ricerche condotte nel 2009 e nel 2010 rivelano infatti che, nonostante almeno la metà dei medici americani facciano uso di un sistema di archiviazione elettronico delle cartelle cliniche, solo il 10% si serve di un’archiviazione semantica degli Electronic Health Records (Ehr), funzionale a ricerche di data mining.

Il secondo ostacolo ha a che fare con la privacy e, naturalmente, con i giganteschi interessi economici che gravitano attorno alla ricerca medica e farmacologica. Se la cloud medicine può aiutare a determinare in poche settimane se l’assunzione combinata di due farmaci crei pericolosi effetti collaterali, può anche essere sfruttata per velocizzare il processo di approvazione di un nuovo farmaco. Se i dati sensibili che condividete in rete sono considerati oro per alcune compagnie della Sylicon Valley, provate a immaginare quanto può valere la vostra cartella clinica per una casa farmaceutica. Insomma gli interrogativi, in termini di privacy si sprecano: quali e quanti dati clinici possono essere resi pubblici? Le cloud mediche dovrebbero essere pubbliche o private? In che modo verrà assicurata l’anonimità delle diagnosi e dei trattamenti?

Mentre i fautori più entusiasti della cloud medicine si scervellano per trovare un sistema per eliminare il problema privacy, una valida alternativa potrebbe arrivare dal self-tracking.

I dati che migliaia di pazienti annotano di propria sponte su piattaforme come CureTogether, rappresentano una risorsa enorme per la ricerca medica, e se il numero di self-tracker aumentasse in modo significativo, la cloud medicine assumerebbe la forma di uno sconfinato laboratorio di ricerca sparso per la rete.

Ma anche in questo caso, un interrogativo rimane: nel caso in cui i dati condivisi spontaneamente dai pazienti portassero allo sviluppo di un nuovo rivoluzionario farmaco, chi sarebbe il detentore morale del brevetto? I pazienti che hanno condiviso la propria condizione, oppure la casa farmaceutica che ci macinerà sopra cifre milionarie?

Fonte: daily.wired.it

 

Una superficie che nessun liquido può macchiare, nemmeno sangue o petrolio. Sono solo alcune delle future conquiste promesse da Slips (Slippery Liquid-Infused Porous Surfaces) il materiale avveniristico realizzato dai ricercatori in scienze dei materiali della  Harvard School of Engineering and Applied Sciences e presentato su Nature. Il materiale altamente tecnologico ottenuto dagli scienziati americani è in realtà ispirato alla natura. Precisamente alla pianta cobra, un tipo di pianta carnivora che, per catturare gli insetti di cui si nutre, li attira sulle sue foglie sdrucciolevoli e poi li fa scivolare, inesorabilmente, nel suo tubo digestivo.

“Sfruttiamo, per il nostro Slips, un principio simile, ma il nostro materiale addirittura supera nelle prestazioni la natura, e fornisce una soluzione versatile e semplice per la repellenza di liquidi e solidi”, ha spiegato Joanna Aizenbberg, a capo del gruppo di ricerca.

La pianta carnivora crea un rivestimento liscio nella parte superiore delle sue foglie, in modo che il fluido diventa, in un certo senso, la vera superficie idrorepellente. “ Nel caso delle formiche, l’olio sul fondo delle loro zampe non fa presa sul rivestimento scivoloso della pianta. Come una sorta di olio che galleggia sulla superficie di una pozzanghera”, continua Aizenbberg.

I ricercatori hanno creato dunque un rivestimento superficiale eccezionalmente scivoloso dopo aver infuso un materiale poroso nanostrutturato con un liquido lubrificante. Dopo essere stato applicato, Slips, come per la pianta carnivora, crea uno strato che fa scivolare un’ampia varietà di liquidi e solidi, non esercitando quasi alcuna ritenzione e presentandosi come una superficie praticamente senza nessun attrito.

Non si tratta certo della prima superficie repellente inventata. Finora, gli scienziati si erano ispirati al loto, che è capace di respingere l’acqua grazie alla minutissima trama delle sue foglie, che, appunto per effetto loto, crea cuscinetti d’aria che fanno rotolare via le goccioline.

Ma l’effetto, riprodotto in laboratorio in materiali nanotecnologici, non funziona altrettanto bene con i liquidi organici o complessi. Inoltre, se la superficie è danneggiata, per esempio graffiata, o se ci sono condizioni ambientali estreme, le gocce di liquido tendono ad affondare nella tessitura, piuttosto che a rotolare via.

“Slips, invece, è intrinsecamente liscia e priva di difetti”, spiega Tak-Sing Wong che ha collaborato allo studio: “ e anche dopo un danno al campione con raschiatura con un coltello o una lama, le superficie era quasi istantaneamente riparata e le qualità repellenti rimanevano intatte. Insomma si verificava una sorta di auto-guarigione”. A differenza delle superfici che sfruttano l’effetto loto, inoltre, SLIPS può essere prodotto in modo da risultare otticamente trasparente, e quindi ideale per applicazioni superfici ottiche e autopulenti.

DAILY WIRED NEWS TECH
Dalle piante carnivore, un materiale super scivoloso
Non si macchia e si ripara da solo. Queste le proprietà della nuova superficie creata da ricercatori di Harvard. Ecco come funziona
22 septembrie 2011  di Stefano Pisani
L'effetto repellente, inoltre, persisteva anche in condizioni estreme come pressioni elevate (fino a 675 atmosfere, pari a sette chilometri sotto il mare) alta umidità e temperature più fredde. Il team ha infatti condotto anche test dopo tempeste di neve e il materiale ha resistito al gelo e respinto il ghiaccio.

I ricercatori prevedono che SLIPS potrebbe un giorno essere usato per i tubi per il trasporto di combustibile e acqua, o per cateteri e sistemi di trasfusione di sangue, che a volte compromessi da indesiderate interazioni liquido-superficie. Altre potenziali applicazioni includono vetri auto-pulenti, superfici che resistono batteri e altri tipi di incrostazioni, materiali anti-incollamento e superfici che respingono impronte digitali o graffiti.

Fonte: daily.wired.it - Credits per la foto: Getty

 

Gli attivisti della Peta (People for the Ethical Treatment of Animals) ci avevano già abituati a trovate propagandistiche basate sul nudo femminile (ne sa qualcosa anche Elisabetta Canalis), ma ora hanno deciso di osare ancora di più. L’idea è quella di lanciare sfruttare al volo la nuova possibilità dei domini .xxx per creare un vero e proprio sito a luci rosse. Ma nel nome dei diritti degli animali.

File:Silver-Spring-monkey.jpg

PETA distributed images of the monkeys with the caption, "This is vivisection. Don't let anyone tell you different."

L’ennesimo tentativo di campagna shock prevede l’accostamento di materiale pornografico e immagini di animali maltrattati. Una trovata che, prima ancora della realizzazione, ha già attirato le ire dei movimenti per i diritti delle donne.

" Speriamo di raggiungere una nuova audience, e di colpirli con immagini che non si aspettavano di vedere su un sito XXX," ha detto Lindsay Rajt, direttore delle campagne della società non profit.

Ma è giusto sfruttare e strumentalizzare il corpo femminile, per sensibilizzare invece gli spettatori sulla questione dei diritti degli animali? Facebook pullula di gruppi contrari e anche Jennifer Pozner, fondatrice di Women in Media and News (Wimn) non fa mancare una replica piccata: “ Peta ha sempre usato il sessismo come strategia di marketing per richiamare una forte attenzione, facendone un uso sempre più estremo e degradante”.

I documenti per aprire un dominio .xxx sono però già stati depositati e l’indirizzo sarà attivato a inizio dicembre. Il dibattito, nel frattempo, continua, e alla Peta questo non può che far piacere.

Fonte: daily.wired.it - Credit per la foto: Peta

 
By Admin (from 05/01/2012 @ 14:05:24, in it - Scienze e Societa, read 3404 times)

Doppio flash. Dunque un' esplosione nucleare. La prima interpretazione di quell'anomalo bagliore sotto la punta del Sudafrica, vicino alle isole del Principe Edoardo, fu la più drastica e anche la più ovvia. A rivelarlo, alle 3:00 ora locale del 22 settembre 1979, era stato il satellite Vela 6911, membro dell'omonima famiglia di una dozzina di esemplari lanciati nello Spazio a partire dal 1963 dal governo americano per rilevare eventuali test nucleari in terra o nell'atmosfera (il Partial Test Ban Treaty era infatti appena stato firmato). Da allora erano state già 41 le segnalazioni nel corso degli anni, tutte confermate, e l' incidente di Vela (come passerà alla storia l'evento del 1979) era sul punto di diventare il quarantaduesimo. Se non fosse che quella volta i conti decisamente non tornavano.

Il satellite Vela 5b rappresentato nello spazio.
Uno degli elementi della famiglia Vela lanciati dagli Stati Uniti per rivelare eventuali test nucleari (Credits: Los Alamos National Laboratory/NASA).

Primo: nessuna sostanziale registrazione sismica né segnali idro-acustici erano stati rinvenuti nell'area di quasi 5mila chilometri interessata dalla possibile esplosione (tranne un piccolo botto ascoltato da alcuni idrofoni nei fondali marini). Insomma la detonazione era data per scontata (e i colpevoli ricercati tra Israele e Sudafrica) ma non sembrava aver fatto rumore, né aver scosso la terra, secondo quanto riferiva il primo report ufficiale sull'accaduto del National Security Council. Secondo: i due bhangmeter montati su Vela 6911 (sensori ottici pensati per individuare i due flash caratteristici di un'esplosione nucleare) avevano sì registrato due eventi luminosi, ma in modo diverso l'uno dall'altro. Certo, si trattava di una strumentazione datata (il satellite era partito circa 10 anni prima, andando decisamente oltre l’iniziale aspettativa di vita di 18 mesi). Ma c'era anche un terzo punto che non collimava.

Gli uomini dell'intelligence americana spediti in quel luogo alla fine del mondo, per cercare una qualsiasi traccia di materiale radioattivo su piante e animali, tornarono a casa a mani vuote, o quasi (vennero rinvenute solo tracce di iodio 131 in alcune pecore australiane). Quarto, il gemello di 6911 (i satelliti Vela venivano lanciati in coppia) non aveva visto nulla. Quinto: anche la perturbazione nella ionosfera osservata dal radiotelescopio Arecibo quel giorno di settembre - uno dei punti che sembrava favorire l'ipotesi di una detonazione nucleare - benché anomala non indicava necessariamente un'esplosione, secondo gli esperti.

Questo, e la mancanza di colpevoli dichiarati, spinse gli Usa a rimettere mano al loro giudizio. Già nel 1980, infatti, la loro posizione era completamente cambiata: accanto all'ipotesi di un'esplosione nucleare si faceva largo l'idea che quel flash sull'Atlantico potesse essere stato solo un “falso allarme” (in pratica un malfunzionamento della strumentazione a bordo di Vela 6911) o un evento di “origine naturale”, come l'impatto di un meteorite sul satellite. Se infatti Vela 6911 fosse stato colpito, parte della sua strumentazione poteva essere stata compromessa, addirittura rotta e dispersa. E quei flash allora? Solo la luce del sole riflessa come in uno specchio da alcuni detriti spaziali. Oppure un'esplosione, sì, ma del meteorite spaccato in due.

Fonte: daily.wired.it

 
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